E’ un onore e una felicità, per una rivista come Carmilla, celebrare i vent’anni di vita di un’altra rivista, cartacea, che indefessamente ha affrontato e vinto, grazie alla pervicacia del suo editore e direttore, una sfida pressoché impossibile da condursi nel nostro Paese: parliamo dei vent’anni di vita di Poesia, magazine interamente dedicato al mondo dei versi, impresa eroica e riuscita il cui merito è ascrivibile nella quasi totalità a Nicola Crocetti.
Questa sera a Milano, nella prestigiosa sede di Palazzo Reale, Poesia si autocelebra e viene celebrata da importantissime personalità della poesia mondiale: il Nobel Seamus Heaney, il quasi Nobel Yves Bonnefoy, Tony Harrison e Titos Patrikios. Sarà Moni Ovadia a leggere versi dal numero speciale della rivista (dalle ore 21, posti fino a esaurimento).
Vorrei descrivere l’importanza di questa scalata editoriale all’Everest dell’ignoranza nazionale, fregiandomi di avere fatto parte, negli anni della mia formazione, di uno dei molti staff che Crocetti ha radunato intorno a sé per riuscire a portare in edicola e vendere, ogni mese, una media di ventimila copie – il che fa di Poesia la rivista di settore più venduta e letta al mondo.
Più di dieci milioni di italiani scrivono poesie. L’editoria di poesia, nelle sue principali collane, cioè Lo Specchio Mondadori e la Bianca di Einaudi, è ferma al palo, con vendite che mettono a continuo repentaglio l’esistenza stessa delle due collane. La poesia internazionale contemporanea è praticamente non tradotta in Italia e, spesso, di conseguenza, non studiata dai poeti italiani. La poesia italiana è considerata marginale nella sua produzione anche per questo motivo. Gli italiani, che già stentano a leggere narrativa e saggistica, sembrano non avere voglia di leggere poesia. Con clamorose contraddizioni, però. A partire dal fatto che nell’indicizzazione di Google, la seconda parola più ricercata dopo “sex” è “poetry/poesia”. Oppure considerando le vendite di un’iniziativa editoriale di qualche anno fa: i Miti Poesia di Mondadori vendettero fino a un milione di copie per titolo.
Tuttavia l’eccezione più clamorosa, nel desolante panorama dell’editoria poetica nostrana, è proprio costituita dalla rivista Poesia, dalla sua persistenza nel giungere a una distribuzione costante in edicola (il che, garantisco da addetto ai lavori, è un’impresa praticamente impossibile per un simile mensile) e nello specifico carattere che il magazine di Crocetti ha assunto, dopo due direzioni affidate a poeti, cioè Patrizia Valduga e Maurizio Cucchi, sostituite dall’illuminata guida dello stesso Nicola Crocetti. Che non a caso è la persona che ha letto il maggior numero di versi, del passato e del presente, che io abbia mai conosciuto.
E’ nell’impostazione della stessa rivista il segreto del successo di Poesia. Crocetti ha elaborato uno strumento che ha permesso un accesso massivo alla poesia contemporanea e a quella antica, praticamente di ogni lingua, evitando (mi si passi il grezzismo) le seghe mentali e gli inutili contorcimenti teorici che nascondono il nulla a cui la critica è abituata.
Il secondo passo è stato sostituire il primato critico con quello testuale: Poesia trabocca di versi, tradotti o italiani, e chi legge la rivista può farsi un’idea del poeta autore di quei versi e confrontarsi direttamente con quello che deve essere la poesia – cioè il testo poetico stesso, non il discorso sull’opera.
Terzo passo che giustifica questo incredibile successo editoriale è l’umiltà stessa della rivista, il fatto che si proponga senza saccenza, senza pretendere di raggiungere apici che soltanto un’accademia morta replica ormai con funereo automatismo, mentre alle persone e agli amanti della poesia serve la speranza di cui la poesia è capace, serve il messaggio che la poesia conduce come un filo porta elettricità – cioè la luce di un futuro, l’oltrepassamento del tempo e il tocco intimo degli universali, dell’immaginario.
Quarta ragione dell’imporsi di Poesia: crollano le gerarchie, i blocchi anagrafici. In un numero, accanto a Zanzotto e Fried, stanno giovani esordienti, o poeti ignorati da tempo.
Quinto motivo del successo di questa rivista: mentre il catalogo dell’editoria espelle ed elimina titoli e autori, in una sorta di progressiva e sempre più veloce disgregazione della memoria culturale di una nazione, che potremmo paragonare a un lento incendio della biblioteca di Alessandria, Poesia recupera e quindi permette l’archivio di poeti, perfino contemporanei, che sono fondamentali nella storia del Novecento e della nostra contemporaneità: penso, per esempio, all’introvabile Ashbery, a Jamme, a Ritsos, a Jabès, per fare nomi diversi dalle loro poetiche – espunti dai cataloghi e scomparsi dai remainders o addirittura mai tradotti, questi poeti stanno nell’immenso archivio allestito da Poesia.
Sesta e fondamentale causa della diffusione della rivista: l’invenzione, da parte di Crocetti, della storica rubrica (poi copiatissima) in cui si pubblicano e commentano i versi dei lettori.
La ragione fondamentale della vita felice di questa rivista, però, va identificata con il suo inventore, realizzatore, gestore ed editore: cioè Nicola Crocetti. Se Poesia, negli anni Novanta, è giunta a vendere 60.000 copie (a vendere, non a distribuire), ciò è dovuto al fatto che a farla non sono poeti, ma un uomo che ha avuto un’idea, prossima ai caratteri evidenti dell’utopia, e l’ha realizzata a partire dalla sua professione di base, grazie alla quale ha finanziato l’esistenza della rivista. Nicola Crocetti, infatti, fa il giornalista per metà della sua giornata, e l’editore, il direttore, il compositore, l’impaginatore e il correttore di Poesia nell’altra metà della giornata. Iddio ne preservi la salute, perché si tratta di una vita stressantissima, a cui va aggiungersi il privato, che spesso Crocetti ha sacrificato in nome dell’impresa editoriale. Certo, Poesia non si fa da sola, non la fa soltanto Crocetti: se devo ricordare i nomi dei giovani che sono passati e si sono formati nella redazione di Poesia, viene fuori una generazione di scrittori e critici, che col tempo hanno maturato le proprie strade, spesso finendo nella prosa, con una competenza poetica abnorme, come nel caso di Aldo Nove o di Nicola Gardini, per citare due nomi di scrittori contemporanei.
In Italia, senza questa costante operazione di raccolta di collaborazioni, di resistenza nella solitudine in cui Crocetti è stato lasciato da qualunque istituzione o sponsor possibili (una vergogna tutta italiana), noi non avremmo letto testi dei nuovi poeti inglesi, francesi, tedeschi, greci, spagnoli, russi, cinesi, canadesi, americani, giapponesi e via dicendo. Noi non avremmo avuto panoramiche memorabili sulla poesia antica, firmate da gente come Ezio Savino e Luca Canali. Noi non avremmo ricordato adeguatamente i versi di Gottfried Benn e Samuel Beckett, di Diego Valeri e Hart Crane, di Antonio Machado e Tomas Tranströmer – ci sarebbe sfuggito il Novecento.
Senza parlare degli esordi permessi da Crocetti – non c’è praticamente poeta italiano all’esordio che non sia passato sulle pagine del mensile poetico: praticamente due generazioni di poeti italiani hanno avuto pubblicazione e visibilità (mai più ottenuta a livello così massivo) grazie all’opera dell’infaticabile Crocetti. Accanto alla rivista, corre la casa editrice di Crocetti e basterebbero i libri d’esordio di Antonella Anedda e Maria Grazia Calandrone a giustificare l’elogio incondizionato per quanto compiuto nella redazione immersa nel labirinto brumoso della periferia nord di Milano.
La formula è semplice, ma davvero impossibile da portare a realizzazione in Italia. Poesia segnala che esiste fame di versi e di autorialità, che i poeti e l’editoria non sanno come soddisfare – o, meglio, non riescono più a soddisfare. Questa ventennale militanza culturale di Crocetti è agli antipodi dell’idea che i poeti contemporanei si sono fatti della propria arte (ammesso che la facciano, l’arte), che proprio, l’idea della militanza culturale, se la sono mangiata, digerita e defecata. Ciò conduce a un fenomeno paradossale: i poeti italiani contemporanei non amano Poesia: la considerano “poco rigorosa”, pensano che non sia un organo di pubblicazione di elevata qualità, se ne stanno insomma arroccati in pubblicazioni sclerotizzate che raggiungono, se va bene, cinquecento lettori, essendo costoro preparati ad affrontare le stolide arzigogolature di una critica che è davvero incapace ormai di intercettazione dell’autentico a cui la poesia apre. Ci sarà un motivo se il massimo critico poetico vivente, che è Pier Vincenzo Mengaldo, ha deciso da anni ormai di non scrivere più su alcun poeta contemporaneo italiano.
Le malelingue su Crocetti subiscono un netto taglio dalla presenza di maestri come Heaney e Bonnefoy, che interverranno alla celebrazione di Poesia, dichiarandosi pubblicamente onorati di fare parte del comitato di redazione della rivista, che si rende così chiaro non essere un’accozzaglia inerte di nomi. Se si fa l’esperienza dell’estero, se si va da scrittori a incontrare scrittori in pubblici dibattiti all’estero, ci si accorge di come Poesia sia vista e ammirata dalle intellighentsje extranazionali – tiri la conclusione più opportuna la nostra supposta élite poetica, con tanti ringraziamenti da un ex redattore e un continuo lettore di Poesia.
Nicola Crocetti non è un uomo facile. E’ iracondo, giustamente indignato. Ha il vantaggio di non essere narcisista, lo svantaggio di non tollerare il narcisismo altrui. Ha tutti i pregi degli uomini il cui sangue è l’utopia. Ha un’esperienza di vita che bisogna sognarsela – dalla dittatura dei Colonnelli in Grecia a memorabili soggiorni statunitensi. Lavorare con lui non è facile. Anche io, dopo anni, ho scazzato, come altri, con l’editore di Poesia. Non perdendo mai, tuttavia, la coscienza del debito che devo a quest’uomo, che è comunque stato come un padre e un educatore per me. Per questo motivo, mi sembra cosa opportuna pubblicare qui, a termine dell’omaggio a questa fantastica avventura editoriale che è stata Poesia, un capitolo autobiografico che appartiene al mio romanzo Dies Irae: non per atto di narcisismo, che Crocetti abolirebbe con una bestemmia e una voce da brivido lanciando uno dei suoi sguardi rincagnati quando è incazzato; bensì come affettuoso riconoscimento di ciò che è stata l’esperienza di Poesia e la frequentazione dell’editore per me. Buon compleanno, Poesia!
Io, Giuseppe Genna — Milano — Gennaio 1994“Tutti i poeti, ricordalo, sono pezzenti. I morti, i vivi. Ricordalo”. L’uomo che parla è un uomo su cui, al momento, investo ogni energia edipica a mia disposizione. E’ l’uomo che mi sta salvando. E’ un editore di poesia che mi ha precettato nella sua redazione. Mi paga poco, ma io posso sopravvivere. Ho iniziato a collaborare con lui anni prima, poi ci siamo persi di vista, poi, sul finire del servizio civile, mi sono rifatto vivo e lui inaspettatamente mi ha accolto a braccia aperte.
Gli altri esistono, hanno memoria di te: questa scoperta sempre nuova.
Solo un folle si metterebbe a fare l’editore di poesia: di una rivista da edicola dedicata alla poesia. I numeri gli danno ragione. Quest’uomo, nel silenzio generale, nella totale deprivazione di contributi istituzionali che in Francia ricoprirebbero d’oro una simile iniziativa culturale e imprenditoriale, fa due lavori, non ha un attimo libero, è continuativamente alterato, data anche la sua origine etnica: è figlio di madre greca.
Il suo nome è Nicola Crocetti.
Crocetti vive e ci fa lavorare in un luogo che le cartografie immaginarie più perverse non sarebbero in grado di collocare. Il suo quartier generale è oltre Bonola, a San Leonardo, una delle fermate terminali della prima linea della metropolitana. Per recarmi a lavorare impiego un’ora e quindici minuti.
Alloggio, resistendo, allo stremo, sempre più bombardato dalle fitte visite di addetti dello Iacp e di carabinieri, nell’appartamento popolare a Calvairate, che ho completamente rifatto, disfando i ricordi semisecolari della famiglia. Ho ridipinto tutto in una notte, la radio accesa sulle frequenze di Radio Popolare, che trasmetteva un dibattito al Leoncavallo, protagonista Gabriele Salvatores. Dipingevo disgustato, inalando appositamente vapori chimici della vernice bianca. Salvatores al Leoncavallo…
Il viaggio in metropolitana la mattina a Milano è il deposito salino di una nazione in trasformazione. L’orda primaria prende d’assalto i magri marciapiedi di attesa, la cui gomma protettiva è sbrecciata, lordata. Vedo i volti: primati privi di linguaggio, gli sguardi mostruosamente svuotati, le attività nervose di riempimento del tempo perché non hanno da leggere o da guardare un succedaneo televisivo. Alcuni studiano, di mattina in mattina, il medesimo cartellone pubblicitario, come fosse uno schermo tv. Sui convogli avviene la trasmutazione, il crollo energetico, la devastazione massiva: piove una luce al neon fredda, grigiastra. Si procede ritti, attaccàti agli anelli di plastica che si afferrano sudati: non la mano che li afferra è sudata, è la mano che afferrava prima della tua l’anello ad avere depositato sudore sulla plastica grigia, disgustosamente calda. Le posture di questi bovini umanoidi, tra cui me, stipati come in stalle industriali, evidenzia l’irrigidimento della zona lombare del lavoratore medio impiegato nel terziario. Vedi gli occhi, non lo sguardo, vedi proprio i globi oculari specchiati nel finestrino che, se abbassato, fa penetrare getti di aria calda in orizzontale, che puzzano di olio meccanico e ferro strinato: questi occhi, nel riflesso giallastro del finestrino, sono bulbi neri o fosse profonde, imperscrutabili.
Tra gli eletti che hanno trovato un posto a sedere, si legge il Corriere e ogni giorno è una grancassa alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, la fondazione di un nuovo partito. La rivolta agìta da cinquanta milioni di spettatori ha condotto a questa iridescente novità. Il genio strategico della sinistra ha giocato tutto sull’eliminazione di Craxi, senza chiedersi dopo cosa sarebbe avvenuto. Su centocinquanta persone compresse in un vagone, ci saranno cinque passeggeri con il Corriere spalancato, spesso sulla pagina di economia.
I discorsi tra compagni di viaggio vertono principalmente su fatti di cronaca, gonfiati a saghe soap, oppure direttamente su soap o programmi tv.
Non ho più avuto contatti con donne, dopo Maura.
Sono un monaco trappista che si occupa di poesia: una versione sfigata di Adso da Melk.
[…] Ho ripreso svogliatamente lo studio. L’università mi soffoca. I professori, a Milano, sono ascesi allo stato di entità arcontiche. Le lezioni sovraffollate propinano bibliografie impossibili, che in nessuna sede universitaria italiana sarebbero contemplate. Per superare l’esame di Italiano, trentadue testi. Stanno facendo selezione. E’ la china che intravvedo: molti cadranno. Io, tra questi.
Verso Bonola, il vagone è vuoto.
A San Leonardo esco.
Sembra di essere in piena campagna, se non fosse che i rovi antistanti la stazione del metró non hanno nulla di bucolico e nascondono un centro per tossici ed extracomunitari che mi guardano ferocemente, immobili, appoggiati a un palo della luce, mentre percorro questo viottolo di campagna che conduce alla sede centrale del network Crocetti: l’abnorme, spaventoso complesso anni Sessanta in cui egli dispone di abitazione, redazione, magazzino e cantina per le rese della rivista.
Questo complesso abitativo, simile a un alveare costruito con solerzia da api aliene gigantesche, è un capolavoro dell’architettura contemporanea e i colpevoli sono gli architetti Aymonino e Rossi. E’ la cattedrale del Gallaratese, ha pure un nome: Complesso del Monte Amiata. Ci hanno impiegato cinque anni a realizzarlo. In biblioteca, c’era una studentessa di architettura, al mio fianco, con un manuale spalancato a pochi centimetri da me e con orrore ho visto una foto di questa Babilonia razionalistica in cui vado ogni giorno a lavorare: “Questi edifici, come il complesso del Monte Amiata (1967-1972), realizzato da carlo Aymonino e Aldo Rossi, si impongono alla scala urbana e del paesaggio e alla scala architettonica, esprimendo le conquiste più avanzate dell’articolazione dell’abitare. Destinati alla residenza, essi formano complessi urbani che hanno raggiunto, in diversi modi, una dimensione comunitaria. Essi testimoniano oggi di una possibilità che la città ha ancora di potersi dare forme che solo l’architettura produce”.
Che complessi di questo tipo si impongano è altrettanto vero quanto il fatto che impongono complessi.
Sei nella disumanità regolata ad arte: un’arte anonima, pensata da un sistema di cervelli connessi attraverso un intricato sistema assonico, a bagno in una vasca di liquido amniotico elettrificato, in un contenitore trasparente su un’astronave che orbita intorno a Giove.
E’ un sistema di tre macroedifici le cui funzioni non distano eccessivamente da quelle di un termitaio. Questi tre macroedifici presentano vistose colorazioni disarmoniche, di cui l’ala in cui si staziona al servizio di Crocetti è la più affrontabile: una sorta di ruggine spenta. La percezione che si tratti di un edificio è comunque annichilita per il complesso sistema di falsi piani, camini innalzati ad altezze che distano dalla misura aurea quanto me da Clinton, terrazzi e angoli di appartamenti sporgenti casualmente in intere fiancate cieche, piloni il cui compito dinamico è occulto, rientranze inattese. Senza dire del sistema di tapparelle basse e larghe, colorate anch’esse con cromatismi dissonanti rispetto al contesto totale. E’ immenso. E’ Piranesi alle soglie del Duemila: il Piranesi delle Carceri. Ci si perde. In anni di frequentazione non ho mai incrociato un umano. E’ Gattaca qui e ora e per la nostra disdetta. All’interno, spazi enormi, soffittature altissime, piani che si affacciano su ballatoi al chiuso, pareti e porte colorate di blu, giallo, rosso. Un labirinto. Una volta, perdendomi, mi sono trovato al posto di un coro in un anfiteatro fintogreco. Non c’è da imbarazzarsi: nessuno intorno, non si incontrerà mai nessuno che condivida il mio dna e quindi il mio imbarazzo per essermi smarrito. Sono rientrato compiendo un largo giro tra scale a chiocciola in muratura, mentre alti penetrali lasciavano trapelare che là fuori esisteva qualcosa che gli umani definiscono da millenni luce.
Al centro dell’ala-Crocetti, un bar come mai mi è stata data l’opportunità di sperimentare. La prima volta che ci ho messo piede, la vetrinetta degli alimenti era lucida e, dietro la vetrinetta, c’era un fondo di salume, della coppa, che gareggiava in età coi geroglifici di Lascaux, non più di quaranta grammi dal colore rancido del deserto al crepuscolo; e un’Invernizzina. Il barista mi ha chiesto se volevo qualcosa da mangiare.
Lavoro a parte (correzione di bozze maniacale, perché Crocetti è afflitto da un disturbo ossessivo compulsivo che parifica un refuso al reato di aggiotaggio; e poi corrispondenza, impaginazione, stampa, contatti con tutti i poeti e soprattutto con il sottobosco dei poeti dell’intera nazione), il clou era il pranzo. Come tutti i greci, Nicola Crocetti scontava un amore pressoché patologico per sua madre, la greca, che preparava per il figlio, la sua famiglia e i suoi redattori, tre tipi di sughi sottovuoto: al salmone (una specialità non esattamente ellenica), alle verdure e normale. Ogni giorno veniva cotta la pasta, e mangiata, nell’appartamento di Nicola Crocetti: la sua versione rusticana del ticket per il pranzo.
Dimenticavo Maura. Erigevo la maschera del cinismo imperfetto. Cigolava sempre meno il sistema robottico con cui mi muovevo e reagivo alle sollecitazioni del mondo.
Dopo gli spaghetti (non ricordo, in anni, un piatto di maccheroni), Nicola Crocetti, con aria orgogliosa che solo i greci sanno irradiare, innalzava una grossa bagnarola di plastica azzura, colma di un liquido lattescente, da cui emergevano solidi bianchi, galleggianti: era la feta.
Un’alimentazione affettuosa che poteva causarmi una steatosi epatica.
Invece era tutto ammorbidito dai lunghi monologhi o dagli altrettanto estesi silenzi dell’editore Crocetti: “I poeti! Questi pezzenti! Porchiddio, nessuno che si guadagni il pane con fatica. Pidocchi senza esperienza. Non hanno viaggiato, non hanno vissuto, non hanno sofferto, non hanno fatto spreco di sé. I poeti sono pitocchi in cerca di una moneta del primo mecenate che gli pigli per il culo. Non leggono, non studiano. Poeti che non leggono DeLillo, che non sanno chi sia Barthelme, che faticano ad aprire Puskin, che ignorano Rushdie. Hanno smesso di vivere nel 1921. Leggono Balzac e gli basta, come ai preti basta il Vangelo, guai a chiedersi cosa cazzo è il Corano. Le fighe con cui si sposano e girano i poeti! Rancide, brutte, esteticamente da censurare, la loro controparte esatta e perfetta, che gliela dà per pietà e ammirazione, ma solo da queste inacidite donnette, queste massaie che si sentono sollevate dalla grigia normalità perché il loro marito stampa dei versi — solo questi corpi difettati, queste isterie su due brutte gambe possono aprirgliele, le gambe, a gente come i poeti italiani… Ma non li vedete? Hanno la forfora, i denti guasti, certi strabismi… Da cui si enfia un ego spropositato, inversamente proporzionale alle reali capacità di immaginare, di fondersi in una lingua, alle alte temperature! Ma quali alte temperature! Questi al limite mettono i surgelati nel microonde! Ritsos, quello sì era un poeta. Lo conobbi in esilio, clandestino nella Grecia dei Colonnelli. O Sereni, ossessionato dalla lingua ma non come questi qui, che si contendono al pari di iene spelacchiate la sua eredità, nemmeno immaginano! Ingenerosi ma voraci, zecche, parassiti, con il cuore piccolo, fossile, malato, ma senza la capacità di fare della malattia quel che fece Corazzini, perché le loro sono malattie immaginarie, difettucci che non mettono a repentaglio la sopravvivenza fisica! E i loro versi striminziti, le loro macchinette versificatorie: iniziano coll’ideuzza, fanno il corpo centrale della poesia un po’ così, e chiudono sempre con la stessa macchinetta! Sarebbero venditori di fumo, se qualcuno, il fumo, glielo comprasse! Ma nessuno compra poesia, perché questa poesia fa schifo. Il fatto che noi vendiamo ventimila copie al mese, e siamo arrivati a sessantamila anche, questo li fa imbestialire! Mi considerano un estraneo, uno stronzo, un infiltrato! Io dimostro che la voglia di leggere poesia esiste, loro vendono cosa?, due-tremila copie al massimo, sono lì che si cavano i pidocchi l’uno dalla testa dell’altro… Nelle loro stanzette, fanno la passeggiata pomeridiana, mendicano dalle case editrici traduzioni che copiano da altre traduzioni modificando qualche parola e infilandoci qualche verso, tramano per piccoli premi, e hanno in mente la storia della letteratura! La storia della letteratura! Con i loro andamenti bisillabici propinano nient’altro che malinconie passeggere o tristezze psicotiche. Nessuno che si mobiliti per aiutarci. Nessuno che…”.
La feta greca (“Non quella merda di imitazone bulgara”) incollava la lingua al palato.
Correggevo bozze di originali svedesi, poeti con cui familiarizzavo…