di Mauro Gervasini
Un diario lasciato da una ragazzina incinta morta di botte. Una bambina che ha fatto in tempo a vedere la luce. Una ostetrica di origine russa come la vittima che cerca di scoprire chi possa essere il padre, o un parente, della piccola. Un boss della mafia russa nascosto dietro la rassicurante e paciosa bonomia di un ristoratore. Il figlio debole e violento. L’autista con gli occhi del killer e un segreto incoffessabile. Non c’è molto di più nel nuovo film di David Cronenberg, La promessa dell’assassino.
In originale Eastern Promises, come se l’altra faccia di un giano bifronte ci parlasse di “promesse dell’Est” dopo che A History of Violence (il precedente titolo del cineasta canadese) si era occupato dell’Ovest, inteso come West, con archetipi di sangue annessi. E se nel film precedente era il fantasma di una natura criminale a irrompere nell’ordinary life dell’americano medio, ora avviene il contrario. Il mondo chiuso della mala è contaminato da una presenza non malvagia (anzi due, l’ostetrica e la bambina) e dalla possibilità di scegliere il bene.
Non c’è molto di più a livello narrativo. La storia è esigua, senza un’apparente chiusura, con un’agnizione attesa e negata, rapporti personali – anche sentimentali, tra il killer Viggo Mortensen e l’ostetrica Naomi Watts — e una vendetta che non esplodono.
Qualcuno ha storto e storcerà il naso. Come sempre con Cronenberg, tra i pochissimi rimasti su questa Terra a raccontare storie non per tutti, sempre ostiche, sempre avanti. Certo, A History of Violence, nella compattezza di una sceneggiatura di ferro, pareva più coinvolgente. Ma la radicalità non cambia, e in fondo l’astrattezza è una delle sfaccettature più interessanti. I destini di tutti, secondo le regole del noir, sono già tracciati; quindi perché ridefinirli, meglio determinarli a priori, come se i personaggi fossero in fondo tutti già raccontati e subissero le conseguenze del proprio ruolo, del proprio legame familiare, di un peccato originale impossibile da scrollarsi di dosso. I tatuaggi. Il regista della “nuova carne” non si lascia sfuggire la metafora: ogni disegno sulla pelle racconta qualcosa di te, di loro. La verità è la stella che hai sulle ginocchia o sopra le spalle. O la croce sulla schiena. O il serpente sull’avambraccio. Quello che sei davvero è finto, contano solo i marchi che ti porti addosso. Non è l’autista-killer il figlio vigliacco del boss, ma lo diventa quando gli incidono i tatuaggi addosso. Non solo l’epidermide racconta la tua storia e il tuo passato, ma li mistifica. E l’agguato nella sauna conferma l’idea dell’estetica della violenza cara a Cronenberg. Mai grafica, mai plastica, mai glamour, mai digitale; il più possibile brutale, invece, e realistica. Come a dire: è questa cosa qui, insostenibile e schifosa, prendere o lasciare.
Alla fine il killer-autista-altro-da-sé invece di sedere alla destra del padre, siede al suo posto. E la macchina da presa perimetra il campo d’azione con una circolarità che non lascia scampo e vie di fuga. Senza la catarsi terminale tipica dei mafia-movie (si pensi alle melodrammatiche conclusioni dei Padrini di Coppola) la storia pare monca. E invece sono le plumbee atmosfere di una Londra catacombale a parlare, il rosso del sangue e il nero che spegne ogni colore a segnare la “pelle” di Eastern Promises, e il suo senso. In un anno molto avaro di grandi film da ricordare (A prova di morte di Tarantino, L’assassinio di Jesse James di Dominik, Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, Ratatouille di Brad Bird e davvero poco altro…), quello di Cronenberg riconcilia con un cinema ormai incapace di rischiare e di stupire.