di Mauro Gervasini
Era in cerca di una storia esemplare, Sean Penn, che riuscisse a coniugare il proprio vitalismo politico e la propria visione del cinema, che è clinteastwoodiana per definizione, quindi una via di mezzo tra l’essenzialità di Don Siegel e la vena lirico-umanista di John Ford. Il best seller di Jan Krakauer Nelle terre estreme (edito in Italia da Corbaccio) era la sintesi ideale. Prima di tutto per la storia “di viaggio”, da sempre motivo di ispirazione del cinema e della letteratura americani. Poi per la figura del protagonista, Chris McCandless, un ragazzo che uscito dal college si lasciò alle spalle famiglia e beni materiali per attraversare con mezzi di fortuna gli Stati Uniti e poi finire la propria odissea tra le nevi dell’Alaska.
Il risultato dell’elaborazione del romanzo-diario di Krakauer è Into the Wild, film controverso per i dubbi che instilla nello spettatore a partire dall’apparente fragilità dell’assunto. Dopo Jack Kerouac e gli anni 70, è ancora rilevante raccontare la storia di un giovane che ripudia la famiglia e cerca se stesso sulla strada? E non è persino superficiale da parte del regista-narratore favorire una nostra immedesimazione con un ragazzino che sembra non avere alcuna prospettiva razionale e considera la vita per quel che gli riserva in quel momento (atteggiamento dalle tragiche conseguenze)? Eppure, le ingenuità della storia riflettono quelle del protagonista, figlio del proprio tempo inconsapevole (gli anni 80/90) senza nessuna utopia alle spalle, quindi senza uno sguardo che sappia andare oltre le contingenze, in cerca di verità assolute. Chris, che si ribattezza Alex Supertramp, non è quindi un personaggio da romanzo, la sua semplicità e la sua didascalica adesione all’avventura (legge Jack London e Thoreau, cita frasi a effetto sfidando a volte la retorica e il ridicolo) lo prosciugano di qualunque eroismo riconducendolo a una dimensione realistica.
Ma non è forse neppure Alex il vero motivo di interesse di Sean Penn, bensì il resto, “il mondo all’infuori di lui”. Fateci caso: il ragazzo ha escluso padre e madre e le persone che incontra (la donna hippie, l’anziano lavoratore di cuoio) lo vorrebbero come figlio; anzi, già lo trattano e lo vedono come tale. Addirittura Wayne, il trebbiatore che clona gli apparecchi satellitari, comincia ad avere nei suoi confronti un affetto fraterno, comunque qualcosa di diverso dall’amicizia virile declinabile in colossali bevute assieme e chiacchiere sulle fanciulle in fiore. In poche parole, Alex e la sua ricerca di solitudine, il suo smarcarsi da qualunque legame, sono il detonatore per la “fame di comunità” degli altri. Un sentimento di partecipazione e condivisione che rappresenta l’esemplarità (questa sì, “politica”) ricercata da Sean Penn anche nei suoi più teatrali atti privati (il viaggio a Baghdad in piena guerra, l’impegno con i volontari a New Orleans dopo Katrina).
La parabola di Alex Supertramp assume dunque un valore in questa prospettiva: l’immersione nella natura e il raggiungimento dei propri limiti per una piena coscienza di sé, hanno senso solo se anche gli “altri” fanno parte del contesto con il quale interagire. Altrimenti si rischia di restare schiacciati da una diversa forma di egoismo, non “migliore” di quella dalla quale si scappa. Persino lo stile e la luce con i quali il regista sceglie di raccontare l’ambiente hanno un che di ideologico. La natura non è mai titanica e immanente secondo una facile concezione romantica, non rappresenta un ostacolo in quanto tale o un opposto rispetto all’uomo. Ha anzi una sua armonia, anche quando terribile, come se si offrisse lei per prima a una possibilità di “comunione”.