di Danilo Arona
Un giornalista americano di nome Devon Jackson scriveva negli anni’90 sul popolare settimanale newyorkese The Village Voice che “i serial killer sembrano essere ovunque, entrano nel meccanismo dell’intreccio di qualsiasi cosa, dalle serie TV a tantissimi thriller cinematografici, appaiono nelle mostre delle gallerie d’arte, nei fumetti e nelle figurine (almeno cinque raccolte diverse)”. Un fenomeno del quale la docente di studi americani all’Università del New Mexico Jane Caputi, autrice del libro The Age of Sex Crime, tentò una sintesi in questo modo: “I serial killer sono l’emblema della nostra misoginia culturale e, a livello di microcosmo, l’equivalente della tecnologia che produciamo: bombe ai neutroni che vagano per le strade in cerca di vittime.”
In poche parole, riportando peraltro un suo pensiero alla lettera, Jane Caputi aveva la sensazione – a metà degli anni Novanta – che i serial killer fossero un’anticipazione, se non addirittura una sintesi epifenomenica, dell’Apocalisse.
Siamo nel 2007. Le considerazioni, appena riportate, della signora Caputi hanno ancora il loro senso?
La risposta è: Di più – Più che mai.
Perché? Da quindici anni – più o meno – a questa parte si sta avverando, si sta concretizzando, il timore sotterraneo dell’analisi junghiana, quello che l’Ombra possa collettivamente – universalmente – trasformarsi nel Male a tutto tondo. Stiamo ovviamente parlando di simboli e di segnali – signs – dell’inconscio, ma è proprio lì – nell’inconscio – che, ce lo hanno insegnato in tanti di quei modi tanto la letteratura di genere che il cinema, occorre scendere per trarne spiegazioni e illuminazioni (approcci che, non si può far altro che constatarlo, mi paiono bizzarramente assenti da un caso pressoché unico nella casistica mondiale come quello di Donato Bilancia…), metodologia che ci viene sempre, qualche volta maldestramente, consigliata dagli “esperti” di turno in certe trasmissioni televisive. E, proprio per questo, occorre allora ricordare che il concetto dell’Ombra, per Jung e per la sua scuola, nasce neutrale, senza connotazioni negative e senza legame alcuno con quella che potremmo definire come la “pratica del male sociale”. In pochissime parole, alla ricerca impossibile di una sintesi perfetta, possiamo qui richiamare il concetto dell’Ombra come quella parte di noi che ci è nascosta – definizione dove non soltanto allusioni filosofiche o religiose al concetto del Male, ma dove invece si coglie un’immagine molto funzionale che ben rappresenta l’esistenza dell’inconscio nel termine più paradossalmente consono: la sua assenza nei piani alti del conscio.
Faccio un esempio reale e “paesaggistico”: quando camminiamo per strada in una bella e serena giornata, con il sole che c’illumina, sul selciato accanto a noi vediamo un’ombra oscura. E, più brillante è la luce, più l’ombra è scura, nera. Questo è un esempio classico, canonico, di cui l’analisi junghiana si è spesso servita per affermare l’assunto (che può essere culturale, quindi soltanto una nozione acquisita) che in tutti e noi c’è una parte della nostra personalità che ci è nascosta. E’ un esempio logico, probabilmente sul piano pratico l’unico fattibile, ma che denuncia in sé stesso il proprio limite: quell’Ombra non sarebbe visibile senza la presenza dell’astro di luce. Estremizzando l’esempio, in un mondo privo di luce – non perché “vuoto” dell’elemento solare, ma perché semplicemente avvolto in un’eterna e spessa coltre nuvolosa – quell’Ombra non esisterebbe, perché non la vediamo, e se non avessimo mai in qualche modo recepito l’assunto culturale dell’Ombra stessa, chiaramente quest’ultima non esisterebbe. Non sarebbe neppure “invisibile” come il gioco messo in campo dalla tautologia linguistica di un film che s’intitolava L’uomo senza ombra (perché l’uomo in questione, appunto, era invisibile), ma proprio “assente” per cui “inesistente” in quell’ipotetico mondo. Quale conseguenza trarne? Che la certezza culturale dell’Ombra deriva dalla presenza della massima luce.
Oggi – nel 2007 – è proprio su questa luce che dobbiamo riflettere per capire qualcosa di questo nostro Lato Oscuro che è sempre meno un fatto “personale” e sempre più, forse, una patologia di massa… Perché, appunto, l’Ombra, in virtù di questa Luce, si è trasformata culturalmente nel Male Sociale, un humus dilagante a raggiera che denuncia analoghi corrispettivi in società diversissime fra di loro.
La Luce… che cos’è? La luce è il massimo della visibilità. Quindi, soprattutto, luce mediatica. Nel massimo della visibilità oggi c’è il rischio di veicolare i più grandi inganni ai danni dell’uomo – quell’uomo che non intende più scoprire quel lato oscuro “positivo”, nato neutrale per quel che almeno ci racconta la filosofia di Jung – e di consumare e di veder consumati mostruosi delitti, a partire da quelli che filosofi come Jean Baudrillard hanno definito “il delitto perfetto della scomparsa del reale” (o, scendendo un po’ più a terra, quel che un giornalista come Marco Travaglio ha chiamato “la scomparsa dei fatti”), ovvero allucinazioni mediatiche a occhi aperti, miliardi di occhi aperti nello stesso preciso istante, e consensualmente consumate. Non vi faccio l’esempio classico – crocevia giustificabile di ogni complottismo – dell’11 settembre sul quale esiste una sterminata letteratura e anche filmografia (discipline della visione…) – non lo faccio perché andremmo anche fuori tema (anche se 3000 vittime dovute a serial killer che continuano tuttora a uccidere senza indossare la maschera filmica di Michael Myers potrebbero tranquillamente starci in questo discorso…), ma ce n’è uno nella cronaca recente – che strappa anche qualche sorriso al limite – che rende bene l’idea di quel che intendo con la terminologia “allucinazione consensuale”: il 7/09/07 è stato diffuso su tutti i circuiti internazionali un nuovo video di Osama Bin Laden in cui un individuo abbastanza somigliante (ma non specularmente sovrapponibile) al cosiddetto sceicco del terrore faceva le sue solite arringhe contro l’Occidente a pochi giorni dall’anniversario dell’11/09… Ora, al di là dei soliti bloggers più o meno complottistici, da nessuna parte si è levata una nota ufficiale e significativa di dubbio: possibile che quel personaggio – con un naso talmente diverso dal naso universalmente “noto” di Bin Laden e dalla barba completamente nera – fosse proprio lui? Non sto parlando di certezze, né a favore dell’una o dell’altra tesi: sto parlando di dubbio, sacrosanto e legittimo… Eppure nulla, perché quel messaggio in video aveva una sua logica mediatica che qui potremmo spiegare e che poco c’entra con l’argomento di questo intervento.
Perché la verità – quella paradossalmente in “ombra” – è che vediamo quel che vogliamo vedere, soprattutto quando nulla si frappone fra noi e la verità visivamente concessaci.
Quanto c’entrano tali considerazioni con i serial killer? Quanto con quelli dell’immaginario e quanto con quelli “reali”, della cronaca? Molto. Perché, al di là della Luce filosofica del Male chè è quella della massima visibilità – esposta a tal punto da “non vedersi” e da non averne l’esatta percezione (così sintetizzata da Quirino Principe durante un’intervista a me rilasciata: “questa luce che ci circonda è qualcosa di mostruoso, di malvagio e d’infernale… e d’ingannevole” – e del resto la luce non è l’elemento cardine di Lucifero?…), andrebbe ricordato il periodo di nascita della “luce mediatica” di cui andiamo parlando con un paio di singolari coincidenze temporali.
Il giornalismo moderno nasce attorno al 1500, ma bisogna attendere il 1660 per avere a Lipsia il primo quotidiano. In Europa la grande trasformazione verso quelli che poi diverranno i parametri che ancora oggi s’impongono come modelli inevitabili di riferimento data alla metà dell’Ottocento: da questo momento, soprattutto in Gran Bretagna, è la corsa verso la specializzazione verso il giornalismo professionale, verso il coinvolgimento alla notizia stessa di tutte le classi sociali e, soprattutto, verso la cultura della notizia come merce, assolutamente coinvolgente sotto il profilo emotivo. Tale lavoro di affinamento si riscontra in Europa e in Inghilterra a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Possiamo altresì notare che: 1) il più eloquente romanzo psicoanalitico (in senso junghiano), anche se pubblicato anni prima della nascita ufficiale della psicoanalisi, uscì nel 1886 e s’intitolava Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, e non è fuori luogo ricordare che parlava in sincrono tanto dell’Ombra quanto di un serial killer… 2) le gesta del famoso Jack lo Squartatore, il cosiddetto “primo serial killer” della storia, nelle oscure viuzze di Whitechapel si situano fra il 1887 e il 1889. Coincidenze puramente casuali? Assolutamente no… L’Ombra che si tramutava in Male, per colpa della totalità di Luce, e presagiva una futura Apocalisse, era già al lavoro.
Come riporta lo scrittore surrealista Robert Desnos, prezioso testimone del linguaggio onirico morto prematuramente in un campo di concentramento del 1945, Jack lo Squartatore entra da subito nell’immaginario collettivo dell’epoca grazie a una puntualissima e totalizzante cronaca giornalistica che lo dipingono come un “essere diabolicamente audace e incredibilmente misterioso”, attribuendogli “in diretta” una precisa valenza simbolica di straordinaria fascinazione: in quegli “anni Ottanta” Jack era l’Ombra di ogni londinese, il calibano che abitava – e che abita tuttora – in ciascuno di noi.
La “luce” – morbosa nel caso specifico – del giornalismo dell’epoca rese possibile a tutti la visione di quella Ombra accanto a sè, sul selciato… La psicoanalisi avrebbe fatto la sua parte da lì a poco e la “sincronicità” con l’Hyde di Stevenson, cui potremmo aggiungere pure il Dorian Gray di Wilde, ce lo conferma. I delitti di The Ripper trovarono – da subito – sulla stampa un’eco incredibile, quasi assurda, perché si creò un vero e proprio mito andando – in epoca vittoriana! – a descrivere minuziosamente l’assoluta ferocia delle mutilazioni inferte alle vittime… il Times riportava fedelmente referti medici:
… l’addome era completamente squarciato, gli intestini erano stati strappati e posti sopra la spalla destra, l’utero sottratto, il cuore e i reni posti accanto ai seni, il fegato collocato sulla coscia destra, l’enorme quantità di sangue sparso, i pezzi di carne proiettati sulle pareti, etc etc…
E’ la luce mediatica che tutto illumina, senza occultare nulla, e che dà materia a quell’Ombra di cui parliamo. E tanto illumina, che G.B. Shaw scriveva polemicamente al giornale Star una lettera in cui sosteneva che aveva fatto di più per l’East End Jack lo Squartatore con i suoi delitti che non i socialisti con tutti i loro discorsi… Ma a questo punto, grazie a quella luce – e qui facciamo nostra l’ottica di Desnos – ecco farsi avanti la ritualità del delitto fine a sè stesso, operazione tutta mentale che sceglie la via della serialità come dialogo con l’Ombra – la sua e quella collettiva – alla luce mediatica… Nasce il moderno omicidio rituale, come sfida narcisistica – sempre più oltre – alla propria pulsionalità. Nasce come linguaggio in codice da mandare al di là di questo gigantesco riflettore. L’omicidio come raffigurazione dell’Ombra di chi lo commette e di chi lo fruisce dalle pagine dei giornali, magari gustandoselo come un manicaretto di rara e preziosa delizia gustativa. Da qui nasce anche quell’immaginario che ancora oggi nutre il genere – o il sottogenere – dei mass murderers. Dalla coscienza della complicità – inevitabile quanto involontaria- mediatica da parte di chi commette il reato. Con il sottotesto non da poco che si tratta di una complicità borderline tra l’immaginario e la cronaca: come se la stessa luce di cui stiamo parlando illuminasse al contempo la realtà e la fiction. Se lo stesso Thomas Harris ritiene legittimo e necessario il dover assistere al processo di Pietro Pacciani per trarne a suo dire materia per i libri su Hannibal Lecter, si propone con evidenza la realtà di un’Ombra comune alle due dimensioni – microcosmi che solo per convenzioni tendiamo a separare… Peraltro, a confermarlo – quando mai ce ne fosse la necessità – è ancora il modello divenuto leggendario di Jack lo Squartatore che, a più di un secolo di distanza alimenta con le sue caratteristiche “reali” un immaginario comunemente definito “catartico”. Al punto tale che gli italiani, quando si sono visti proporre come “mostro di Firenze” un poveraccio piccolo e grasso, con le mani callose da contadino, il cappellino da ciclista e lo stecchino che fuoriesce dalla bocca, sono rimasti non poco perplessi. Di più, delusi… perché il modello sotteso dall’Ombra è quello del dandy intellettuale, con cilindro, bastone e cappello nero, che “si concede” alla melma di Whitechapel per praticare per il suo – e il nostro – divertimento quello che De Quincey definiva come “una delle belle arti”… E’ la fascinazione dell’orrore che, se nella fiction propone un Lecter fascinoso, magnetico e sostanzialmente “eroe positivo” (per il quale fare il tifo – lo conferma anche una lettura superficiale dell’ultimo libro Le origini del male), nella realtà filtra persino nelle non poche smagliature della storia del signor Donato Bilancia, un serial killer così imperscrutabile e così “carismatico” – riuscì a bloccare uno sceneggiato di Michele Soavi sul suo conto, Ultima pallottola, imponendo tramite i suoi avvocati che nomi, compreso il suo, e circostanze venissero cambiate, facendo sì quindi che la fiction risucchiasse la cronaca… – che, tranne un utilissimo e allarmante libro di Ilaria Cavo, in Italia si è rinunciato a “scrutarlo”, come in realtà bisognerebbe fare… Ecco tornare l’assunto: più luce e più Ombra. Ombra come Male, male non spiegabile e male comune, collettivo e planetario, senza più linea di distinzione tra reale e immaginario: e occorre qui ricordare che continuo a riferirmi alle dinamiche dell’inconscio… perché un film, un libro, come un sogno, potrebbero avere le stesse ricadute sul profondo della lettura di un articolo o di un’esperienza diretta con il terrore.
E’ questo il paradosso di una società solo all’apparenza civilizzata e ipertecnologica. Quella società “planetaria” in cui vagano quelli che Jane Caputi chiamava, a ragione, “anticipatori dell’Apocalisse”. Non è un caso che i serial killer, oltre che un epifenomeno letterario di grande successo, siano un fenomeno autentico della cività moderna, urbanizzata, ipertecnologica (interessante sarebbe divagare sui cyber-serial killer…), nato in contemporanea con il giornalismo professionale, la psicoanalisi e l’estendersi di quelle che Paul Virilio chiama “Città-Panico” (al punto che sarebbe interessante una ricerca sulla diade serial killer e post-moderno…)… procedono di pari passo in questo caso immaginario e reale, perché l’uno vicendevole schiavo dell’altro. Diversi anni fa Giuliano Gramigna sul “Corriere della Sera” ebbe a scrivere che cinema, letteratura e fumetto, ci hanno regalato col tempo un mare di esperienze virtuali. imbastendo una trama di parole e immagini che sono entrate a far parte tout court della cultura popolare. Giusto per fare un esempio, in conseguenza di ciò risulterebbe logico e naturale corredare le gesta di Stevanin o di Bilancia con una immagine pescata dal repertorio filmico: cosa che spesso vediamo sui giornali, che so, la faccia di Hopkins a commento estetico del cannibale o dello sventratore di turno. Ammiccamenti? Citazioni? Pigrizie redazionali? Assenza di vere fonti fotografiche? Può darsi: ma il dato di fatto indiscutibile è che la lettura della realtà fatta attraverso gli occhi della fiction finisce per inculcare una massa di informazioni ben più densa da quella che potrebbe essere ricavata dal semplice reportage cronachistico. E’ come se in questo caso la fiction cinematografica dicesse: la Realtà sono io. Affermazione non sicuramente vera, ma indicativa di quell’Ombra e di quella Luce che sbiadiscono i confini percettivi tra le due dimensioni.
Perché sostanzialmente – ed è questa l’ultima riflessione – la signora Caputi colpisce il bersaglio come meglio non si potrebbe quando inserisce il concetto di Apocalisse nella sua analisi sul fenomeno degli assassini seriali.
Qual è l’elemento mitico più inquietante del concetto di Apocalisse? Se ci pensate un attimo in più del dovuto, non avrete dubbi: è il contagio – concetto che non necessariamente può fare solo riferimento alla paura planetaria delle varie SARS, influenze aviarie, Ebola, etc… -, ma che qui trova spazio come prolungamento del pensiero di Jane Caputi come “contagio psichico”, morbo dilagante della mente che, alla luce estrema del sistema mediatico mondiale, è in grado di moltiplicare esponenzialmente le bombe al neutrone – serial killer lasciate libere di vagare per il pianeta.
La tesi appare troppo ardita?
No, la tesi è già vecchia. Nel 1994, raccogliendo i materiali assieme all’amico Gian Maria Panizza per il libro Satana ti vuole (che sarebbe stato poi pubblicato da Corbaccio l’anno successivo), mi resi conto – con un certo sconcerto – che la famosa strage di villa Polanski (agosto 1969) a opera della Manson Family (a tutti gli effetti riscontrabili, una “setta” di serial killer…) poteva tranquillamente leggersi, a distanza di decenni, come il sanguinoso modello-preambolo che avrebbe lanciato in America una sorta di sindrome quasi “terroristica” a opera di maniaci e assassini seriali che dal caso Manson prendevano a prestito – complice l’inevitabile luce mediatica – la finalità “comunicativa e terrorizzante”. Tanto il BSU (il Behavior Science Unit) che il NCAVC (National Center for Analysis of Violent Crime), strutture che lavorano d’intesa con l’FBI, hanno ampiamente dimostrato che la strage di Bel Air ha proposto al mondo e ai futuri serial killer il modello del gruppo, o del “singolo”, che uccide per “comunicare”, giungendo così a stabilire che, se per certi delitti seriali dagli anni Settanta in poi può sussistere un’ipotesi “epidemiologica” (serial killer copycat), per tantissimi altri scatta l’ipotesi del contagio comunicativo. Pensate a Zodiac, al Figlio di Sam, a Richard Ramirez, giusto per citare quelli di cui si è impadronita in diverse modalità anche la luce mediatica del cinema, e che interagivano con messaggi – quasi una botta e risposta – con polizia e giornali dell’epoca…
Non voglio rubare altro spazio. Ma solo, in conclusione, richiamare l’attenzione sulla cronaca, anche italiana, degli ultimi tempi: si stanno moltiplicando da un lato i “delitti senza movente” e dall’altro “i delitti per ispirazione” (caso Meredith, “ribattuto in Francia…).
Jane Caputi direbbe che l’Apocalisse è già qui e sta dilagando. La psicoanalisi junghiana sosterrebbe che l’Ombra collettiva ha preso il sopravvento. I media e l’immaginario si nutrono della cronaca, moltiplicando a dismisura il numero degli “anticipatori dell’Apocalisse” all’opera…
E qualcuno avanza il dubbio che il processo stia per invertirsi: che la Luce diventi Ombra e che l’Immaginario vada a nutrire la Cronaca… Pura Apocalisse, non più evitabile.