di Danilo Arona
[L’articolo La luce oscura di Danilo Arona, uno dei collaboratori che più hanno contribuito al successo di Carmilla, ha avuto tale rispondenza di pubblico da consigliare di dare lo stesso titolo a una nuova rubrica di Danilo. Erede, anche se diversa per concezione, delle mitiche “Cronache di Bassavilla”, divenute un libro, cui presto se ne aggiungerà un secondo e per le quali sono previste trasposizioni multimediali. Ma non vogliamo anticipare. Lasciatevi illuminare o imbrunire, per ora, dalla luce oscura.] (V.E.)
Uno dei racconti che prediligo in assoluto, un perfetto esempio di horror “di esitazione”, reca la firma di Truman Capote. S’intitola Miriam ed è stato scritto nel 1945. Il nome del titolo si riferisce a una bambina di 11 anni che irrompe nella vita di un’anziana vedova solitaria, Mrs. Miller, sullo sfondo di una New York livida e nevosa. E’, all’apparenza una ragazzina pestifera e invadente, ma anche molto inquietante, della quale possiamo dire (o non dire) verso le righe conclusive che forse non esiste, ma che di certo esiste nella mente della protagonista.
Quando lo lessi la prima volta un mare di anni fa non capii la vera e profonda ragione per cui mi colpì nelle zone basse, al di là della raggelante perfezione del racconto Tra i venti e i trent’anni l’inconscio non lavora come nei decenni successivi; per motivazioni psicobiologiche che sono anche spiegabili, l’inconscio di un individuo ultracinquantenne è in grado di “ripescare” con molta più facilità di prima eventi e personaggi della propria adolescenza, magari all’apparenza “dimenticati”. E così, complice una storia che sto elaborando e che ignoro al momento dove possa andare a parare, quella ragione adesso l’ho capita. Anzi, l’ho ricordata. E provo a riferirne in forma di racconto. Che sembra sì un banalissimo “short tale” di turbamenti preadolescenziali, ma non è così. Perché la contestualizzazione dell’episodio è terribile e formativa, ma per precisarla e riviverla io ho bisogno che la Miriam di cui parlo io, che divenne lo specchio occulto di quella di Capote, esca allo scoperto. Ovvio, se vive ancora, se viaggia in rete, se abita ancora a Genova dove abitava allora.
Allora, quando?
Era l’agosto del 1962, sul finire della vacanza.
Io sapevo che lei doveva andare via coi genitori anzitempo e quella cosa recalcitrante dentro il mio stomaco che combatteva a calci contro le pareti addominali mi faceva sempre più male. Quando giunse il giorno della partenza, i nostri reciproci genitori si salutarono sulla strada davanti alla casa dello zio prete che fiancheggiava la chiesa. Lei stava in mezzo ai suoi con la testa bassa, la faccia rivolta all’asfalto. Io invece mi trovavo di fianco ai miei con la faccia rivolta verso l’alto. Non ci guardavamo, faceva troppo male.
Gli adulti quasi sempre non capiscono. E quegli adulti di allora aggravarono la loro mancanza di conoscenza quando ci scrollarono a vicenda, dicendo: “Su, salutatevi.” Ma ho rimosso quel momento, non ne so più nulla. Fu un trauma, di sicuro.
La montagna, dopo che lei se ne andò, divenne triste. La musica struggente e angosciante. Ero rimasto solo.
L’ultimo giorno di vacanza, dopo la festa del paese, scesi gli scalini e davanti a quella casa che i suoi prendevano in affitto per l’estate la chiamai decine di volte a bassa voce. Per non farmi sentire dagli adulti.
Se n’era andata via. Non avremmo più giocato insieme, non si sarebbe mai più seduta su un prato vicino a me, non mi avrebbe mai più preso la mano per stringersela sul viso a elemosinare una carezza, non mi avrebbe mai più sfiorato le labbra con le sue. Era andata troppo lontano, a Genova, e l’estate seguente, quando sarebbe tornata qui per la nuova vacanza, non ci saremmo più ritrovati perché i miei lo avevano già deciso: “Il prossimo anno si va al mare dalla zia Piera, così nuoti un po’ che ti fa bene.”
Avevo solo dodici anni, nell’estate del ’62, ma solo oggi che ne ho cinquantotto mi rendo conto di quanto quel ragazzino l’amasse. Un amore di ragazzo stupido e goffo, che nulla sapeva di erezioni, pulsioni e riti d’iniziazione. Lei con i capelli castani lisci e lunghi, legati in due lunghe trecce, lei con una indimenticabile traccia di piccola bruciatura sulla guancia (forse) sinistra, lei con gli occhioni e le labbra sorridenti.
Lei che forse tornò l’estate del ’63 e che non mi trovò.
Fu quella l’estate più crudele. Ma i bambini non dimenticano, anche se poi ti arrivano addosso un sacco di cose che si accumulano e nascondono i ricordi nel fondo di un abisso.
Il luogo di cui parlo sta nell’Appennino Ligure, sopra Busalla nella zona di Savignone. Si chiama Montemaggio, è un borgo incantevole per quel che ricordo. Ci abitano ormai solo una trentina di persone.
Naturalmente posso elaborare questa storia da solo. Il plot prevede che Miriam scomparve in quell’estate del ’63 durante la festa del 16 agosto. Ci sarà uno sviluppo in chiave thriller che ne darà spiegazioni, va da sé. Ma l’esperimento, la sfida di possibile interazione che lancio attraverso “La luce oscura”, consiste nel tentativo di ritrovarla e di materiare la vicenda con lei. Se lei riesce a ricordare, certo. E tutta una fila di altri “se”. Tra i quali c’infilo: “se non avessi mai letto il racconto di Capote.” E se Capote stesso non l’avesse scritto… E allora, visto che ci siamo infilati in un gioco di specchi, soffermiamoci su lei per porci delle domande senza risposta.
Chi è la Miriam di Capote? Sappiamo che la bambina e la vedova hanno lo stesso nome. Alter ego, doppio, proiezione allucinatoria, Miriam è sintesi demoniaca tra una piccola strega e un fantasma persecutore. Forse una delle immagini archetipiche che incalzano lo spirito all’approssimarsi della morte.
“Miriam è un doppio”, ebbe a dichiarare Capote, “come tanti altri doppi della mia opera. E’ il doppio della signora Miller, come la bambola che a un certo punto fa la sua comparsa è a sua volta è il doppio di Miriam”.
Chiunque sia la Miriam del grande scrittore americano, io sento il dovere di tentare a lanciare un appello per trovare “quella” di Montemaggio, estate del ’62 (forse…). Perché Capote ha scritto questa frase in chiusura del suo incredibile racconto, questa frase che necessita di riportare per intero:
“In periodi di terrore e di immensa disperazione vi sono momenti in cui la mente rimane in attesa di una rivelazione, quando sul pensiero si stende un velo di calma; è come un sonno, una trance soprannaturale; e durante questa pausa si è consci di possedere una forza di lucido ragionamento: bene, e se la signora Miller non avesse mai conosciuto una bimba di nome Miriam?”
E’ una frase che gli rubo. E se anch’io non avessi mai conosciuto una bambina di nome Miriam?