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Pubblichiamo un altro intervento sull’ultimo romanzo di Serge Quadruppani, dopo quelli di Wu Ming 1 e Valerio Evangelisti

Dopo un lungo purgatorio nelle estemporanee collane per edicole, Serge Quadruppani comincia ad avere lo spazio editoriale che gli è proprio, uscendo dalla nicchia dei suoi cultori per arrivare a un pubblico più vasto: merito della collana Marsilio Black, che pubblica la sua ultima fatica, In fondo agli occhi del gatto (192 pp., 13 euro).


La scrittura è solo una delle attività letterarie di Quadruppani, che dirige in Francia una collana di narrativa italiana ed è traduttore di alcuni importanti narratori italiani (Camilleri, Carlotto, De Cataldo, Evangelisti, Wu Ming), ma anche di Stephen King e Philip Dick, nonchè attivista impegnato a tempo pieno sul piano libertario e anticapitalista (ha tradotto l’appello Triangolo nero in francese). Questi dati sono indispensabili per comprendere il background sul quale si muovono i personaggi dei suoi polar, eredi dei maestri Manchette e Malet. Con buona pace di certe facili categorizzazioni, questo In fondo agli occhi del gatto non è l’ultimo thriller scemo sorretto da una campagna pubblicitaria, né un noir d’eccellenza fondato sulla fondatezza referenziale scaturito dalla penna di uno scrittore-sgobbone: è un buon romanzo, di quelli che riescono a resistere in mano al lettore finché non si è giunti alla fine. Quadruppani non è un patito del complottismo, né è anzi un critico ironico: ma senza mai dimenticare che i complotti esistono. Non inventa falsi psicologismi: lascia che i personaggi agiscano, trascinati da una febbre che li mantiene in stato di costante sovra-eccitazione. Il mondo non è scomparso: è lì, in tutta la sua durezza e ferocia, a ricordarci che la società in cui viviamo è costituita dalle macerie di un conflitto di classe che ha diviso l’umanità in vincitori e vinti, padroni e servi. I segni sociali sono infidi e menzogneri, ci suggerisce Quadruppani: diffidare di loro non è solo una strategia di resistenza, è forse l’unica possibilità di condurre una vita degna di essere vissuta. Tale è la strategia di Michel ed Émile, i due protagonisti: investigatore in bolletta con ambizioni letterarie il primo, feroce killer a pagamento al soldo di ogni schifosa cosca malavitosa, di Stato e non, il secondo. In un crescendo di tensione, la trama avvicinerà progressivamente nel tempo e nello spazio i due, in apparenza accomunati dalla sola passione per i gatti: ma sarà proprio il diverso rapporto con l’amico felino a segnare l’ultima, irriducibile differenza quando tutta lascia credere che i due siano l’uno lo specchio dell’altro, a impedire la chiusura di un apparente gioco del doppio che avrebbe altrimenti reso indifferente il vissuto etico di Michel, sconfitto ma non vinto dal nemico di classe, e il cinismo di Émile, personaggio familiare a chi in Italia ha frequentato qualche contro-inchiesta sulla strategia della tensione. Ma familiare anche a chi, in Francia (come anche in Italia) deve a volte leggere tra le righe di un buon noir per intuire la presenza di trame oscure, legami innominabili tra la rispettabile élite politica, settori paralleli o deviati della gendarmeria e dei servizi, malavita organizzata: basta pensare al reseau neo-fascista di Marsiglia che veniva magistralmente descritto da Jean-Claude Izzo nella trilogia del commissario Montale. Il tutto senza appesantire il testo con inutili sociologismi o trattati moralistici da narratore onnisciente: perché — e questa scelta è stilisticamente etica — Quadruppani mette in scena un narratore insipiente, costretto a correre per non lasciarsi raggiungere, ma al tempo stesso per inseguire un senso degli eventi che si costruisce evento per evento. Non per caso capita a Michel di passare davanti a un manifesto o un cartello e coglierne il senso di sfuggita, in modo incompleto: ma al tempo stesso accade che sia la memoria del lettore-Michel a costruire quel vero testo che non compare. I manifesti, le insegne, le targhe che intitolano strade o piazze a vita_unoschifo.gifpersonaggi noti scorrono, col loro carico di menzogne e ipocrisie, lungo la folle corsa di Michel. I personaggi secondari muoiono, uno dopo l’altro: come la gente comune, come i lavoratori in carne ed ossa nelle fabbriche o nei cantieri, come le vittime quotidiane di quel monopolio sanguinoso della violenza necessaria che è il potere che amministra le macerie dello Stato sociale. In questo romanzo persino gli animali sono asserviti al controllo paranoico del potere: come nella vita reale, dove l’essenza umana è ricondotta alla bruta animalità delle sue funzioni elementari, per aver diritto alle quali si rischia la vita. Quadruppani non rinuncia a dire la sua con commenti rapidi e taglienti — è un maestro della frase breve, il nostro autore: ma il più delle volte è la rappresentazione stessa di una vita indegna a parlare per lui. E a lasciarci, come spesso nell’ultimo Camilleri, con la bocca amara e una domanda che si risponde da sé: perché mai in un romanzo la vita dovrebbe essere migliore, perché mai non dovrebbe essere quella che è — uno schifo?

Questa recensione è stata pubblicata su Liberazione il 15 dicembre 2007