di Enzo Fileno Carabba
6. IL CONCHIGLIAIO
Per molti anni ho condotto esperimenti della massima importanza. Tali esperienze avevano luogo soprattutto in camera mia e nel bagno attiguo.
La mia idea, me ne rendo conto solo adesso, era che l’anima andasse potenziata per sopravvivere nell’aldilà. Non potevo credere che tutte le anime sopravvivessero dopo la morte.
Non era possibile. E se anche fosse stato possibile, il risultato sarebbe stato una confusione improponibile.
Tuttavia non era neanche possibile che tutto andasse perduto. Ci doveva essere una specie di selezione delle anime. Alcune sopravvivevano. Non tutte.
La mia sì, per esempio.
Essendo un materialista non riponevo alcuna fiducia nei preti – per non parlare delle suore – secondo me il rafforzamento dell’anima e la conquista dell’eternità erano questioni concrete e passavano attraverso la conoscenza.
Io intendevo conquistare l’immortalità come altri conquistano una nazione.
Gli anni tra la fine delle elementari e le medie furono anni di studio appassionato di testi scientifici di cui non capivo nulla. Però l’emozione era enorme. Forse impossibile da descrivere agli altri.
Ogni tanto qualche adulto estraneo e gentile, avendo avuto notizia della mia passione, mi regalava qualche libro sulla natura per bambini. La cosa mi disturbava. Mi piacevano veri testi scientifici, anche se non li capivo. Quando mi buttavo in questi libri oscuri (spesso irti di numeri) avvertivo una corrente profonda dentro di me, un brivido di forza, un’esaltazione. Particolarmente misteriosi e avvincenti risultavano per me i libri di astronomia. Vi ero arrivato partendo da libri non del tutto riconosciuti dalla comunità accademica internazionale, tipo Ho incontrato un’extraterrestre. Avevo una collezione impressionante di racconti “veri” di gente che giurava di aver frequentato lungamente gli alieni. Magari la cosa era iniziata con un rapimento, però poi diventavano amici. Una specie di sindrome di Stoccolma. La cosa positiva era che questi alieni non risultavano mai tipi squallidi o insignificanti. Dopo un po’ mi era venuta voglia di conoscere cosa diceva la Scienza dei luoghi di origine di questi tipi straordinari – gli alieni – e così mi ero procurato veri testi di astronomia e simili.
Particolarmente umilianti mi risultano oggi libri tipo: La relatività con le quattro operazioni (spesso muniti di sottotitoli che vogliono dire: questo libro lo capirebbe anche una capra), dato che io continuo a non capire. Ma allora mi piacevano alla follia, anche perché se non capivo ero giustificato dall’età.
Era come stare su un baratro pericoloso, o al limitare di una tempesta, ma senza sporgersi troppo.
A essere precisi questa smania di conoscere non aveva avuto origine con gli extraterrestri ma partendo dal basso, per così dire: con le conchiglie. Avevo messo su una collezione che poteva far invidia a un adulto, purché dotato di sensibilità. Da quella ero passato alla biologia marina e poi su su, risalendo la colonna d’acqua e poi la colonna d’aria, fino alle stelle e oltre.
Sempre senza capirci un tubo, s’intende. Ma mi sembrava di poter abbracciare tutto con la mente. Forse era lo sforzo per conquistare la conoscenza, più che la conoscenza stessa (che infatti rimaneva lontana), a generare una piacevole sensazione di onnipotenza.
Un amico dei miei coniò per me il soprannome di Professor Saccenti, docente alla Sordona. La cosa era inspiegabile, data la mia modestia. Ma questa cosa della Sordona mi piaceva, intuivo che dovevo essere un luogo importante e ne ero fiero.
Tuttavia ero molto impegnato e alla Sordona non ci andavo mai, non mi curai neanche di conoscere il suo indirizzo, a meno che non fosse un altro nome per camera mia.
Contemplavo le conchiglie per ore. Forse il vero collegamento tra l’aldiqua e l’aldilà erano loro. C’è una conchiglia che non ho mai avuto, anche perché era abbastanza rara e costava troppo. Si chiama Cyprea aurantium. E’ molto grossa, per essere una ciprea. A volte sembra gonfia di una luce interna, a giudicare dalle fotografie. Da quanto avevo letto, i polinesiani pensavano che dopo la morte l’anima prendesse dimora in queste conchiglie, nella Cyprea aurantium. Perlomeno l’anima dei capi.
Io non ero un collezionista specializzato in cipree. Preferivo conchiglie più rudi e spigolose, con un’aria antica, come i muricidi: esseri simili a rocce dotate di vita. O conchiglie più slanciate, seppure solide, come i conidi, esseri dal disegno essenziale ed elegante capaci (in vita) di lanciare dardi velenosi. Tuttavia questa storia della Cyprea aurantium come sede delle anime dei capi polinesiani mi interessava. Doveva esserci qualcosa di vero.
Ora, nonostante la giovane età intuivo che non potevo definirmi un capo polinesiano, e neanche un polinesiano qualsiasi. Quindi per me la Cyprea aurantium non andava bene. Se avessi provato e entrarci sarei stato cacciato a calci in culo, per così dire. Eppure volevo trovare la mia conchiglia. Quella in cui sarebbe trasmigrata l’anima. Ci tenevo a individuarla prima della trasmigrazione, cioè quando ancora ero vivo, anche per non avere sorprese dopo. Sempre con la mia impostazione rigorosamente materialista immaginavo che l’anima, appena staccata dal corpo, doveva essere parecchio sbattuta, vulnerabile, come un paguro quando esce da una conchiglia perché non ci sta più e deve cercarne un’altra. Quindi conveniva avere le idee chiare per individuare subito la conchiglia giusta, prima che qualche predatore ti azzannasse.
Ogni tanto quando avevo dei fondi a disposizione andavo dal pescivendolo e gli chiedevo, mettiamo, tre cefali.
Speravo sempre che il pesce sputasse una conchiglia rara, come succedeva puntualmente nei libri di malacologia che leggevo. Magari in pescheria saltava fuori la mia conchiglia.
E poi comunque i pesci facevano sempre parte del mare, anche se i tipici pesci che uno disegna da bambino non suscitavano la mia emozione profonda (al limite le cernie o le rane pescatrici, più primitive).
Il pescivendolo era un omone che divertiva le donne con i suoi lazzi.
Tre? Fece un sorriso enorme. E come lo preferisce il branzino tua mamma? mi chiese la prima volta. Le clienti ridacchiavano sotto i baffi abbondanti e curati.
Lo guardai senza capire. Prima di tutto, per quanto ne sapevo, un cefalo non è un branzino. E poi io volevo tre cefali. Solo molti anni dopo, leggendo la scritta sul muro “Marco bel branzino”, mi si è aperta la mente.
Sono per me, dissi guardando in terra. Li conservo, spiegai alzando fiero la testa.
Il bravuomo rimase impietrito. In effetti, scopri in seguito, era una bravissima persona, mi dava anche dei pescetti gratis. Era anche un tipo raffinato, a suo modo, le battute era obbligato a farle perché le clienti se lo aspettavano. Diciamo che era pescivendolo e attore.
Tornando a casa con il mio involto di pesci sotto braccio a volte trovavo Alfio, il pizzicagnolo, sulla soglia del negozio (mi sa che lavorava di più la moglie) che mi faceva: dimmi ciao. Io glielo dicevo ciao, ma la cosa mi intimoriva più che se avessi dovuto dargli del voi.
Una volta a casa sperimentavo i mille modi di conservare i pesci e altri animali e perfino le piante, con essiccatoio e tutto.
Per quanto riguarda quei tre cefali, li misi sotto formalina.
Accanto a camera mia c’era un bagno che usavo solo io, un’estensione del mio regno: era lì che operavo. Indossavo dei guanti gialli di quelli per lavare i piatti, facevo delle iniezioni di sostanze conservanti ai pesci e poi preparavo i contenitori di vetro, pieni di acqua e formalina a diversi dosaggi. Le esalazioni di formalina mi facevano bruciare gli occhi e mi stordivano. Una cosa esaltante. Forse è per questo che non mi sono mai drogato. Mi bastava la formalina.
Ricordo camera mia quando era vuota, la prima volta che la vidi. Quando ancora abitavamo da un’altra parte (a circa cento metri da lì) e cercavamo una nuova casa dove traslocare.
Mi piacque immediatamente: quella carta da parati a fiorellini gialli mi faceva impazzire. Pregai che i miei prendessero quella casa, e in effetti — lode alla mia mente potenziata! – la presero. Tuttora, nel ricordo, mi solletica qualcosa: il mio cervello deve essere foderato a fiorellini gialli. E ora che ci penso quando nei boschi in qualche pozza ombrosa trovo le primule gialle provo un brivido, come se tutti questi ambienti — i boschi, camera mia, la mia scatola cranica foderata a fiorellini gialli — fossero collegati da sempre.
Nel giro di pochi anni camera mia si trasformò in una specie di Museo di storia naturale. C’era di tutto. Appese al muro, le teche con le conchiglie e qualche minerale. Poi – a parte la libreria vera e propria, addossata alla parete: una libreria di legno su cui correttamente stavano i libri — sorgevano nella stanza, come piccole torri per l’avvistamento di chissà cosa, delle librerie metalliche, più scheletriche, sui cui scaffali stavano fossili, ossa, bocce e scatole con dentro di tutto, a parte – unica lacuna – pezzi di essere umano. Contenitori trasparenti con gli insetti, piante essiccate, minerali, scorpioni, lumache. Perfino funghi alla rinfusa, anche se all’epoca non ne coglievo la meraviglia, li avevo collezionati solo per una smania sistematica.
Mi piacevano le scatoline dentro cui riponevo i reperti più piccoli. Le scatoline mi davano un senso di ricchezza e mistero.
Mi procuravo anche un sacco di sostanze di cui ricordo vagamente i nomi: acido fenico, creosoto, paradiclorobenzolo, trementina e così via. Tutte insieme generavano un profumo indimenticabile.
Non mi dispiaceva dormire circondato da scorpioni, cervi volanti, fossili, pietre, zolle di terra da cui faceva capolino qualche orso nanna di peluche. Avevo anche un bellissimo serpente di quelli neri e gialli. Ogni tanto qualche adulto estraneo in visita si stupiva, essendo limitato trovava la cosa inquietante, mentre per me era proprio l’opposto: studiavo la propagazione della vita, anche se non si può dire che sia giunto a conclusioni definitive.
La mia famiglia comprendeva un ramo scientifico, e fu questo ramo che forniva gli strumenti al professor Saccenti, docente alla Sordona. O perlomeno gli indicava i negozi dove comprarli. Il ramo scientifico stava a Bologna. Bologna era la scienza, per me. Il fratello di mia nonna paterna, lo zio Enrico, era un importante zoologo, accademico dei lincei, che dirigeva il museo di storia naturale di Bologna o qualcosa del genere. Ogni tanto andavo a Bologna e mi insegnavano a usare gli stenditoi per le farfalle, i cartoncini e gli spilli. Nel retro del Museo di Storia naturale vedevo quei biologi marini intenti a preparare animali, anche squaletti, ero al settimo cielo. Si vociferava che lo zio Enrico si lavasse un piede al giorno, ma ogni tanto si scordava quale piede si era lavato il giorno prima e così si lavava per due giorni lo stesso piede, che senz’altro risultava pulitissimo. In ogni caso, doveva essere una cosa che faceva bene ai denti, perché anche in tarda età non ha mai avuto una carie. Io ho provato ma non ho ottenuto gli stessi risultati.
Mi esaltavano le storie in cui qualche scienziato geniale e incompreso manipola la materia vivente o anche ex vivente. Frankenstein, per esempio (lo scienziato, non la creatura), che io vedevo un po’ come il sindaco di questa comunità di scienziati coraggiosi, mi entusiasmava.
Mi sfuggiva il lato drammatico della questione.
Infatti il mio Frankenstein di riferimento era quello di Frankenstein junior, il film di Mel Brooks. In teoria lo sapevo che era una parodia, ma dentro di me lo prendevo sul serio.
Nel film c’è il nipote del dottor Frankenstein. Il nipote è un “vero” scienziato che insegna mi pare in America, e disprezza il famoso nonno: un famoso “coglione”, come lo chiama lui. Si vergogna del nonno al punto che si fa chiamare Frankenstin, invece di Frankenstein. A un certo punto è costretto a recarsi nello sperduto paesino europeo dove il nonno ha condotto i suoi esperimenti. Lui ci va, ma è scettico e sprezzante. Solo che a poco a poco si convince che forse il nonno non aveva tutti i torti.
Mi piaceva da morire la scena drammatica in cui il nipote dice all’assistente, che alla fine ha imparato a chiamarlo Frankenstin: io non mi chiamo Frankenstin, mi chiamo FRANKENSTEIN! E raccoglie così, mentre risuonano i tuoni, la sua impegnativa eredità morale. Praticamente mi commuovevo.
Anche nell’Apprendista stregone della Disney, l’episodio iniziale di Fantasia, ero molto fiero quando Topolino scatenava le scope.
Lo zio Enrico non mostrava di vedere nulla di riprovevole in questa mia impostazione, anzi si divertiva ad ascoltarmi, non cercava di portarmi sulla retta via, per questo gli sono riconoscente. Io per lo più lo interrogavo sulle teorie circa l’origine della vita. Volevo capire come si fa. Non mi sarebbe dispiaciuto dare vita a un nuovo organismo: un nuovo tipo di lombrico capace di bucare l’asfalto, per esempio. Pare che lo zio avesse fatto delle importanti scoperte circa la sessualità delle rane, si sussurrava che avesse scoperto “il rano”. La cosa mi è sempre rimasta oscura.
E’ vero che questa versione dei meriti scientifici dello Zio mi è stata offerta da mia nonna, sua sorella. Raccontava sempre che quando si trovava in compagnia di qualche collega autorevole dello zio lo faceva vergognare iniziando discorsi tipo: “la fotosintesi clorofilliana…” con l’aria di voler continuare, e invece poi si fermava lì. Questo fin da quando erano ragazzi. Un’altra sua frase tipica era: “In questi ultimi anni la Scienza ha fatto passi da gigante”. Lo diceva con una faccia sussiegosa che mi faceva ridere. Mia nonna raccontava anche che quando andava in giro con lo zio Enrico, da ragazza, le gridavano: Oh, bella, cosa ci fai con quel nano.
Tutti questi aneddoti erano il modo che aveva mia nonna per comunicare che era fiera di quel fratello geniale che aveva scoperto “il rano”. Quando diceva “Accademico dei lincei” non c’era più nessuna ironia nella sua voce.
Una volta lo zio, da bambini, le aveva salvato la vita infilando le lunghe dita avvezze a prendere insetti in gola, dove le si era incastrata una spiga che la stava soffocando.
A Bologna, lo zio Enrico e sua moglie (che era anche sua cugina) vivevano ostaggio di gatti siamesi abbastanza autoritari, i veri padroni della casa. Per cui conveniva recarsi direttamente all’istituto di zoologia. Una volta sono andato a Bologna appositamente per comprare un murex elongatus, una conchiglia dall’aspetto insignificante di cui sentivo di non poter fare a meno. Infatti lo zio mi aveva messo in contatto con l’ affascinante mondo dei collezionisti di conchiglie e di insetti. E anche a distanza di molti anni mi sono arrivate lettere su questi argomenti (collezione di conchiglie e di insetti) che aprono nuove porte sulle deviazioni della mente umana.
All’epoca ero solito scrivere una breve scheda per ogni insetto, conchiglia, sasso, granello di polvere o filo d’erba raccolto. Non per quelli comprati, ma per quelli che trovavo personalmente. Poi mi lanciavo anche in testi più ampi, dove traevo le mie conclusioni. Ne ho trovato uno che inizia con la frase: “Sono peraltro convinto”. Non è un frammento, penso inizi proprio così.
Probabilmente l’avevo letto da qualche parte e mi era sembrato un buon modo per iniziare, anche se non sapevo cosa voleva dire esattamente. D’altra parte, non ero nuovo a questo tipo di imbroglio. Prima di iniziare le elementari, una sera, a casa della nonna Nadia, la mia nonna materna, avevo ricalcato con la penna certi solchi arabescati sulla pagina di un quaderno. Allora la carta dei quaderni aveva questi solchi e io pensavo fossero parole, così io mi ero presentato alla famiglia dicendo che sapevo scrivere.
Il mio interesse per le scienze naturali nacque forse quando, in tenerissima età, saltellavo su una gamba sola, e intanto scuotevo gli avambracci, mentre tenevo i gomiti attaccati al corpo. Facevo l’uccellino.
Era una performance ornitologica che realizzavo soprattutto all’aperto. Giustamente direi, dato che gli uccellini stanno all’aperto. Gli adulti ridevano, non coglievano la grazia e il rigore dell’imitazione.
Poi — deluso forse da quell’immeritato insuccesso — mi buttai nello studio sregolato degli anellidi e dei nudibranchi. I nudibranchi sono molluschi senza conchiglia, che se ne vanno in giro con eleganza. Bellissimi e colorati, li avevo visti strisciare o volteggiare sott’acqua, avvitandosi lenti su se stessi, apparentemente senza senso.
Probabilmente mi identificavo.
Certo oggi preferirei identificarmi in un Nautilus o in un Argonauta, conchiglie erranti a mezz’acqua, che coprono immense distanze nella vastità degli oceani. Ma forse l’adulto che è in me ha gusti avventurosi in qualche modo stereotipati. Mentre da bambino mi era più dolce identificarmi in un nudibranco che nel Nautilus. Può darsi c’entri qualcosa il fatto che uno dei miei ricordi più profondi è la perdita di orientamento nel letto. Mi giravo e rigiravo al buio come un nudibranco o un lombrico, e non riuscivo a capire dove ero.
Nel ricordo alla fine mi ritrovo faccia a faccia con un mio escremento.
Un ricordo lontanissimo ma – lo giurerei – esatto. D’altra parte, può capitare di ricordare cose lontanissime. Ho un amico che ha fatto dei sogni strani e gli hanno detto che quei sogni in realtà sono ricordi di quando era un feto. Io scommetterei che si può risalire ancora più indietro.
Per fortuna abitavamo sul bordo della città, sotto le colline. Nelle città mi sentivo chiuso, soffocato, avevo un bisogno strepitoso di spazi aperti intorno a me. E’ stato così fin da subito, fin da piccolissimo. Devo essere la reincarnazione di una stella alpina. Però camera mia per me non era un luogo chiuso, bensì l’estensione dei regni naturali, una specie di grotta delle meraviglie.
Anche la libreria vera e propria, quella coi libri, era piena di sportelli e anfratti bui in cui trovavano riparo conchiglie o reperti. Era una specie di barriera corallina piena di segreti. A volte mi stupivo io stesso. Ma erano così tanti, i reperti e i segreti, che avevano finito per costituire un regno indipendente, dotato di vita propria.
Resta il fatto che camera mia andava alimentata con materiale del mondo esterno. Gli insetti più che altro li prendevo quando ero in campagna dalla nonna Nadia, la mia nonna materna, che mi ha insegnato la bellezza di vagare a giornate per i campi. Certe notti appendevo strisce di carta igienica imbevuta di vermouth ai pini (c’erano due pini immensi) per catturare le farfalle notturne. Praticamente non ha mai funzionato, ma l’emozione era grande. Le strisce di carta igienica imbevute di vermouth emanavano un profumo inebriante.
Una volta presi un cervo volante. Lo addormentai mettendolo nel contenitore col cloroformio (ora, mentre scrivevo la parola “nel”, il computer mi ha dato l’opzione “nell’aldilà”), lo trafissi con lo spillone e lo riposi nella scatola trasparente. La mattina dopo, quando mi accingevo a redigere il cartellino, vidi che l’insetto, dimostrando una vitalità eccezionale, si era svegliato sospeso a metà spillone. Cercava invano di liberarsi. Quella è stata l’ultima volta che ho ucciso un insetto.
In generale i coleotteri mi facevano impazzire, con le loro armature possenti. Quando anni dopo ho letto La metamorfosi di Kafka confesso che il protagonista mi faceva una certa gola, anche se ha le zampe troppo esili. Trovavo negativo soprattutto quando la donna di servizio lo butta via come niente fosse.
A giugno trascorrevo ore arrampicato sui ciliegi della nonna, mi spingevo fino alle forcelle estreme, praticamente in cielo, perché nutrivo un amore profondo e, ci avrei scommesso, corrisposto, per le ciliegie. In quei giorni mangiavo quasi esclusivamente ciliegie, anche a manciate, quindi spesso col nocciolo, nella foga, e raggiungevo una sintesi mistica di estasi e mal di pancia. Le mie preferite erano quelle screziate o punteggiate, non quelle a tinta unita. Alcune ciliegie, appena beccate da qualche merlo che poi aveva cambiato idea e se ne era andato, venivano assaggiate dai moscondori, che si piazzavano sulla fenditura aperta dal becco del merlo. Chiamavo moscondoro quei coleotteri verde-oro che di solito succhiano il centro delle rose, forse il nome ufficiale è maggiolino. Una mia scoperta abbastanza rilevante fu che le ciliegie migliori sono quelle che sono state un po’ succhiate dai moscondori, forse perché questi coleotteri lucenti e vitali (perché in verità i miei coleotteri sono l’opposto del bestione funerario del racconto di Kafka) trasmettono alla ciliegia il profumo delle rose.
La mia bibbia era un libro intitolato Il naturalista (esploratore, raccoglitore, preparatore, imbalsamatore). Io — a parte imbalsamatore — mi sentivo tutte quelle cose, soprattutto esploratore e raccoglitore. E’ vero che ero affascinato dalla Soluzione mummificante, descritta nel ricettario, ma non ho mai provato. Certo era un libro pericoloso per gli incauti. Dato che naturalmente conservo gelosamente il volume, eccone un brano che mi causò non pochi problemi:
“Per compiere indagini nelle sedi degli imenotteri sociali, per impossessarsi di un loro nido (ad es. di un vespaio), per esaminarne il contenuto, si comincia col gettare entro il foro di entrata un batuffolo di cotone imbevuto di cloroformio o di benzina, tappando poi subito con stoppa e quindi con argilla. Facendo questa operazione sull’imbrunire, al mattino si potrà aprire il vespaio, con qualche precauzione…” (Hoepli pag 192)
Io provai, all’insaputa di tutti, e posso solo dire che gli imenotteri sociali, a dispetto del nome, possono avere atteggiamenti scontrosi.
Alla fine la mia anima risultò davvero potenziata dai miei studi. La differenza tra anima e mente continuava a sfuggirmi, ma sapevo che c’era. Se un uomo lo si vedeva nelle sue azioni, da cosa si vedeva un’anima? Non dai suoi pensieri, ci doveva essere dell’altro.
Comunque, non era il caso di andare per il sottile. Una cosa che mi piaceva, dei miei studi, era il senso di solitudine, di isolamento. Erano cose che non condividevo con nessun coetaneo, con nessun amico. I miei amici rimanevano sempre un po’ sorpresi, in camera mia. E ogni tanto qualche prezioso reperto è stato distrutto da una pallonata. Quella parte di me che si dedicava agli studi naturali era come una seconda personalità. Separata da quella che realizzava azioni di piccolo teppismo, tipo lo sradicamento degli stemmi dalle macchine, con gli amici.
Dopo aver passato qualche ora a leggere Zoologia generale, Genetica, Parassitologia, per esempio, oppure La nuvola della vita, origine della vita nell’universo, anche se non ci avevo capito nulla, tutto mi risultava più nitido. Il mondo sfavillava.
Dopo, anche andare a suonare i campanelli, o magari bloccarli con lo scotch e la colla, era un’esperienza di profonda intensità.
Una volta volli vedere il mio sangue al microscopio. Però non osavo colpirmi con l’ago. Allora chiamai mia mamma, perché ero sicuro che il nostro legame avrebbe reso la sua mano leggera. Invece il legame era appunto di sangue perché mi piantò l’ago nella mano così profondamente che ebbi paura di perderlo, l’ago, inghiottito dalla mano. In compenso non ebbi penuria di sangue per portare avanti le mie osservazioni.
Mi ero anche fatto regalare un piccolo telescopio. La sera mi affacciavo al balcone che dava sul cortile, con i panni stesi ad asciugare e qualche vicina ciabattante. Da lì contemplavo il firmamento. Ci doveva essere qualcosa di sbagliato perché non mi è mai riuscito neanche di inquadrare la luna. Evidentemente i testi che leggevo non avevano una ricaduta pratica immediata.
E poi, così come preferivo i molluschi e il plancton ai pesci, o le larve e i lombrichi ai caprioli, allo stesso modo non mi interessavo più di tanto ai pianeti del nostro sistema solare, e neanche alle costellazioni. Forse perché prima avrei dovuto individuarli nel cielo. Preferivo questioni del tutto astratte, rispetto alla mia vita. Come leggere un testo sulle nebulose o sull’ esplosione di una supernova fino a farmi girare la testa. Poi fissavo il cielo e immaginavo…
I grandi agglomerati cosmici e i lombrichi mi apparivano simili. C’era qualcosa di essenziale e di grandioso a accomunarli.
Ogni tanto entrava in camera mia Roberto Benigni, che ancora non era una star, mi afferrava sotto le ascelle, mi tirava per aria allegramente chiamandomi “Il conchigliaio”. Mi piaceva che mi definisse così, trattando con serietà la mia passione. Dire il conchigliaio è come dire il birraio: non un bambino che fa finta, ma un adulto che sa quello che fa.
La vita è così dura che uno ha diritto ai suoi sprazzi di vanità. Voglio dunque rivendicare altri brevi incontri con uomini illustri. D’altra parte, la presente è una ricerca sulle radici profonde della personalità. E quindi ho il dovere di citare incontri memorabili.
Romano Bilenchi mi regalò un piccolo carro armato che sparava scintille.
In Abruzzo, al parcheggio dell’Hotel Garden Gino Bartali di passaggio mi regalò un cappellino.
Inoltre penso di essere uno dei pochi uomini in Italia ad aver visto Umberto Eco nudo. Ero alle Eolie, sott’acqua, e quando sono emerso c’era Umberto Eco nudo, a parte un cappellino sulla testa. Era seduto su uno scoglio e guarda caso leggeva un libro. In realtà l’episodio è avvenuto molto dopo, rispetto a quelli di Benigni, Bilenchi e Bartali: non ero più un bambino. Ma è un episodio cruciale perché probabilmente ha contribuito a spingermi verso la letteratura e verso l’eterosessualità.
Mia zia Anna, la sorella di mia madre, essendo una virologa, cioè una scienziata, abitava a Bologna. Le chiesi chiarimenti a proposito della morte. Lo feci perché ogni tanto la mia idea del rafforzamento dell’anima vacillava. La zia rispose che in realtà morire è molto difficile e questo mi tranquillizzò.
Però di solito non mi curavo della morte. Anzi a volte avrei voluto morire per vedere se la mia anima era forte abbastanza. O perlomeno farmi ibernare. O evocare il diavolo. Si vede che ero confuso: nella mia mente ibernazione e patto col diavolo erano sempre associati, anche se di solito, per quanto ne so, uno non fa un patto col diavolo per dormire a lungo. Inoltre non capivo proprio cosa se ne facesse il diavolo dell’anima, alla fine.
Era stata la zia Anna a regalarmi il microscopio (un microscopio da adulti!) che mi ha aperto meravigliose visioni e mi ha rovinato l’occhio destro.
Aveva studiato in America e ricordo che preparavamo insieme la zucca di Halloween a San Piero, (il paese dell’Appenino da cui proviene la mia famiglia materna), anche se non era Halloween, anzi era piena estate. Ma la scienza mi ha insegnato che la magia non ha limiti.
Cominciando le scuole superiori mi ritrovai automaticamente al Liceo classico. Io che ero fermamente intenzionato a intraprendere una carriera scientifica (anzi a proseguirla: l’avevo già cominciata in camera mia) ero un po’ perplesso per l’andazzo preso dalle lezioni. Tutte quelle teorie sulle solide basi della cultura classica partendo dalle quali poi potevi andare dove volevi mi sembravano, all’atto, pratico, discutibili. Volevo assolutamente cambiare scuola. Allora la zia Anna mi fece parlare con un fisico delle microparticelle che naturalmente stava a Bologna. Lui mi consigliò di stare tranquillo, di non cambiare scuola, dato che meno sapevo e meglio era. E io da allora l’ho preso alla lettera.
Pare che quest’uomo fosse davvero un genio. Ha avuto una piccola disavventura perché si interessava anche di fenomeni che non so se si possono definire paranormali, comunque, cose tipo piegare la materia con la mente. Andò a una trasmissione televisiva e si presentò con dei cucchiaini già piegati. Ma non era un trucco. Era solo sbadato. Io posso testimoniarlo perché in macchina al semaforo, quando c’era il verde, era così infervorato a parlare con me che neanche se ne accorgeva. Questo lo ammiro molto, perché in fondo lui — me ne rendo conto adesso — era lì che parlava a un ragazzino presuntuoso, eppure ci metteva tutto il suo entusiasmo e la sua vitalità.
Alcune sostanze le sintetizzavo io stesso, nel tentativo di creare nuovi conservanti, ma soprattutto paesaggi da guardare al microscopio. Ero una specie di scultore chimico, senza volerlo. Infatti spesso – mescolando di tutto — alla fine ottenevo croste solide, che ingrandite sembravano incredibili pezzi di altri pianeti dai colori sgargianti. Li fissavo per ore e a volte mi sembrava di vedere un alieno o me stesso.
Integravo la dotazione del Piccolo Chimico andando in centro alla ricerca di matracci, alambicchi, serpentine, provette, vetrini per il microscopio. Il negozio dove li compravo aveva un fascino incredibile, veniva da un altro tempo: enormi scaffali di legno scuro alti come torri, con un profumo misterioso. A volte trovavo un commesso che non era un campione di simpatia. Io intimidito (i negozi mi hanno sempre intimidito, in particolare quelli di vestiti, non credo di essere mai entrato in un negozio di vestiti da solo in tutta la mia vita), insomma io intimidito gli chiedevo magari dieci vetrini, lui rispondeva con disprezzo che i vetrini si comprano a pacchi di cento e poi mi faceva domande su cosa intendevo farci e aveva l’aria di ritenere gravemente insufficienti le mie risposte boccheggianti.
Invece il negozio di conchiglie, minerali e fossili in via Cimatori era un’altra cosa. Era gestito da un signore molto competente e da una bella signora straniera che doveva essere sua moglie, erano gentilissimi e pronti a spiegare qualsiasi cosa.
Ogni tanto ci vado ancora e li trovo, non senza una qualche emozione, ma loro non hanno l’aria di riconoscere in me quel bambino che certo li ha resi miliardari.
Il declino dei tempi e la degradazione dei costumi si nota dal fatto che perfino in quel negozio le conchiglie sono diminuite per lasciare il posto alle collane e agli orecchini. Resta al fatto che è ancora un luogo capace di regalare lampi di illuminazione. L’illuminazione più grande di tutte però me la diede quando proprio lì capii qual era la conchiglia adatta alla mia anima.
Ora, io avevo sempre pensato che, quando la rivelazione fosse arrivata, essa mi avrebbe indicato una conchiglia come il Murex alabaster, robusta e leggiadra, quasi munita di vele bianche; oppure qualche Spondylus, quei bivalvi con lunghi spunzoni; oppure ancora le conchiglie che vivono saltando, certi Pecten che saltano per sfuggire alle stelle marine: mi piaceva l’idea di un’anima saltante sul fondale. In fondo l’aldilà me lo immaginavo come una specie di oceano pieno di meraviglie e di insidie. E doveva esistere qualche equivalente delle stelle marine e degli altri predatori, nell’aldilà.
Immaginavo anche che la rivelazione mi sarebbe stata offerta da qualche saggio capo polinesiano, su un’isola sperduta. Invece fu proprio nel negozio di via dei Cimatori che ebbi la rivelazione. Ero lì e guardavo tra le conchiglie piccole. Ma lo sguardo mi cadde sulla Cassis Cornuta, una conchiglia grande e massiccia, pesante qualche chilo, a cui non avevo mai pensato seriamente.
Di colpo mi parve bellissima, non potevo farne a meno, era LEI.
Il padrone del negozio mi disse: bella, vero?
Era lui il mio capo villaggio polinesiano e mi stava indicando la sede della mia anima.
Una mezz’ora più tardi ero a bordo dell’11 e reggevo la conchiglia con due mani, col terrore che qualcuno me la rubasse o che potesse rompersi. E’ vero che era imballata bene, avvolta in quei fogli di plastica con le bolle d’aria, ma quando uno identifica la sede della sua anima e la compra le precauzioni non sono mai troppe.
Non stavo andando a casa, però, non direttamente. Non mi ricordo il motivo, ma l’appuntamento con mia mamma era a casa della nonna Nadia, la mia nonna materna, più pacata e riflessiva rispetto alla nonna delle mutande di latta. Abitava a San Gaggio, in campagna. Mi aspettava un tragitto molto più lungo e insidioso, rispetto a quello che mi avrebbe condotto a casa mia. Bisogna considerare che nonostante la giovane età io ero solito attraversare la città da una parte all’altra in autobus. Per raggiungere la casa della nonna dovevo arrivare al capolinea e dopo fare un quarto d’ora a piedi, in salita, al buio. Perché già la luce si era dissolta nel pomeriggio invernale.
Naturalmente la missione era di tale importanza che avevo trascurato di fare il biglietto. Dalla penombra dell’11 spuntò fuori il solito maniaco che si strusciava a me e usava anche le mani. Le mie erano tutte prese dalla Cassis Cornuta e non sapevo come difendermi. Chiedere aiuto alla gente non mi sarebbe mai venuto in mente. Cercavo di fuggire avanzando, senza tenermi con le mani ma senza cadere, una cosa difficile, visto lo stile sportivo di guida del conducente. Alla fermata salì il controllore dalla porta davanti. All’epoca i controllori erano in divisa, non mimetizzati, e salivano dalla porta davanti. Secondo me la cosa faceva molta più impressione, rispetto ad adesso che sembrano tutti Vasco Rossi. Era soprattutto il copricapo militaresco a conferirgli autorità.
Adesso mi è chiaro che sono persone che fanno il loro lavoro, ma all’epoca, dato che per un motivo o per l’altro ero spesso senza biglietto, per me i controllori erano quello che per gli altri bambini erano gli zombie o i vampiri, creature che invece io apprezzavo. Primo perché mio padre mi faceva vedere un sacco di film su di loro. Secondo perché in nessuno di quei film si vedeva un vampiro o uno zombie che inseguiva un bambino chiedendogli il biglietto.
L’idiota maniaco continuava a strusciarsi: un individuo prevedibile. Almeno avessi avuto le mutande di latta, probabilmente quel contatto sarebbe stato sufficiente a farle risuonare. Il controllore veniva verso di me dicendo: “Biglietto per favore” con un tono che avrebbe gelato il sangue di Frankenstein inteso come creatura. Ero tra due fuochi. Come si aprì la porta centrale saltai giù e rotolai sul marciapiedi. Lasciai di stucco sia il maniaco che il controllore. Probabilmente, considerate le dimensioni della Cassis Cornuta, conclusero che avevano a che fare con un bambino killer in fuga con una testa umana imballata sottobraccio. Fu per paura che non mi seguirono.
Aspettai l’11 successivo, dove non incontrai né maniaci né controllori. Percorsi la salita buia che portava alla casa della nonna correndo e cantando, avevo paura di non so di che. Una volta arrivato, avevo il terrore che la conchiglia si fosse rotta con la caduta.
Ricordo come fosse ora le mie mani che aprono religiosamente il pacco sul tavolo di cucina bianco della nonna, rischiarato da un piccolo lume. Trattenni il respiro.
La Cassis Cornuta era intatta. La mia anima era salva.