Il romanzo di esordio di Igino Domanin non sembra un esordio. Altrimenti non sarebbe possibile ritrovarsi a ridere e a inquietarsi con una profondità che ormai solo alcune eccezioni del panorama narrativo italiano ci permettono. Spiaggia libera Marcello (Rizzoli, 17 euro), col suo titolo vagamente rétro, è un romanzo piano e classico eppure innovativissimo, sconcertante, un godimento a tutti i livelli di lettura. Saturo di un immaginario pop ai limiti della devianza, eppure nitido e lineare, Spiaggia libera Marcello è un evento letterario, la sfida a rinnovare e amplificare le potenzialità del romanzo, genere esausto che Domanin impiega esplorando territori in cui noi tutti siamo convocati: poiché questo libro parla di noi, di cosa siamo diventati, e irradia un sogno abominevole e seducente.
La vicenda è apparentemente semplice. Marcello, insegnante frustrato ed ex grande promessa della filosofia che la macchina funerea dell’accademia universitaria ha condotto al fallimento, vive un’esistenza squallida ma non alienata, poiché l’autocoscienza dell’alienazione è la sua estrema difesa. Marcello vede tutto, ha assistito alla sua precoce decadenza, ormai disinteressato alla filosofia e alla verità. Congelato negli affetti, trascina il suo stinto legame con la moglie Annalisa. Finché — e accade da subito, in una sequenza di scene d’alta scuola — non rischia di morire, investito da una Fiat Punto bianca. “Un leggero trauma” le cui scosse sono tutt’altro che lievi. E’ l’inizio di un sisma destinato a mutare l’esistenza di Marcello. Immediata avviene infatti la proposta da parte di un antico, sgradevolissimo e fisicamente trasformato amico dell’università, Panzeri, sorta di prototipo dell’omologazione, di quella che una volta Gramsci avrebbe definito “massa anti-massa” e che oggi è la punta del condizionamento mentale, dell’evaporazione di ogni politica possibile. Panzeri insegna in un’università sperimentale a Lugano e solleva Marcello dalle miserie scolastiche, catapultandolo in un’istituzione elvetica che pare uscita da Gattaca, dagli ampi e stranianti spazi percorsi da studenti idioti in pattini, dove la tecnologia esprime la sua crème. La comunità di docenti è una fratellanza misteriosamente votata al recupero dell’umano. Da qui, memorabili colpi di scena esistenziali, privi di suspence e quindi potenti come epifanie, ci conducono attraverso un serpeggiare di sensazioni spaesanti e corporee che sono straordinariamente evocate dalla prosa ipnotica che muove Marcello in una cospirazione soft eppure decisiva.
Tutto si riduce alla mente e alla percezione di questa parodia del Mastroianni di una Dolce vita praticata à rebours, che si trova di fronte all’imminenza pressante di una liberazione inaspettata. Siamo ad altezza Houellebecq di Piattaforma. L’apologia della barbarie (titolo di un saggio di Domanin, uscito nella collana Agone di Bompiani diretta da Antonio Scurati) diviene la scoperta occipitale che manda all’aria ogni cultura e fa riemergere il tragico, questo desiderato ospite che tarda sempre ad arrivare ma che in Spiaggia libera Marcello è puntualissimo. Il tragico ridà senso alla vita di ognuno. La scoperta dell’“io”, della sua basalità, non è altro che la riemersione del gesto arcaico in questa ipermodernità andata a male. Frequentissimi i desideri allucinatori di appostarsi nella vegetazione a caccia di prede da stupro, continue le immersioni in idromassaggi che riportano a uno stato preumano, irrefrenabili i ruminii di cibo fino all’indimenticabile scena del pasto consumato senza usare posate o mani, con la libertà dei cani. A crollare è la cultura, che si pretende monomandataria della salvezza della specie, avanguardia neuroscientifica di una rinnovata integrazione tra corpo e psiche. Esperimento che, proprio in quanto culturale, è destinato al fallimento di cui è preda l’Occidente tutto. Resiste l’immaginario, non la cultura. L’apologia della barbarie di Marcello è l’apologia dell’immaginario di Domanin. Un immaginario scatenato, che va da mitologiche conversazioni su The Chaffeur dei Duran Duran ad Astrud Gilberto, dalla preparazione rituale di piatti elaboratissimi (“pâté di pigo e cavedano, pesciolini di lago appena pescati, infusi e amalgamati nel burro intenso delle mucche d’alpeggio…”) alle fantasie erotiche più sfrenate. Il tutto in scene che si staccano con la fluorescenza degli spettri, in una danse macabre che spartisce i suoi connotati con l’élan vital.
E’ talmente potente questo stroboscopio linguistico e immaginario allestito da Domanin, che l’eccezionale competenza filosofica dell’autore è indistinguibile dal dettato che sovrappone Foucault a Roberta Flack in Killing me softly — e tutto ciò senza minimamente rischiare il postmoderno o la contaminazione. Questo romanzo è infatti un genere a sé. Non è classificabile secondo abusate gabbie critiche. Semplicemente è una cosa nuova: profonda, perturbante, al di là della bellezza. E’ una delle finestre sul futuro della nostra letteratura.
[Questa recensione è stata pubblicata sulle pagine culturali de l’Unità, 29.1.08]