di Luca Barbieri

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6. Il blitz del 21 dicembre 1979

L’operazione coinvolge le procure di Roma, Padova e Milano. Quattrocento uomini della Digos sono impegnati a Milano, centinaia a Torino, Padova, Genova, Roma, Firenze e Bergamo.

Tra gli arrestati: Mauro Borromeo (50 anni, direttore amministrativo dell’Università Cattolica); Francesco Cavazzeni (44 anni, prof. di Storia della Filosofia all’Università di Pavia); Alberto Magnaghi (architetto, prof. universitario); Marco Bellavista (31 anni, giornalista di Controinformazione); Franco Tommei (42 anni, giornalista di Rosso); Adriana Servida, 29 anni (nessun collegamento con Potere operaio, liberata dopo un paio di mesi); Romano Madera (31 anni, docente di Sociologia all’università di Cosenza, messo in libertà dopo un anno); Arrigo Cavallina; Jaroslav Novak (32 anni, direttore della libreria Memoria); Oreste Strano; il medico Giorgio Reiteri; Antonio Liverani che ospitò nell’appartamento di Negri Carlo Casirati; Giannatonio Baietta (titolare della tipografia dove veniva stampato Autonomia); Antonio Temil (intestatario del numero telefonico di Radio Sherwood); Augusto Finzi; Alberto Funaro; Caterina Pilenga (programmista regista della Rai di Milano); Gianni Sbrogiò.


Tutti gli imputati sono professionisti affermati con un passato da militanti nell’ultrasinistra. A loro viene contestato il reato di:
1. “aver in concorso fra loro e con altre persone promosso, costituito e diretto un’associazione politico-militare mirante a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici e politici dello stato, mediante l’attività di una serie di bande armate, diretta emanazione di tale associazione ed operanti sotto varie sigle (quali Lavoro Illegale, F.A.R.O, Centro Nord, Senza tregua per il comunismo e simili) costituenti il livello occulto prima di Potere operaio e poi di Autonomia operaia organizzata;
2. per aver creato stabili apparati informativi diretti a schedare dirigenti e capi-reparto, fascisti e avversari politici, magistrati, personaggi politici, giornalisti, appartenenti alla Ps, carabinieri;
3. per aver creato uno stabile apparato militare con disponibilità e depositi di armi, munizioni ed esplosivi

Al professor Antonio Negri vengono contestati: il rapimento ed omicidio dell’ingegner Carlo Saronio; l’uccisione del brigadiere Lombardini nel corso della rapina di Argelato; il tentato sequestro dell’industriale Duina; un attentato incendiario alla Face Standard; il sequestro BR del sindacalista Cisnal Antonio Labate; il sequestro BR dell’ingegner Michele Minguzzi alla Sit-Siemens di Milano; l’assassinio di Alceste Campanile (militante di Lotta continua); l’assassinio del giudice milanese Emilio Alessandrini; furto in un’armeria di Vedano Olona; e poi: detenzione di armi, attentati dinamitardi, possesso di esplosivi, falsificazione di documenti, furti, tentate rapine, tentato sequestro e favoreggiamento.

7. Negri telefonista BR

Una delle rivelazioni più clamorose legate alla fase iniziale (tutto il 1979) del “caso 7 aprile” è quella secondo cui il professor Antonio Negri sia il telefonista che il 30 aprile 1978 ha telefonato a casa dell’onorevole Aldo Moro, allora sotto sequestro da parte delle Brigate Rosse. L’unica cosa certa di quella telefonata, registrata dalla polizia, è che essa è partita da una cabina telefonica della stazione Termini a Roma. Secondo la tesi della difesa, confermata da due testimoni, quel giorno invece Negri era a Milano. Per sciogliere il nodo l’autorità giudiziaria affida il nastro della telefonata incriminata a quattro diverse perizie. L’atto è contestato perché nell’ambiente scientifico la prova fonica non viene ritenuta infallibile. Inoltre i quattro pareri (cinque se si considera anche il perito nominato dalla difesa) non giungeranno ad una indicazione univoca. La vicenda è anche oggetto di una curiosa e molto contestata iniziativa giornalistica. Nel gennaio 1980 l’Espresso regala infatti ai propri lettori un disco che contiene la registrazione delle telefonate imputate a Nicotri e Negri. Lo slogan: “fai da te la perizia fonica”.

L’esito delle perizie foniche viene riportato per intero nel testo “Processo all’Autonomia” a cura del collegio di difesa. Di essere i telefonisti del sequestro Moro erano accusati sia Nicotri che Negri. Ma, mentre per Nicotri si controlla abbastanza velocemente l’alibi (quel giorno Nicotri è a Padova mentre la telefonata parte da Roma), l’alibi fornito da Negri (è a Milano) per molto tempo non viene controllato.

Il giudice Achille Gallucci decise di dare incarico della perizia fonica oltre che a periti italiani ad un fonico del Michigan, il professor Oscar Tosi. Il professore non gode di buona fama nemmeno presso la magistratura statunitense perché ha strettissimi legami con la polizia americana. Una corte aveva addirittura stabilito che non si potevano accettare le sue perizie foniche (voiceprint evidence), perché i suoi accertamenti risultavano non accettati dagli esperti e perché Tosi «non poteva dirsi né imparziale né disinteressato avendo costruito la sua fama e la sua carriera su queste perizie foniche».

Inoltre, per esplicita ammissione dei periti, «non è possibile stabilire con assoluta certezza da un esame comparativo di voci, comunque effettuato, se un dato campione fonico appartiene o meno ad un determinato parlatore. Questo perché anche una comprovata identificazione tra due campioni di voce non è determinante ai fini del riconoscimento del parlatore, in quanto possono esistere altre voci che presentano le stesse caratteristiche di similitudine riscontrate per i campioni effettivamente confrontati».
Mentre le prime tre perizie non esprimono alcuna certezza il parere del professor Tosi è che «la voce del Prof.Negri è la stessa voce del chiamante sconosciuto n.2 con alto livello di certezza». Il professor Trumper, consulente della difesa, esclude invece che possa trattarsi di Negri. La parlata, come afferma anche De Mauro è tipica dell’Italia centrale (le Marche).

8. Il caso Saronio e il ruolo di Carlo Fioroni

L’accusa rivolta a Toni Negri di essere mandante e organizzatore del sequestro Saronio (con tanto di occultamento di cadavere) riveste un ruolo centrale sia nel dibattito processuale che in quello pubblico. Il fatto, che è stato esposto prima nelle sue linee essenziali, colpisce soprattutto in quanto la vittima è essa stessa un “compagno” di Potere operaio.
A chiamare in causa Toni Negri, a quattro anni dal processo che ha stabilito la colpevolezza di Carlo Casirati e di Carlo Fioroni condannandoli a 27 anni di carcere, è proprio quest’ultimo. La sua figura, oggetto di critiche da parte soprattutto della difesa, attraverserà e segnerà tutto il processo “7 Aprile”. Tecnicamente Fioroni è il primo pentito degli anni di Piombo. Al momento in cui chiede di parlare con i magistrati è bene ricordare che ancora nessuna legge prevedeva facilitazioni o sconti di pena per pentiti, dissociati e collaboratori. Con il suo racconto Fioroni diviene la principale fonte di accusa per gli imputati del 7 Aprile, e dalla sua deposizione partono gli ordini di cattura eseguiti il 21 dicembre del 1979.
In seguito, grazie alla sua collaborazione, in virtù della legge 1980 che premia le persone che cooperano con la giustizia, Fioroni beneficiò di una riduzione di pena di 20 anni. La sua testimonianza venne resa in segreto.

La vicenda, oltre a essere fortemente contestata dalla difesa, venne affrontata anche da Amnesty International in un rapporto, “Il caso 7 aprile, Roma 1979 -1984” pubblicato nel 1986 e dedicato alla prima parte della vicenda processuale in esame. Così il rapporto ricostruisce la vicenda:

La principale fonte di accusa contro gli imputati del “7 aprile” fu un ex membro di Potere Operaio, Carlo Fioroni che fu scarcerato nel febbraio del 1982 dopo aver scontato sette anni di carcere sui 27 ai quali era stato condannato […] La Corte d’Assise di Milano, che lo processò su queste accuse (ovvero il sequestro Saronio, nota mia) definì Fioroni un “eccezionale mentitore”. […] Secondo la legge italiana gli imputati che in istruttoria sono stati interrogati e si trovano in fondamentale disaccordo con le informazioni acquisite in istruttoria, possono essere autorizzati ad un confronto con la persona che ha fornito le informazioni, alla presenza del giudice. Molti chiesero perciò ripetutamente al giudice di autorizzare un confronto con Fioroni. Le richieste furono tutte respinte e gli imputati si videro così obbligati ad attendere il dibattimento prima che potessero essere poste pubblicamente domande a Fioroni (23).

Fioroni fu scarcerato nel febbraio dell’ ’82 dopo 7 anni di carcere. Quando fu citato in udienza si rese irreperibile, e pertanto nessuno degli imputati incriminati da lui nel segreto dell’istruttoria ebbe la possibilità di confrontarsi con lui o di chiedere al giudice, attraverso i propri avvocati, di interrogarlo dinanzi alla corte.
Il 12 marzo ’84 il capo della polizia Rinaldo Coronas testimoniò davanti alla corte che Carlo Fioroni era stato aiutato dalle autorità a lasciare il Paese con un passaporto falso. Il sottosegretario di Stato Corder il 23 maggio 1984 affermò, in risposta ad interrogazioni parlamentari, che il primo ministro Giovanni Spadolini e altri erano informati che Carlo Fioroni aveva ricevuto un nuovo passaporto e si accingeva ad espatriare. La pubblica accusa chiese che tutte le informazioni fornite da Fioroni fossero ammesse come prova ai fini del verdetto, e che egli non fosse considerato un testimone ma un imputato. Le affermazioni dei testimoni non possono infatti essere raccolte in loro assenza, ma non così per quelle degli imputati».

La Corte decise in questo senso, per cui la testimonianza di Fioroni resa in istruttoria fu ammessa, ma agli imputati fu negata qualsiasi possibilità che Fioroni fosse esaminato davanti alla corte.

9. 1980-1981: in attesa del processo

Con il blitz del 21 dicembre si può dire che si sia dispiegato gran parte dell’apparato accusatorio. Seguiranno, nel 1980, nel 1982 e nel 1983, alcuni blitz minori che porteranno in carcere, soprattutto a Padova, gli autori di numerosi fatti di violenza. Per definire l’obbiettivo di queste operazioni successive si parla di “quadri intermedi” e di “esecutori”. Comunque per il gruppo del 7 aprile, a partire dal 1980, comincia la grande attesa del processo.

Il primo aprile 1980 il brigatista Patrizio Peci, arrestato pochi mesi prima, chiede di essere ascoltato dai giudici. Interrogato dal giudice Giancarlo Caselli, Peci smentisce la tesi secondo la quale Negri sarebbe il cervello e il capo delle Brigate Rosse. A proposito della famosa telefonata a casa di Aldo Moro, una volta ascoltato il nastro della registrazione, Peci identifica il telefonista della famiglia Moro in Mario Moretti, un’indicazione che confermerebbe la perizia De Mauro. Qualche settimana dopo Peci interrogato da Calogero conferma la tesi.

Il 24 aprile 1980 il Capo dell’Ufficio del Tribunale di Roma, Achille Gallucci ritira il mandato di cattura per Negri in riferimento all’omicidio di Aldo Moro.

I risultati delle perizie foniche sembrano dar ragione a quanto sostenuto da Peci. Delle quattro (Paolini, Piazza, Ibba e Tosi) solo quella americana sostiene che la voce di Toni Negri è quella del telefonista brigatista. De Mauro identifica la parlata del telefonista con un quella di uno dell’Italia centrale (Marche), a conferma della tesi di Peci.

Questo risultato fa cascare le 17 imputazioni di Negri sul caso Moro. Crolla anche la possibilità di unificare i processi 7 aprile (che viene affidato al giudice istruttore Francesco Amato) e quello Moro (che viene invece affidato a Ferdinando Imposimato). Per Negri rimane comunque in piedi l’imputazione di “aver promosso una insurrezione armata contro i poteri dello stato”, l’unica che lega il processo a Roma.

Il 12 dicembre 1980 il giudice Giovanni D’Urso viene rapito da parte delle Brigate Rosse. Il 28 dello stesso mese nel carcere di Trani, dove sono ora detenuti anche alcuni imputati del 7 aprile, scoppia una violenta rivolta che viene violentemente sedata dall’intervento della polizia. L’11 gennaio del 1981 vengono emessi nuovi mandati di cattura contro Luciano Ferrari-Bravo, Emilio Vesce, Antonio Negri ed altri per aver collaborato, mantenendo contatti dal carcere, al sequestro D’Urso (il giudice viene rilasciato in data 15 gennaio). L’accusa di aver organizzato il rapimento Urso verrà poi ritirata il 23 maggio da parte del giudice istruttore Ferdinando Imposimato per “l’assoluta mancanza di qualsiasi elemento di responsabilità”.

Nel gennaio 1981 Alisa Dal Re, Alessandro Serafini, Guido Bianchini e Massimo Tramonte (che insieme a Luciano Ferrari-Bravo sono nel frattempo diventati prigionieri “adottati” da Amnesty International) vengono nuovamente arrestati e sottoposti a nuova indagine giudiziaria istruita a Padova. Le scarcerazioni e i successivi provvedimenti cautelari che segnano questi anni a partire dal luglio 1979 (scarcerazione di Carmela di Rocco) sono l’evidente frutto del conflitto tra il giudice istruttore Giovanni Palombarini, autore delle scarcerazioni, e del pubblico ministero Pietro Calogero, che ricorre puntualmente contro le decisioni del collega.

Il 30 marzo 1981 si conclude a Roma la fase istruttoria, durata quasi due anni. In tutto vengono rinviate a giudizio 71 persone, 12 delle quali accusate di “insurrezione armata contro i poteri dello stato”. «Gli imputati erano generalmente accusati di reati associativi (associazione sovversiva o partecipazione a banda armata) e, in molti casi, non si faceva menzione di atti di violenza specifici», ha riassunto Amnesty International.
Per il troncone padovano dell’inchiesta, dopo la requisitoria presentata da Calogero a maggio, il rinvio a giudizio arriva a settembre.

10. Il rinvio

Il 7 giugno del 1982 dovrebbe cominciare davanti alla I Corte d’Assise di Roma, la fase dibattimentale del processo agli imputati del caso 7 aprile. La decisione sarebbe quella di svolgere, esattamente in contemporanea, a giorni alterni davanti alla stessa corte e agli stessi giudici, il processo 7 aprile e il processo ai componenti delle Brigate Rosse accusati dell’omicidio Moro. I difensori protestano per il rischio di confusione tra i due procedimenti e riescono a rinviare la fase dibattimentale al 9 novembre dello stesso anno.
Ma nel novembre del 1982 l’apertura viene ancora rinviata al febbraio 1983, perché il presidente della corte decreta impossibile tenere le udienze prima della conclusione del processo Moro. A febbraio ulteriore rinvio tecnico di un mese.

11. Inizia il processo

A quasi quattro anni dai primi arresti, nel marzo del 1983, inizia la fase dibattimentale. In giugno, il professor Antonio Negri, imputato simbolo del caso 7 aprile, viene candidato dai Radicali alle elezioni politiche. Negri viene eletto parlamentare con 15mila preferenze ed esce dal carcere.
Il 13 settembre, su richiesta della magistratura, il parlamento concede l’autorizzazione a procedere e quella all’arresto per Negri che però nel frattempo è espatriato in Francia per sottrarsi al ritorno in carcere. Il caso suscita grandi polemiche anche all’interno dell’area di Autonomia. Quasi nessuno, tra i Radicali e i coimputati del 7 aprile, approva la fuga di Negri, interpretata come atto di codardia.

A dicembre a Padova inizia il processo del troncone padovano, quello inizialmente decapitato dei “Vip” avocati a Roma. Sul finire dell’inchiesta però Calogero è riuscito a far rientrare anche gli imputati romani nel processo padovano, in quanto essi avrebbero avuto la disponibilità delle diverse armi utilizzate dagli altri membri di Autonomia nelle violenze registrate in città negli anni Settanta. Quello padovano raccoglie quelle che la stampa chiama “le briciole”, centinaia di persone considerate manovalanza e base di autonomia. Nel troncone padovano si consuma un violento scontro tra giudici, tra Pietro Calogero e Giovanni Palombarini. Il processo, che riunisce gli imputati di quattro blitz di Calogero (il 7 aprile 1979; marzo 1980; febbraio 1982; giugno 1983), si blocca subito per la ricusazione del giudice. Riprenderà solamente un anno dopo nel dicembre del 1984.

12. La sentenza di primo grado

Il 12 giugno 1984 (il giorno seguente alla morte di Enrico Berlinguer) viene emessa la sentenza di primo grado del troncone padovano. La corte condanna gli imputati ad un totale di più di 500 anni di carcere. Due imputati vengono dichiarati non punibili dalla corte in cambio della loro cooperazione; 13 sono assolti per insufficienza di prove e 1 con formula piena; 34 vengono ritenuti colpevoli unicamente di reati “associativi”; 21 colpevoli di reati specifici. La pubblica accusa afferma che non c’erano prove sufficienti per sostenere l’accusa di insurrezione armata e chiede alla corte di ritirarla. La durata delle condanne detentive va da 1 anno e 4 mesi a 30 anni, la pena assegnata a Negri per il quale l’accusa aveva chiesto l’ergastolo. Negri viene riconosciuto colpevole di vari reati: dal concorso nell’omicidio del brigadiere Lombardini (rapina di Argelato), all’omicidio di Carlo Saronio, al tentato sequestro Duina, a vari reati minori come furti e attentati e infine di banda armata e associazione sovversiva. Tra gli altri imputati “eccellenti”: Oreste Scalzone viene condannato a 20 anni, Luciano Ferrari Bravo ed Emilio Vesce entrambi a 14 anni per associazione sovversiva e banda armata. La maggior parte delle condanne sono comunque inferiori a quelle richieste dall’accusa. (…)

13. 1986: la sentenza di Padova

Il 30 gennaio del 1986 si conclude il processo iniziato nel dicembre del 1984 a Padova (il troncone padovano del 7 aprile). Vengono assolti tutti i principali imputati: Toni Negri (per il quale erano stati richiesti 11 anni per la detenzione di armi); Luciano Ferrari Bravo; Alberto Funaro; Gianfranco Pancino; Franco Tommei; Emilio Vesce; Alisa Del Re; Carmela di Rocco; Guido Bianchini; Alessandro Serafini; Fausto Schiavetto.

Come si evince dalla motivazione dell’assoluzione di Guido Bianchini, «assolto perché il fatto non sussiste in relazione a Potere operaio e Autonomia operaia organizzata e per non aver commesso il fatto in relazione ai Collettivi Politici veneti» (citato nella Repubblica, pagina 12, 31 gennaio 1986), la corte dimostra di non aver accettato il cosiddetto “Teorema Calogero”. Vengono invece condannati tutti i membri del Fronte comunista combattente. (…)

14. La sentenza d’appello a Roma

L’otto giugno del 1987 la corte d’assise d’appello pronuncia la sentenza di secondo grado (…). Si procede a una considerevole riduzione di pena per tutti gli imputati. Vengono assolti tra gli altri: Emilio Vesce, Luciano Ferrari Bravo, Lucio Castellano, Paolo Virno, Alberto Magnaghi, Jaroslav Novak, Giuseppe Nicotri e altri. Questo il dispositivo che riguarda il professor Antonio Negri: «La Corte lo assolve dal delitto di insurrezione armata contro i poteri dello Stato perché il fatto non sussiste; lo assolve dai delitti di sequestro e omicidio Saronio ed occultamento di cadavere; lo assolve dal tentato sequestro Duina e reati connessi; lo assolve dall’introduzione nello Stato di esplosivo, dal furto in danno di Seguso. Concede le attenuanti generiche per gli altri reati e riduce la pena a anni 12 di reclusione» (citato in Repubblica, p. 16, 9 giugno 1987). Negri viene comunque ritenuto colpevole di concorso nella rapina di Argelato nel corso della quale perse la vita il brigadiere Lombardini, di banda armata e associazione sovversiva.

La sentenza della corte in pratica rigetta, per insufficienza di prove, la teoria secondo la quale i dirigenti di Potere operaio sarebbero stati automaticamente anche quelli di Autonomia, e che questa a sua volta manovrasse il terrorismo di sinistra in Italia. La sentenza d’appello viene confermata in Cassazione nel 1988.

NOTE

(23) Amnesty International, Il processo 7 Aprile, Roma (1979-1984), Roma, 1986, p.16.

(8-CONTINUA)