[Pubblico la prefazione all’antologia Tu sei lei, il “Best Off 2008” di minimum fax (€ 11.50), che ho curato. Il libro presenta otto scrittrici italiane contemporanee, che pubblicano racconti, micropièce teatrali, testimonianze di work in progress da romanzi-poema. L’atto, tuttavia è letterario in quanto politico. Per questo motivo mi sembra opportuno darne testimonianza qui. gg]
Io sono loro
In un periodo di emergenze — individuali e collettive, sociali e psichiche, ambientali in una senso catastrofico — ciò che è politico si restringe alla risposta all’emergenza. Ecco perché questa antologia, che raccoglie testi di otto scrittrici italiane contemporanee, è automaticamente un libro politico.
Lo è, anzitutto, perché è devastante ciò che siamo costretti a nominare, ad altezza 2008, “questione femminile”: ancora una volta, dopo tutte le conquiste ottenute dai movimenti di emancipazione, da donne e uomini che ci hanno preceduto, e dopo l’esplosione di studi appositi caduti sotto l’etichetta sbagliata “genderismo”, ancora una volta ci troviamo a fronteggiare una “questione femminile”. La colpa è di chi non ha saputo comprendere a quali conseguenze andavano incontro sismi sociali come quelli fortunamente imposti dai movimenti di liberazione e non ha vigilato su tali dinamiche conseguenze, non essendo capace di vedere che, nonostante le apparenze, un’immensa discriminazione e un’incontenibile violenza colpiva ragazze e donne: i colpevoli sono dunque ben individuabili — siamo noi. Noi chi?
Anzitutto la generazione che ha prodotto mutamenti e poi ha lasciato la presa, abbandonando a se stesse le conquiste. L’esistenza odierna di una “questione femminile” decreta il fallimento non delle lotte, bensì di ciò che doveva accadere dopo di esse — cioè l’innesco virtuoso, in Occidente, di un movimento del tutto spontaneo di appropriazione della vivibilità del mondo in quanto donna. In quella generazione che addito come colpevole, seppure meritoria dell’immensa quantità di energia sociale espressa per giungere all’esito della conquista di diritti che il buon senso e la civiltà devono volere — in quella generazione si annidano le teoriche e i teorici che hanno isolato, tematizzato, cristallizato una dinamica politica, ci hanno costruito sopra la più inutile e berciante delle discipline, che ora ha conquistato nel mondo anglosassone perfino lo statuto di baronìa universitaria: parlo degli “studi di genere”, che culminano con la grottesca espansione di corsi dedicati a Madonna — non la Vergine cristiana, bensì la cantante. Dalla torsione che Julia Kristeva praticò su Lacan, fino alle ipostasie di Donna Haraway e ai suoi teoremi cyborg, è accaduto esattamente ciò che accadde allo strutturalismo: da un nucleo vivente, si giunge al manierismo, che perde di vista la realtà. I “gender studies” hanno perso di vista la realtà. Judith Butler può teorizzare quello che vuole, ma fa la figura del Socrate che Aristofane piazza nel frontisterion, un pensatoio sospeso, lontano dalla terra. La società consumistica e mercantilista in cui viviamo favorisce questa deriva: che gli intellettuali pensino, intanto… Intanto cosa?
Il Ministero della Salute italiano dichiara che la violenza sulle donne, tra i 15 e 44 anni, uccide come il cancro. Secondo un rapporto dell’Istat (2007), il 70% degli omicidi in casa (un quarto del totale degli omicidi nel nostro Paese) ha come vittima una donna. Il medesimo rapporto sottolinea un dato che sconcerta solo chi non abbia realmente compreso dove e come vive: più di un terzo delle donne tra i 16 e 70 anni ha subìto violenza fisica o sessuale nella propria vita. Certo, non siamo messi come il Congo, dove l’80% delle ragazze sotto i 18 è stata stuprata o sta per esserlo: ma in Congo nessun movimento di liberazione della donna ha finora avuto vita né ottenuto i risultati sociali sortiti invece in Occidente e in Italia. Tra i consumatori di psicofarmaci, le donne ottengono una significativa maggioranza. Sono le donne a ricorrere in maggior numero alle psicoterapie brevi o lunghe. Insieme alla violenza fisica, esiste un’emergenza psichica. C’è un’urgenza che esplode tra le mura di casa. C’è un silenzio che le donne, vittime di violenza, si autoimpongono o che viene loro imposto. C’è, come si diceva, una “questione femminile”. E’ uno stato di regressione — diritti buttati al vento, ma non platealmente: nel silenzio, nella routine, nell’ipocrita spontaneità del giorno che viene.
Gettate via ogni testo genderista, se ne avete studiati. Bisogna tornare al Secondo sesso di Simone De Beauvoir. Poiché siamo in regressione, è da lì che bisogna ripartire. Con una sintesi formidabile, Babsi Jones, una delle scrittrici qui antologizzate, dichiara in un’intervista rilasciata a Vanity Fair a proposito del suo libro:
“La scelta di creare quattro donne come protagoniste del romanzo è ponderata e politica: noncurante de Il secondo sesso di De Beauvoir, la nostra società concepisce donne-angelo del focolare, donne-oggetto, donne-amazzone, donne-musa, donne-qualcosa che non è mai tutto, ‘femmine’ che sono frammenti di un non-essere. Non sono persone, non c’è alterità. Le donne sono libere, ma libere per niente: ancora non si riconosce a Woolf e a Wolf, a Kane e a Plath, a Kahlo e a Claudel il diritto naturale di sedere nell’Olimpo dell’arte. Siamo, noi donne, ancora buffi animaletti da scrutare, temere, tenere a bada. Nel mio libro i maschi sono quel che le donne sono nella realtà odierna: marginali, accessori. Chiamala vendetta, se vuoi. Il potere della scrittura è anche questo: rivendicare, accusare. Ho voluto un capitolo sul mestruo, ho voluto un capitolo sull’abbandono coniugale: anche questo è guerra. Donne spezzate, incapaci di dire, tossiche, donne che impugnano armi e sparano, donne che svelano gli imbrogli militari, donne che stracciano i capolavori della grande letteratura per farne un falò. Voglio scrivere di quel che non si scrive, di quel che raramente si può dire: i mutilati, i paria, gli esclusi, i caduti. E le donne — per intero, senza le maschere che di volta in volta sono costrette a indossare per provare di esistere”.
Qualcosa si muove, manifestazioni pubbliche (non propriamente oceaniche) vengono organizzate, si inizia a prestare orecchio alle denunce di Amnesty International, interviene il Capo dello Stato. Non basta. Non basta perché è proprio qui l’errore fondamentale dei teorici e delle teoriche del “genere”: mancano le pratiche vitali, non c’è indicazione sulle pratiche vitali da attuare e non viene dato rilievo a chi, tali pratiche, le sta realizzando sotto gli occhi di tutte.
Questa è un’antologia di scrittrici e quindi è il caso di provare a non generalizzare oltre l’ormai ristretto àmbito (una nicchia di mercato) della cultura. Osserviamo cosa accade in questa nicchia. Le scrittrici italiane, e non si intenda solamente quelle qui antologizzate, stanno trainando il carro dell’innovazione culturale, della sperimentazione dei linguaggi e dell’affrontamento dei temi. Tutto ciò è per caso visto? Sfogliate le pagine culturali dei giornali, gli inserti letterari: alle scrittrici italiane (intendo le serie scrittrici e non i fenomeni di mercato) viene dedicato pochissimo spazio. Si ragiona assai poco su quanto le scrittrici fanno. Sembra che siano indistinguibili dai colleghi maschi, a parte il fatto che dei colleghi maschi si parla e di loro no. Invece non è così: c’è più arditezza, c’è più tragedia, c’è più capacità di erompere dalla consuetudine pacificante e pacificatoria con l’esistente. Alle scrittrici italiane andrebbe riconosciuto pubblicamente un ruolo di prim’ordine nella letteratura occidentale contemporanea. Invece alcuni loro capolavori vengono messi fuori catalogo, resi introvabili. Il testo di una scrittrice non ha valore in quanto è creato da una scrittrice, ma il fatto che venga imposto l’oblio su di esso ha un ritorno sintomatico esplicito, mentre si elevano a quegli altari che sono le pile dei libri che vendono, titoli di cui autrici sono più o meno ragazzine del tutto omogenee alla legge dell’esaltazione pornografica — un altro elemento psichico ed emotivo con cui il sistema sociale aliena, controlla e impone ansia di prestazione alla socialità. Il pensiero e la scrittura al femminile esistono? Non lo so e poco mi interessa: uno scrittore è uno scrittore. Kathy Acker, che riscrive il Don Chisciotte in una saga che ruota attorno all’aborto è una donna, ma mentre scrive è chi scrive: priva di genere. Questa è la mia personale impressione, a cui allego l’osservazione che, se una differenza esiste tra scrittura al femminile e scrittura al maschile, essa risiede nel complesso corollario di fantasie, nel mundus imaginalis che, sempre a mio avviso, non è il cuore della scrittura, ma comunque fa la scrittura. Però, appena uscita dal momento in cui scrive, quando pubblica e quando viene venduta, la scrittrice è anche e soprattutto una donna. Che ciò che ha scritto non si attagli ai canoni di vendibilità delle scrittrici da mercato, a cui si chiede sesso autoriale senza tanti giri di parole (e lo si chiede anche ai colleghi maschi), questo è il sintomo di una gravissima patologia, che inibisce il pensiero sociale (se ancora ha vita) e i gangli dell’industria culturale (che hanno una emivita: una vita meccanica). E’ inutile rivelare che, nella cucina editoriale, la prima domanda che si fa, quando si propone il manoscritto di un’autrice, è: “E’ figa?”. Questo perché moltissima parte dell’editoria è in mano a maschi. Magari maschi che hanno partecipato alle lotte di liberazione, maschi progressisti o che si dichiarano tali.
Questa idra che divora. Questo mostro a milioni di teste che siamo, che siamo diventati. Questa ghigliottina: la ghigliottina non sa che taglia teste. noi siamo una ghigliottina.
La risposta del Best Off 2008 sta tutta nei testi: cioè in una pratica: nella scrittura. Il potere della letteratura è profondo e insondabile. La sua emblematicità fa, del granello di senape, un albero di senape, che è immenso e molto ramificato. E’ il cristallo di neve che si smuove e, a catena, sommuove la slavina. Chi ha fiducia nella letteratura, spero, troverà in questi testi un’adeguata risposta politica, in quanto artistica, a urgenti questioni che concernono la donna e, insieme, tutta la società: poiché la “questione femminile” non è un unicum disgiungibile dalla vita vivente di una comunità. Così come la “questione artistica”, che proprio questa società solleva, credo per la prima volta da quando l’uomo ha eretto il suo regno su questo pianeta, per la prima volta messo a repentaglio da una società umana: questa stessa.
Anche se sussurrata oppure fredda e distaccata oppure viscerale e sperimentale, considerate la letteratura di questa antologia come un urlo. Si urla anche tacendo. Qui si urla scrivendo.
Ho nominato una “questione artistica”. Essa risiede nel non riconoscimento che la società di mercato conferisce agli scrittori, ai performer, ai musicisti, a chi si occupa di arti plastiche, ai pittori. Certamente, si celebrano i talenti. Però l’opera è portatrice di una misteriosa domanda che conduce a un’altrettanto misteriosa verità, esorbitante ogni linguaggio: tale statuto è oggi misconosciuto. E’ misconosciuto da critici, mercanti, fruitori. Non nella totalità dei casi, ovviamente. Però è inutile nascondersi che, di quanto fa Anselm Kiefer, uno dei più importanti artisti contemporanei, alla società importa una pippa. Ai committenti importa, ma non nel modo in cui dovrebbe importare. E’ tutto estetizzato e l’arte non è soltanto estetica. E’ possibilità di verità. La società alienante, in cui, più che vivere, mi viene da dire che versiamo oggi, non riconosce un simile potere di verità all’artista, poiché essa immagina che lo stato di cose presente sia la norma del tempo e duri indefinitamente. E’ un grave errore del nostro presente pensarsi assoluto.
Una delle modalità di comunicazione che imporrebbero il mutamento è, in questi anni e indubitabilmente, la Rete. Lo è stata, nei decenni trascorsi, la televisione. Ebbene, ecco la fisionomia della “questione artistica”: quando e dove i linguaggi televisivo e web sono stati utilizzati per fare arte? Essi inducono a specifici innovativi: quale artista ha creato l’opera con questi linguaggi? Se si esce da un’ideologia del popolare, per cui Lost può essere interpretabile come arte (però già ora non lo è più il pop di Goldrake: basta attendere venticinque anni e quel pop non è più arte. Accadrà anche ai sostenitori di Lost come opera d’arte. Il tutto senza inficiare l’importanza del pop, che entra nell’arte e non è arte), se si abbandona ogni postmodernismo farlocco, si osserverà che con la tv si osserverà che con la tv ci sono solo un paio di artisti che hanno compiuto un’opera d’arte: uno è Kristof Kieslowski con il suo Decalogo, che sono episodi pensati per e trasmessi dalla tv polacca, poi esorbitati al cinema, dove però si perdeva l’equilibrio della luce che il piccolo schermo esige. L’altro è David Lynch, con la serie Twin Peaks, altro inarrivabile esempio di rivoluzione del concetto di serial televisivo nel suo funzionamento a scatole cinesi, in cui la risoluzione di un mistero legato a un personaggio sfocia nello scheletro nascosto dell’altro. Fino ad arrivare alla soluzione del mistero principale: chi ha ucciso Laura Palmer. Un’altra storia di violenza in cui la donna, da sorta di carnefice, si scoprirà vittima.
Per la rete siamo allo stesso livello, meno Kieślowski e Lynch: nessuno fa arte con lo specifico della Rete. Su Internet sono milioni le pagine a carattere artistico: racconti, feuilleton, romanzi interi o a puntate, quadri, foto, film e fiction, musica. Sì, ma questi sono linguaggi che appartengono ad altri àmbiti. L’àmbito della Rete, lo specifico del Web: dov’è? Perché non viene intercettato, utilizzato, espresso in forma artistica? La domanda può apparire oziosa. Poteva apparirlo anche se formulata agli esordi del mezzo televisivo: oziosità che ha prodotto un condizionamento vorace, una contrapposizione devastante tra artisti e tv, oltre che dichiarazioni di impotenza da parte degli intellettuali.
Il Best Off di minimum fax, fino a questa edizione, raccoglieva il meglio che testualmente veniva prodotto in Rete e sulle tradizionali riviste in formato cartaceo. E’ stata esplicita richiesta del curatore di questa edizione dell’antologia non raccogliere testi da Internet, ma commissionarne ex novo. Poiché è un’ipocrisia che quei testi fossero in Rete. Sembravano in Rete, ma non erano soltanto in Rete. Chi fa la Rete, chi fa i blog sta operando su un medium che è morto dal punto di vista artistico e specialmente da un punto di vista letterario. Che si cianci di Web 2.0 perché arrivano YouTube o i network come Facebook, è un fatto di hardware: la banda è sempre più larga, adesso si uploadano e downloadano contributi video. Addio testi. Il Web 2.0 se ne fotte ampiamente dei testi. Una pagina meramente testuale viene definita dagli addetti di Rete già ora come “vecchia”. Ciò accade perché la Rete, insostituibile strumento di avanguardia e pratica della rivoluzione comunicativa e dello stravolgimento politico, non è vista dagli intellettuali e dagli artisti in tutte le sue potenzialità. La Rete è in grado di fare esplodere il testo, l’immaginario che il testo irradia. Valga per tutti l’esempio di www.manituana.com, il sito ufficiale del romanzo scritto da Wu Ming: colonne sonore, disegni, mappe, storie collaterali, deviazioni narrative, installazioni animate legate al libro e che il libro non può contenere — l’opera dilaga.
Per questo motivo, con modalità e tempi del tutto peculiari, il Best Off 2008 rovescia il suo statuto: aggredirà la Rete, anziché trarne contenuti. E’ un gesto, al solito, minoritario ed emblematico. Però è un gesto politico: poiché è in Rete che sta formandosi oggi, a detta di chi scrive, ciò che sarà presto centrale nella vita politica della comunità che viene.
Le autrici di questa antologia costituiscono, con i loro testi, una proposta collettiva. Sono immaginari che esplodono, forme che aggrediscono attraverso il proprio statuto di verità: che è tragedia, anche quando si sfiora il comico o l’equivoco, che costituiscono un elemento fondante del tragico. Per quanto le autrici qui presenti siano otto, lo spettro di poetiche e modalità formali è amplissimo. Si misura così lo sforzo di innovazione e di indentramento nella tradizione letteraria che tutte le scrittrici italiane stanno compiendo (penso soprattutto all’autrice più tragica di cui disponiamo in Italia, Valeria Parrella, e a quella più vibratilmente innovativa nel solco della tradizione, Letizia Muratori, che il curatore avrebbe desiderato partecipi di questo progetto). Qualcosa è necessario che si dica intorno ai testi di queste scrittrici, che personalmente ammiro e bonariamente invidio per quanto hanno fatto e stanno facendo per la nostra narrativa.
Alina Marazzi è all’esordio narrativo. In realtà la narrazione non è un’esclusiva della letteratura e Marazzi ha già abbondantemente narrato, con la sua opera cinematografica, che ha, a mio avviso, un acme non prescindibile in quel capolavoro di introspezione e amore che è Un’ora sola ti vorrei. Nel racconto che qui pubblica, non si coglie fino a quale punto il vero sia verisimile o finzionale. Il gelido resoconto diaristico di una maternità difficoltosa, l’odio esasperato per l’assenza della figura maschile (un’assenza che è violenta e intrusiva) — tutto converge in una coincidenza tra amore e desiderio di eliminare la persona che non è più frutto di amore, cioè il piccolo figlio. La prensione è sociologica, se si pensa alla frequenza dei casi di madri che uccidono i propri figli. In questa glaciale sociologia, riverbera l’eco mitica: qui si inscena una Medea contemporanea, con il vantaggio che la figura mitica non genera il racconto, ma ne emerge spontaneamente, come tutte le tracce univesali emergono in letteratura. Ciò che Marazzi compie è il contraltare proprio di Un’ora sola ti vorrei — stralci di diario e lettera in cui si delinea una vicenda di depressione, inadeguatezza, violenza verso se stesse e verso l’altro, senso di colpa, abbandono.
Babsi Jones propone una breve pièce teatrale in due atti: è la morte di Babsi Jones, lo pseudonimo della scrittrice autrice di Sappiano le mie parole di sangue. Se Babsi Jones muore, se muore la scrittrice (che monologa nel primo atto), il passaggio a un’ulteriore fase della scrittura significa l’uscita dalla narrativa letteraria. E’ una scena interiore, quella in cui si muovono personaggi che sono l’autrice e anche non lo sono: Stella, per esempio, la sorella di Babsi, è lo psudonimo che l’autrice utilizzava in gioventù, quando assorbiva letteratura a ritmi impressionanti ma faceva altro; la madre è la Madre; Veronica detta Vera esprime una finzione totale, esprime cioè il falso. Il testo diventa alieno dai canoni del racconto, perché esige di essere rappresentato dal vivo, in una performance dove corpo, voce, posture vanno a riempire i vuoti di una letteratura su cui viene formulata un’implicita e profonda accusa: la letteratura è debole se non sorretta da un pervasivo nucleo metafisico. Lo sguardo, credo, è all’atteggiamento di Grotowski verso i testi letterari, all’arte come veicolo: veicolo di cosa? In questa domanda inespressa ma presente si gioca il potere di ciò che è scritto o agito come arte. In pratica: è messa in scena una prima morte, una reincarnazione in vita, un passaggio, una conversione. Da rilevare: il maschio è assente, le donne tradiscono le donne, le aggrediscono — la comunità femminile salta nella contemporaneità che sceglie il finzionale come propria piattaforma sociale.
Carola Susani allestisce una microsaga che utilizza mezzi espressionisti in piena coscienza di cosa significa la tradizione prosastica (ma anche teatrale) italiana. Il lessico e i ritmi impiegati da Susani ottengono un duplice effetto: comico (ci sono passi che piacerebbe vedere recitati da una Tina Pica risorta o da un Eduardo travestito) e tragico (non solo per l’esito, ma per l’andamento tutto del racconto). Anche qui è un rapporto da donna a donna che trionfa, nella sua commovente evoluzione. Addirittura: un rapporto tra una donna diseredata delle proprie origini, un’infermiera professionale giunta clandestina dall’Ucraina, e una donna diseredata del proprio passato. Il maschio è aggredito, è escluso, è ridicolmente maligno: è definitivamente respinto. Susani, che è una scrittrice sapientissima, alterna i registri, li fa implodere per poi condurli all’acme, usa il basso parlato non soltanto in funzione comico-grottesca, ma lo manipola per fare esplodere il silenzio della tragedia, che non preme affatto ab initio. La sorpresa, tuttavia, è quanto già sappiamo. Questa costruzione, che non è mimetica e non è fantastica, apre una possibilità narrativa attraverso cui il romanzo suppostamente postmoderno andrà a sciogliere le proprie autoconsapevolezze deprimenti, per raggiungere la propria verità: che è l’umano allo stato puro.
Donata Feroldi esordisce nell’àmbito della scrittura creativa con una consapevolezza sbalorditiva. Gli estratti da un work in progress a cui sta lavorando rappresentano una sfida alla critica, certo, ma il guanto schiaffeggia anzitutto gli scrittori. Si tratta evidentemente di un racconto autobiografico, e di fatto non lo è. La fittissima trama di allegoremi e metafore costituisce un tessuto che dà forma a un dramma storico, personale, civile, metafisico. Il rapporto della “ragazza-cane” col mondo, e con ciò che giustificherebbe la legittimità del mondo, diviene un paesaggio sterminato, di incantevole ma traumatica bellezza, linguistica e immaginativa, dove la violenza all’“io”, l’invasione dell’esterno, la mutilazione, l’abbandono per aggressione hanno un canto che lascia sbigotitti per sapienza narrativa. Questa sapienza narrativa si traduce, come si diceva, in una sfida: che cos’è questa scrittura che Feroldi lancia verso chi legge? E’ un romanzo? E’ psicologica? E’ racconto contemporaneo? E’ la scrittura come performance? E’ prosa poetica? E’ poesia? Crollano i generi a cui si appiglia disperatamente la critica, perché qui il nucleo veritativo della letteratura è la stessa superficie testuale. C’è Brancusi insieme a Hugo, c’è Rothko insieme a Benjamin in questo genere di nuova e antica specie. Lo spazio che apre Feroldi è una porta stretta attraverso cui, per quanto pensa il sottoscritto, la letteratura artistica dovrà passare non in un futuro remoto: credo che sia adesso il momento in cui affrontare il non sapere, la sospensione di giudizio che implica un simile testo.
Esther G. è un’altra esordiente che si presenta in questa antologia. Il suo racconto è un vortice, una spirale: non è un racconto. Esige di non essere un racconto, poiché tenta di sperimentare la scrittura in un’assenza di tempo e, contemporaneamente, nella storia personale: qui è indistinguibile il padre genetico dal Padre archetipico. L’annullamento della morte, della colpa, l’assunzione della colpa come alimento della rinascita compulsiva, penosissima, mettono in luce un ulteriore dramma (che sia femminile è indifferente, poiché il Padre agisce sul Figlio come sulla Figlia, in questo caso). Tutto è conchiuso dall’inizio, la spirale non è un frattale, e l’utilizzo di una lingua atipica, di registri contraddittori, di lessemi spiazzanti indicano un allontanamento consapevole dalle parole, che non possono esorbitare in uno spazio privo di tempo, dove la tragedia della Figlia e del Padre si consuma. Questa Antigone disperata, arrecatrice di speranza, individua nuovamente lo spazio mitico nel presente e lo fa con correttezza filologica: lo spazio del mito è interiore e, per questo motivo, assoluto. Con la clausola che ciò che è assoluto non è in prima battuta assolutorio.
Federica Manzon, che a settembre 2008 pubblicherà un romanzo presso un importante editore, scrive un racconto “a giro di vite”. Il suo protagonista maschile è attratto da un buco nero che, nel momento in cui si manifesta effettivamente, impressiona: l’umano è indiscernibile dal non-umano, il sospetto, anzi la certezza, dell’indistinzione e dell’invasione tra i poli dell’umanismo e dell’antiumanismo viene fatto esplodere in questa storia che si gioca attraverso un esotismo detrimentoso, per nulla idilliaco, sconcertante perché non concede punti di riferimento: una storia pregressa, al lettore non nota, preme su tutta la vicenda. E’ notevolissimo come questo “giro di vite” venga linguisticamente realizzato da Manzon: attraverso una scrittura trattenuta nella sua perfezione ortodossa, nella sua ineccepibilità stilistica. L’effetto paradosso è garantito e la domanda se lo stile rappresenti ancora una verità, o almeno una difesa psichica, è avanzata.
Helena Janeczek, che nei suoi “romanzi” (sono romanzi e non lo sono — è stata la prima scrittrice contemporanea ad ribadire lo squarcio) utilizza una lingua che non è la lingua madre, è spesso ricorsa all’espressionismo per fare giungere il lettore a vertigini quasi insostenibili (si consideri l’appendice a Cibo, il suo libro più recente). Il fatto che Janeczek sia anche poetessa riconosciuta le dà agio di mutare facilmente i protocolli stilistici? No. E’ con una pressione fortissima che l’autrice scrive il racconto qui presente: una pressione linguistica e immaginale. E’ una sorta di postura à la Houellebecq, in un luogo e in una situazione che i conoscitori e gli ammiratori della letteratura di Janeczek non si attenderebbero. Si è in Madagascar e si ha paura, poiché sembra di pattinare su una superficie di ghiaccio, e il ghiaccio è interiore ed estraneo alla protagonista, inserita in un triangolo per nulla filadelfo, che installa, una volta di più, la tragedia secondo un climax non tragico. La tragedia non incombe e, quando esplode, è ignorata, relegata allo spazio vergognoso in cui sono pressate le junkie humanities. Il sollievo per la salvezza è sbilanciato da una tragedia che sarebbe ignorata, che di fatto ogni giorno viene ignorata. Eppure nulla è sociologico in ciò che muove la scrittrice tra elementi che potrebbero apparire sociologici e, di fatto lo sono: è proprio attraverso ciò che viene mutuato (l’innesco cronachistico, per esempio), che Janeczek fa penetrare l’altro: cioè, ancora una volta, il disumano nell’umano.
Veronica Raimo, dopo avere pubblicato con successo Il dolore secondo Matteo, scrive del dolore secondo lei. Ed è una storia di abbattimento e violenza, di riscatto e vendetta che è cieca, non tanto per le modalità, che appaiono casuali coincidenze, quanto perché la vendetta non mira a nulla, a nessun esito concreto, nemmeno al guadagno e alla pacificazione interiore: il suo termine è un tremolio indeciso, una porta che rimane aperta, un’immagine del passato che rimanda a un futuro da vivere. Il tutto è condotto con una lingua che potrei definire esatta, indefettibile — il segnale di una consapevolezza precoce, che si situa come il prossimo confine da superare. Esorbitare dalla consapevolezza è già in questo racconto il cuore della scrittura di Veronica Raimo, proprio per la rappresentazione su schermo di una vicenda che strappa alle strategie la propria verità e si espone nuda com’è la consapevolezza, prima che la si avverta come un vestito, eventualmente da strappare. Talento linguistico indiscusso, quest’autrice, con la domanda profonda che costituisce il finale del suo racconto, indica una strada percorribile, da percorrere.
Il filo rosso che lega tutti questi racconti non è tanto il dramma della “questione femminile”: lo è tematicamente e per quintessenza. Ciò che lega tutte le scrittrici di questo Best Off 2008 è lo sfondamento verso la tragedia: la riproposizione di un gesto non soltanto letterario, che appartiene all’arcaico, riproposto nel presente, con modalità e stili diversissimi tra loro. Credo che sia un punto determinante: da meditare e da cogliere, da inverare politicamente, essendo esso stesso la verità muta e urlata che queste otto scrittrici contemporanee esplicitano, obbligando tutti, lettori e scrittori e addetti alla cultura, a praticarlo. E’ l’elemento decisivo del nostro presente.