di Carlo Babando
Si accorse che era morta soltanto quando la vide irrigidirsi dentro la veste di seta. Il colore della sua pelle, fino a poco prima roseo e caldo, aveva assunto la sfumatura dell’acciaio gelato.
C’era poco da fare, le cose non sarebbero cambiate neanche se fosse rimasto lì a guardarla per un altro giorno intero. Si passò il palmo della mano aperta sul viso, come per riattivare la circolazione sulla sua espressione; la stessa da troppe ore ormai.
Alzandosi dalla sedia di plastica verde, una semplice sedia da giardino di plastica verde, sobbalzò al rumore provocato quasi si aspettasse un maremoto. O qualsiasi altra catastrofe di pari peso.
Sentì il sangue fluire in tutto il corpo, rattrappito dal tempo trascorso immobile a vegliare il cadavere, nella speranza che accadesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
La sala era molto grande e il fatto che fosse completamente vuota a eccezione della bara, la sedia e loro due, la rendeva quasi infinita ai suoi occhi.
Buttò il mozzicone della sigaretta al mentolo nel grande posacenere di marmo grigio e nero e si mise al lavoro.
Per prima cosa iniziò ad accendere tutti i ceri attorno alla bara. Erano tutti alti più di un metro, tutti color oro antico; li aveva sistemati ordinatamente attorno al supporto a rotelle che sorreggeva il mogano. Ce ne erano voluti una decina per far si che quella porzione di salone si illuminasse abbondantemente. Lo strofinio del fiammifero sulla minerva come la vampata di una pira funeraria.
Accuratamente, evitando di sporcare il pavimento a losanghe grigie, spostò le tre corone di fiori dall’altro lato della stanza. Tutte recavano la stessa scritta: “Al mio amore”.
Mentre lo faceva si scoprì a piangere; sapore salato tra le labbra spaccate dal pianto.
Lei era sempre immobile in quella posizione, con le mani intrecciate sul petto, avvolte da un rosario purpureo e profumato alla cannella. Il rigor mortis stava facendo il suo effetto; le mascelle si erano serrate facendole assumere una espressione dura e altezzosa. Un’espressione che mai le aveva visto assumere quando era viva.
Azionò la leva senza distogliere lo sguardo dal viso di lei.
Le braci iniziarono a scaldarsi con il soffio forte del gas ad alimentarle; sarebbero bastati meno di dieci minuti…
Spalancò la bocca enorme della fornace, ma l’aveva vista troppe volte per stupirsi ancora della grandezza e della profondità dell’inceneritore.
Lei purtroppo non aveva reagito bene dal principio.
Con il medio le scostò i lembi della veste di seta bianca lungo tutto il corpo. Le due parti erano attaccate perfettamente, a stento si vedeva la lunga cicatrice che la separava all’altezza dell’inguine.
Spinse la bara verso le fiamme. Dolcemente, con amore, come fosse un amplesso.
Metà donna e metà pesce. Era davvero impossibile dare vita ad una sirena?
Pianse ancora quando vide il legno consumarsi tre le fiamme; poi chiuse la bocca del’inceneritore e si sedette di nuovo sulla sedia verde, illuminata dalla fiamma dei ceri e dal bagliore interno della macchina.
Raccolse da terra il libro delle fiabe e ricominciò a leggere sperando con tutto il cuore che con la sesta avrebbe avuto più fortuna.