di Alberto Prunetti

bambinorom2.jpgNella prima parte dell’articolo (clicca qui) ho messo in discussione l’idea che i rom rubino i bambini italiani. La seconda parte insiste nella sua pretesa di paradossalità rispetto al senso comune. Non solo non sono i rom a rubare i bimbi italiani: sono gli italiani a rubare i bambini ai rom. Secondo alcune stime si possono contare 500 casi registrati negli ultimi venti anni. Una statistica più dettagliata è in corso d’opera presso una università veneta, ma ancora non se ne conoscono i risultati.
In genere i rom perdono i loro bambini sullo sfondo di due contesti diversi.


a) un primo scenario (più inquietante, probabilmente raro ma su cui non c’è molta documentazione) riguarda alcuni casi di bambini rom nati in ospedali italiani, tolti alle madri in seguito al mancato riconoscimento, o dopo degenze troppo lunghe e in assenza di visite periodiche dei familiari. Tratterò il punto a) nelle righe che seguono.
b) un secondo scenario (ampiamente diffuso e documentato) è quello dei bambini già più grandi, sottratti ai genitori con la scusa che questi non garantiscono le necessarie cure (abitative, scolastiche, etc.). Al punto b) sarà dedicato il prossimo capitolo.

Gran parte del quadro giuridico e degli episodi che cito in questo capitolo si riferiscono agli anni Novanta e può darsi che la situazione sia cambiata, però i disastri nelle vite dei rom prodotti da queste leggi si fanno sentire ancora oggi.

La legge italiana — o almeno quella valida negli anni Novanta, quando si sono registrati i casi indicati di seguito – prevede che il riconoscimento del figlio avvenga entro dieci giorni dalla nascita. La denuncia di riconoscimento deve essere presentata dai genitori, o da un delegato, alla presenza di due testimoni, tutti con documenti d’identità validi. Per gli stranieri, oltre a un passaporto valido, è necessario un nullaosta al riconoscimento, da presentarsi sempre entro dieci giorni, che viene rilasciato dalle autorità consolari del loro paese di origine. Genitori minori di sedici anni non possono riconoscere in alcun modo il loro figlio.

Questa legge ha posto una serie di problemi ai rom: ad esempio, spesso i rom si sposano e hanno figli prima dei sedici anni (tra l’altro il costume dei rom prevede un matrimonio non riconosciuto dalle autorità civili, e questo crea difficoltà non solo nel riconoscimento dei neonati, ma anche nelle ricongiunzioni familiari e nei colloqui in carcere); molti rom provenienti dalla ex Jugoslavia negli anni Novanta non avevano un passaporto valido o avevano difficoltà a rinnovarlo, per mancanza di uffici consolari o per l’alto costo dei rinnovi; per la stessa ragione, e per l’inefficienza degli uffici consolari, è difficile per i rom produrre, entro dieci giorni dalla nascita del bambino, il nullaosta al riconoscimento.

Ad ogni modo, passati dieci giorni, senza il passaporto e il nullaosta è impossibile riconoscere il proprio bambino, anche di fronte all’evidenza del parto o alla testimonianza del personale medico.

Cosa succede dopo il decimo giorno? Il bambino è dichiarato in stato di abbandono e il Tribunale dei Minori può decidere: a) di affidare il bambino alla madre (se maggiore di 16 anni) o a un parente affidabile e controllabile; b) se affidare un bambino prima a un istituto, poi a una famiglia non rom, e infine darlo in adozione.

La paura di perdere i bambini in alcuni casi ha spinto i rom a evitare di rivolgersi alle aziende ospedaliere italiane, partorendo i bambini nelle roulotte, in condizioni igieniche pericolose. Questo in realtà produce un circolo vizioso da cui si esce con difficoltà: i bambini nascono già clandestini e ricevono talvolta dei documenti falsi. La loro scoperta induce il solito clamore mediatico sulla presenza di bambini rapiti, che poi spesso non sono altro che bambini rom non dichiarati, nati nelle roulotte. Il dilemma per i rom che vivevano negli anni Novanta in Italia era quindi: rischiare di far nascere un bambino in un ospedale, con la possibilità che, in caso di clandestinità dei genitori, il bambino sia affidato a un istituto; oppure farlo nascere nei campi, cioè nei ghetti, col problema che il bambino diventa ipso facto sans papiers e i genitori rischiano di essere sbattuti nei telegiornali come ladri di bambini. Con queste premesse legislative, si finisce in una impasse da cui non si esce.

A queste difficoltà ne va aggiunta un’altra: il fatto che i bambini rom possono portare dei cognomi diversi da quelli dei genitori. Questo dipende da più variabili: se chi fa il riconoscimento è il padre, se la madre, o altri parenti; se il riconoscimento avviene in Italia o nei paesi balcanici. Ad esempio, mi è stato fatto notare che il codice di famiglia rumeno permette di dare al figlio il cognome che la madre aveva prima del matrimonio. A questo si aggiunge il caso di rom con documenti scritti con caratteri cirillici, o con una combinazione, almeno nei nomi propri, di caratteri cirillici e latini, che dà luogo a tutta una serie di problemi di traslitterazione. Il risultato è che gli agenti di polizia tendono ad innervosirsi quando incontrano bambini rom che hanno cognomi diversi da quelli degli adulti che sostengono di essere i genitori: eppure è una questione che si spiega facilmente considerando tutti gli elementi detti sopra.

I rapporti tra rom e ospedali italiani sono talora difficili anche per un’altra ragione. Talvolta i rom, coscienti delle difficoltà per i bambini ammalati di trascorrere l’inverno in una baracca di lamiera non riscaldata, lasciano i loro figli negli ospedali, anche per problemi non gravi, per periodi lunghi. Per quel che sostengono alcune donne rom, ci sono ospedali che comprendono le loro difficoltà e chiudono un occhio su questa pratica, permettendo ai bambini di sopravvivere nei giorni più rigidi. Se però la permanenza si fa lunga e le visite dei genitori rare, l’ospedale deve avvertire le autorità competenti, che possono emanare un decreto di abbandono, affidando allora il bambino prima in un istituto, e poi in affidamento a una famiglia, che è l’anticamera dell’adozione.

Molte donne rom hanno perso i bambini così. I servizi sociali degli ospedali non conoscono bene la cultura rom, e soprattutto non hanno ben presente la loro situazione qui in Italia: le madri che lasciano i bambini in ospedali non sono spesso nomadi, tutt’altro: talvolta sono impedite nei movimenti dalle autorità di polizia, altre volte sono obbligate a una sorta di nomadismo coatto: incorrono in fogli di via, in traslocazioni forzate in luoghi lontani dalle città, in pratiche che le impediscono di fare ritorno negli ospedali. Alcune volte le donne rom vengono incarcerate, anche per tempi molto brevi, magari venti giorni di condanna per direttissima per un furto di un pezzo di cacio in un supermercato (un reato che non vedrebbe mai un italiano o un non rom finire dietro le sbarre): quando la donna esce si trova in mano un foglio di via, e ci vogliono settimane prima che possa tornare a visitare il figlio all’ospedale (magari infrangendo un divieto amministrativo di allontanamento dal territorio comunale emanato arbitrariamente dai vigili urbani al momento dell’uscita dal carcere). Può capitare che, dopo il carcere e il foglio di via, la rom arrivi in ospedale e scopra che il suo bambino non c’è più. In queste circostanze diventa difficile per i rom fermare le pratiche di affidamento/adozione, considerato anche l’analfabetismo di molte coppie, che hanno difficoltà a interagire con la burocrazia italiana né possono rivolgersi facilmente ad avvocati a pagamento.

Riassumendo, i problemi che possono insorgere negli ospedali italiani sono di due tipi: mancato riconoscimento e dichiarato abbandono per degenza troppo lunga e non intervallata da visite periodiche. Il risultato, in una serie di casi è l’affidamento del minore. A quel punto spesso è difficile riuscire a recuperare il bambino per le famiglie rom, anche perché una volta che il bambino è affidato i genitori naturali non possono conoscere la sua residenza.
A questo scenario bisogna segnalare un caso diverso, e più inquietante, che mi è stato segnalato da Piero Colacicchi, presidente della onlus OsservAzione che da anni si batte contro la discriminazione ai danni dei rom. Secondo Colacicchi, “una quindicina di anni fa apparve evidente che a troppe famiglie rom dimoranti nel circondario di Firenze veniva reso difficile iscrivere i loro neonati all’anagrafe, neonati che poi venivano dichiarati in stato di abbandono e quindi in necessità di adozione”. A quel punto alcune infermiere di un ospedale fiorentino furono citate in giudizio. I termini esatti dell’imputazione non si conoscono, ma si trattava, nelle parole di Colacicchi “di aver presentato come così complesse le pratiche di iscrizione all’anagrafe da rendere tale iscrizione impossibile nei termini di legge.” Il processo però non venne mai celebrato ed il reato cadde
in prescrizione.

Quest’ultimo caso è addirittura esorbitante, ma già la norma di legge, se non è cambiata negli ultimi anni, non riesce a tutelare i minori rom. Anzi: negli anni Novanta li ha posti in una situazione allucinante. Vedremo nel prossimo capitolo che la situazione ai nostri giorni non è più rosea: forse negli ospedali la situazione non è più tanto grave, ma ancora adesso i bambini dei rom vengono sottratti ai loro genitori, sulla base dell’idea che i rom non si preoccupino delle loro condizioni di salute, o della loro formazione scolastica, o si divertano a farli dormire all’addiaccio. Nel prossimo capitolo ci occuperemo di questa situazione, dimostrando che nasce da un’urgenza ipocrita: coloro che vogliono tutelare i piccoli rom sono gli stessi che il giorno prima li hanno sbattuti per strada, distruggendo con le ruspe le loro abitazioni di fortuna.

[Ringrazio Piero Colacicchi di Osservazione e il fotografo Stefano Pacini per l’uso della foto. Fonti: P. Brunello (a cura di), L’Urbanistica del disprezzo, Roma, Il Manifesto, 1996] A.P.

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