di Sashinka Gorguinpour
Sono nata a Montella di Avellino nell’anno del Signore 1893. Mia madre si chiamava Emilia di Nolfi e mio padre Mariano Cianciulli. Nessuno al mondo ha la possibilità di scegliersi il cognome, e, nel mio caso, nemmeno colei che mi ha portato in grembo per nove mesi, ha potuto decidere quello che avrebbero avuto i suoi figli.
“Ero una bambina debole e malaticcia, soffrivo di epilessia, ma i miei mi trattavano come un peso, non avevano per me le attenzioni che portavano agli altri figli. La mamma mi odiava perché non aveva desiderato la mia nascita.”
E come avrebbe potuto? Vorrei davvero che qualcuno s’apprestasse a spiegarmi com’è possibile amare il frutto marcio di uno stupro… sì, avete sentito bene: quel Mariano, l’uomo che mi ha regalato un cognome, in una giornata qualsiasi prese una donna qualsiasi e le usò violenza. Per un’altra incomprensibile ragione Nostro Signore Iddio decise che subito dopo sarei dovuta venire al mondo proprio io e che io e solo io avrei dovuto portare un marchio maledetto per l’intera mia vita. Sangue del sangue di un gesto mostruoso.
“Ero una bambina infelice e desideravo morire. Cercai due volte di impiccarmi; una volta arrivarono in tempo a salvarmi e l’altra si spezzò la fune. La mamma mi fece capire che le dispiaceva rivedermi viva. Una volta ingoiai due stecche del suo busto, sempre con l’intenzione di morire, e mangiai due cocci di vetro: non accadde nulla.”
Gli anni passarono nella più totale agonia, i figli della colpa forse non hanno un’anima, sono fiori appassiti fin dalla prima luce. La luce accecante di una Giustizia incomprensibile. La compagnia maschile era per me un passatempo, saltavo di qua e di là senza pensarci troppo a lungo. Non ero bella, il mio aspetto fisico aveva bisogno di un contraccolpo e ogni maschio che mi desiderava era un modo come un altro per non sentirmi brutta.
Finché mi maritai con un impiegato dell’Ufficio del Registro, Pansardi Raffaele. Mia madre si era opposta a questa unione, per me aveva già scelto un compagno. Ma io non le diedi ascolto, e me ne andai con lui ad Ariano, nell’Alta Irpinia. Era il 1914.
Trascorsero sedici anni, quando quel Dio che mi aveva scagliato contro una specie di sciagura, fece radere al suolo la mia casa, fingendo che la causa fosse il terremoto. Ma io sapevo, in cuor mio, di essere condannata a scontare la mia colpa e trangugiai anche questa disgrazia, come Lui voleva. Prendemmo con noi le poche cose che avevamo e salimmo al nord, nella provincia di Reggio Emilia e ci stabilimmo nel paese di Correggio. Mi diedi da fare vendendo abiti usati a tutte le donne, più felici e fortunate di me, che venivano al mercato e con l’aiuto che lo Stato fornì alle vittime del terremoto, la nostra economia risalì a livelli decenti. Dal giorno delle nozze a questo momento la mia pancia si era gonfiata per ben diciassette volte, ma furono solo quattro quelle buone, perché nella mia condanna c’era scritto che tredici erano i figli che dovevo perdere.
Tredici tremende rinunce.
Tredici abbandoni forzati.
Tredici come la sfortuna.
L’ira di Dio che non voleva avere pietà di me. Mi era stato detto e predetto in due occasioni: mia madre, in punto di morte, mi augurò una vita piena di sofferenze e una zingara, guardandomi dritta negli occhi, pronunciò senza esitare queste parole: “Ti mariterai, avrai figliolanza, ma tutti moriranno i figli tuoi”.
Ecco, mi guardavo intorno per capire e più mi sforzavo e meno soluzioni trovavo. Solo una era la mia certezza: i quattro gioielli che mi erano rimasti, i miei quattro figli non li avrei persi per nulla al mondo. Ditemi, voi, non avreste forse tirato fuori i denti, le unghie e il sangue pur di tenervi strette le creature che tutti, a partire da Dio, erano sempre in procinto di portare via? La strega che li fece nascere era la dimostrazione che la magia poteva qualcosa contro un destino infame e quindi crebbe in me la voglia, più che giustificata, di conoscere e imparare profondamente gli arcani che avrebbero salvate le vite dei miei figli.
“Non potevo sopportare la perdita di un altro figlio. Quasi ogni notte sognavo le piccole bare bianche di quegli altri, inghiottiti uno dopo l’altro dalla nera terra… scongiuri, fatture, spiritismo: volevo apprendere tutto sui sortilegi per riuscire a neutralizzarli.”
Così diventai una maga riconosciuta: tante erano le persone che venivano a chiedermi il futuro e io le accontentavo leggendo loro le carte e facendo oroscopi personalizzati.
In una notte tormentata quei sogni burrascosi che mi levavano il fiato vennero sostituiti da un’apparizione. Si presentò al mio cospetto la Madonna in persona, teneva tra le braccia un Gesù dalla pelle nera e osservandomi con grande misericordia mi consigliò l’unica, benché amara, rivelazione: dovevo sacrificare delle vite umane per salvare i miei figli. Qualcheduno era necessario in cambio di Giuseppe, Bernardo, Biagio e Norma.
Avevo sacrificato me stessa per loro, li avevo fatti studiare: il primo frequentava l’Università, il secondo e il terzo studiavano al liceo classico e la piccola andava all’asilo. Prevedevo per loro una vita lunga, preziosa e piena di soddisfazione. Niente al mondo m’interessava come la loro sopravvivenza. Forse è anche per questo motivo che Raffaele decise a un certo punto di andarsene, ci abbandonò e non lo vedemmo più.
(Risata)
C’è chi disse che lo avevo gettato nel pentolone, ma non avrei avuto motivo di farlo. Ha preso le sue cose ed è sparito di scena. Non ricordo di aver provato nostalgia. Erano anni che mio marito non lavorava: usciva di mattina e tornava la sera. Passava le sue giornate a bere e, chissà, magari a farsi trastullare da qualcun’altra.
M’innamorai di nuovo ed ebbi una relazione con Abelardo Spinelli. C’era forse qualcosa di male? Dove sta scritto che una donna si nutre solo di lavoro e famiglia? Certe convenzioni le lasciai a quelle che venivano a farsi leggere il futuro.
Com’è ovvio per le creature che, come me, furono maledette, la malasorte non tardò a tornare: il 1939 fu l’anno in cui Dio, con la scusa della guerra, volle minacciare la vita del mio Giuseppe che aveva l’età giusta per arruolarsi e servire quella folle impresa. E io lo sapevo, sì che lo sapevo: sarebbe bastato vederlo partire per immaginare il suo corpo smembrato dalle granate e risucchiato dagli avvoltoi. O anche prevedere la sua cattura, le torture del nemico, la fucilazione. No, vi giuro che non mi è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di assecondare questa tragedia annunciata e facendo tesoro di ciò che mi disse la Vergine Maria organizzai tutto quel che serviva per i sacrifici.
Scelsi tre donne che mi erano molto affezionate e che in comune avevano una cosa: non c’era più un senso reale che giustificasse la loro esistenza. Non avevano figli né uno straccio di uomo a cui dedicarsi. Non avevano un lavoro, né interessi particolari. Vivevano di ricordi legati a un passato che con il presente non aveva niente a che vedere, figuriamoci col futuro. Chi meglio di loro avrebbe potuto salvare le giovani vite dei miei cuccioli? Non smisi mai di ringraziarle.
Prendete la prima, per esempio, Faustina Setti, detta Rabitti. Fu ragazza madre di una figlia morta poco prima che io la sacrificassi e, se non fosse stato per me, ancora adesso sarebbe alla ricerca di un principe azzurro. Povera la mia Rabitti, la sua ingenuità l’avrebbe portata allo sfacelo e averla salvata mi diede una grande gioia. Le raccontai di averle trovato un marito nella città di Pola, un signore benestante che era anch’esso alla ricerca dell’anima gemella. Le consigliai di vendere a me ogni suo bene e di non raccontare a nessuno della scelta che stava facendo, per evitare di scatenare inutili gelosie. Faustina eseguì felice ogni mio suggerimento e il 18 dicembre del 1939 venne a farmi visita per accomiatarsi.
La ricordo come fosse ieri: ben vestita, truccata di tutto punto ed euforica. Il suo puerile entusiasmo sprizzava da ogni poro. L’invitai a sedersi, con la scusa del caffè, e le consigliai di scrivere delle lettere da inviare alle conoscenti, per giustificare la sua tempestiva partenza. Faustina era semi—analfabeta, perciò non se lo fece ripetere due volte, il mio aiuto era una manna dal cielo.
Intanto sul fornello c’era il mio pentolone colmo d’acqua in ebollizione. Era venuto il momento. Il mio agnello sacrificale era chino su una cartolina, con grande difficoltà cercava di comporre due frasi in croce. La sorpresi da dietro e in pochi attimi la finii a colpi di scure. La trascinai nello stanzino, feci velocemente a pezzi il cadavere e colai il sangue in un catino per evitare di sporcare in giro e per conservarlo.
Avevo fretta, la cameriera stava per tornare. “Gettai i pezzi nella pentola, aggiunsi 7 chili di soda caustica che avevo comprato per fare il sapone, rimescolai il tutto finché il corpo sezionato si sciolse in una poltiglia scura e vischiosa con la quale riempii alcuni secchi che vuotai in un vicino pozzo nero. Quanto al sangue aspettai che coagulasse, lo feci attaccare al forno, lo macinai e lo mescolai con farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, ho aggiunto un po’ di margarina, impastando il tutto. Feci una grande quantità di pasticcini croccanti e li servii alle signore in visita, ma ne mangiammo anche Giuseppe e io.”
Certo, non fu una passeggiata, ma ne valse la pena. Sapevo che, intanto, almeno uno dei miei figli era salvo. Portai tutti i beni della mia amica nel mio negozio e li misi in vendita. Ai ficcanaso, quelli che non smettono mai di fare domande, dissi che Faustina mi aveva incaricata di sistemare le sue cose. Qualche giorno dopo il sacrificio, mandai Giuseppe a Pola a spedire le lettere di Faustina. Che figlio amabile, senza chiedere niente partì e imbucò le missive.
Tutto procedeva per il meglio, sapete, eravamo felici. Sentivo la quiete governare la mia famiglia, il calore del focolare e l’amore delle mie creature. Non desideravo altro.
Una sera, però, mi coricai presto. Sentivo freddo e pensavo di avere la febbre, aspettavo l’indomani per vedere se mi sarei sentita un po’ meglio. Nel cuore della notte un altro incubo mi risvegliò feroce, ero completamente sudata. Mi misi seduta sul letto e ricordai: era giunta l’ora del nuovo sacrificio. Non potei più aspettare, dal fondo arcano e misterioso della magia ebbi l’ordine di prendere la seconda donna che avevo scelto, Francesca Soavi, di anni cinquantacinque. Era alla ricerca di un lavoro come insegnante. Non più giovane, zitella e senza figli, seguitava le sue giornate amorfe nella speranza dei vinti. Chi pensate che potesse desiderarla? Una scuola forse? Macché. Tante volte era venuta a casa mia, ossessionata dal futuro, e io l’accontentavo. Le carte parlavano chiaro, ma lei, con quella brama di vivere senza far nulla, riusciva sempre a crearsi un alibi per salvarsi dalla cruda realtà. Quindi, le dissi di averle trovato un impiego come desiderava, presso un collegio femminile di Piacenza. Francesca non aveva motivo di non credere a me, la sua amica, il suo rifugio, la sua confidente e così, la mattina del 5 settembre 1940, venne a salutarmi. La convinsi a scrivere due cartoline per i conoscenti e i parenti, che avrebbe, poi, spedito da Piacenza. Disse che aveva seguito il mio consiglio: non informare nessuno prima di aver fatto la cosa, altrimenti le invidie le si sarebbero scagliate contro. Usai l’identica scure che avevo usato con Faustina, la feci a pezzi e li buttai nel pentolone. Lasciai raffreddare e, in seguito, preparai delle saponette e delle candele che regalai alle mie conoscenti. Francesca non aveva molto con sé, quella volta ne ricavai solamente tremila lire. Ma come dice il proverbio, meglio di niente.
Più tardi seppi che quell’ingrata non aveva mantenuto la sua parola, no, era andata a spifferare a un’altra sua amica che se ne sarebbe andata grazie al mio aiuto. Non fu facile in quel periodo spiegare la situazione alla gente e soprattutto a quella rompiscatole dell’amica, anche perché i suoi vestiti e i suoi mobili erano in vendita da me.
I manuali clinici direbbero che vi avevo preso gusto, ma la verità era ben lontana: non si trattò né di piacere e nemmeno di crudeltà, uccidere era necessario a frenare quel malocchio furibondo che mi era stato fatto. Ero terrorizzata, di notte spiavo le mie creature, i miei gioielli: ero come Cornelia, una madre attenta e premurosa che doveva calmare l’ira di quel Dio tanto accanito.
Virginia Cacioppo fu la mia terza e ultima vittima. Aveva 59 anni. In gioventù era stata cantante lirica e il suo sogno ridicolo era trovare una qualche compagnia teatrale disposta a ingaggiarla. Non impiegai molto tempo a farle credere di averle trovato un posto di segretaria, proprio per un’agenzia teatrale di Firenze. Le dissi che, poi, essendo nell’ambiente, qualcuno l’avrebbe sicuramente scritturata per degli spettacoli. La supplicai di non far girare la notizia, perché il lavoro lo aveva trovato un mio ex amante e non sarebbe stato decoroso per me.
La miserabile promise di tenere chiuso il becco e il 30 novembre del 1940 entrò nella mia casa e non vi uscì più. “Virginia finì nel pentolone come le altre due, ma a differenza delle altre la sua carne era grassa e bianca. Quando ho finito di scioglierla ho aggiunto un flacone di colonia e, dopo una lunga bollitura, ne ho ricavato delle belle e profumate saponette e anche candele. Le davo in omaggio ai vicini e ai clienti e sono sempre state apprezzate. Quella donna era veramente molto dolce”.
Nonostante vivesse come una stracciona, aveva ancora un po’ di beni: qualche gioiello, dei bei vestiti e alcuni Buoni del Tesoro. Non fu un dispiacere appropriarmene, anche se già da sola avevo mantenuto con orgoglio la famiglia. Ciò che le mancava era la discrezione e fu proprio la sua lingua lunga a far crollare il palco. Era talmente entusiasta di andare a fare la segretaria che lo raccontò alla cognata napoletana Albertina Fanti, spiegando per filo e per segno che se non l’avessi aiutata io sarebbe rimasta miserabile com’era. La cognata, perciò, quando vide che Virginia non si faceva più sentire cominciò a insospettirsi. I gioielli li avevo nascosti scrupolosamente in un mattone cavo e li avevo consegnati ad Abelardo affinché li custodisse. La Fanti mica mollava, andò varie volte dai carabinieri dicendo: “Virginia è scomparsa, Virginia non l’avrebbe fatto, Non è da lei”. E così facendo, in paese, le chiacchiere sul mio conto divennero piuttosto insopportabili.
La gente mi temeva, conoscevano tutti i miei poteri e forse sapevano di cos’ero capace, ma nessuno ebbe mai il coraggio di venirmelo a dire in faccia. Codardi! Si domandavano come potevo essere diventata così ricca, io che in vita mia non avevo smesso un minuto di lavorare.
La cognata di Virginia, avrei dovuto capirlo prima e sistemarla una volta per tutte, continuò la sua indagine, senza l’aiuto dei carabinieri. Scoprì velocemente che non esisteva nessuna agenzia teatrale e nessun teatro. I tutori della legge le chiusero di nuovo la porta in faccia, dicendole che Virginia era una donna adulta e che forse non desiderava farsi trovare.
Credete sia servito a qualcosa? Anzi, la maledetta cominciò a pedinarmi ovunque. Un giorno sì e uno no era nel mio negozio. Feci un errore di calcolo, misi in esposizione gli abiti di Virginia, ma soprattutto il suo unico cappotto. Quella, l’Albertina, corse dal questore di Reggio Emilia e gli disse: “Virginia ha un cappotto solo, è inverno e non ha soldi per acquistarne un altro. Mi spiega lei cosa ci fa nel negozio di Leonarda?”.
Cristo! Da quel momento in poi cominciò il conto alla rovescia per la fine della mia libertà.
Libertà di amare i miei figli.
Di proteggerli, dalla fame, dalla sete, dalla miseria e dalla morte.
Le indagini dei carabinieri arrivarono fino al prete, Don Adelmo Frattini, che aveva accettato un buono del tesoro di Virginia, che io avevo dato ad Abelardo. Quindi venne perquisito anche quest’ultimo che non resse a cinque minuti di interrogatorio: disse di avere anche altre cose che gli avevo dato io.
Quando arrivarono a casa mia guardarono addirittura dentro il pozzo: avevo gettato lì una dentiera e una manciata di ossa che non mi servivano. Che idiozia fu non bruciare tutto. A quel punto capii che Dio si era probabilmente infuriato perché lo avevo sfidato e dovetti confessare. La paura di lasciare soli i miei figli mi aveva un po’ preso la mano e dissi che Abelardo era mio complice, che le donne le avevamo fatte a pezzi insieme, nello stanzino. Ma i miei calcoli balordi, dovuti al delirio del momento, mi fecero sbagliare tutto. Arrestarono il mio amante, il prete e Giuseppe (urlo di dolore).
Non posso smettere di ricordare quel momento. Persi la testa, gridai, mi dimenai. Giuseppe, il mio amato Giuseppe, non c’entrava nulla. Il Signore era tornato per vendicarsi di me, dei miei tentativi di difendere quanto avevo di più caro al mondo. Lo odiai, lo spergiurai e quando mi calmai ritrattai tutto: io ero l’unica artefice dei, come li chiamavano loro, delitti. Abelardo e il prete erano marginali, infatti vennero condannati per reati di ricettazione.
Nessuno volle però credere che mio figlio fosse estraneo alle vicende e lo condannarono per complicità in pluriomicidio.
Dissero che ero troppo grassa, troppo bassa e troppo debole per poter fare da sola ciò che feci. Dissero che ci voleva almeno un’ora e mezzo per fare a pezzi, mettere nella soda caustica e far sparire ogni traccia di un cadavere. Implorai che mi permettessero di provare loro il contrario. Implorai Dio che scagionasse Giuseppe.
Furono tutti clementi, sia la corte che l’Onnipotente e in dodici minuti mi disfeci del corpo di un vagabondo.
Ci alzammo tutti in piedi quando il Presidente lesse la sentenza: venni condannata a trent’anni di carcere, più tre di manicomio giudiziario. Giuseppe venne assolto per insufficienza di prove. Lo guardai e mi avvinghiai a lui per stringerlo nel mio più amorevole abbraccio. Seguii il consiglio di un fotografo che mi chiamava “mostro” e sorrisi.
Non mi importava nulla della galera, la mia libertà erano i miei quattro figli, vivi, sani e contenti.
Scontai la mia pena lavorando a maglia, preparando dolcetti e ascoltando i racconti delle mie compagne di sventura. Ogni mia preoccupazione ebbe fine il 15 ottobre del 1970, nel manicomio giudiziario di Pozzuoli, quando venni buttata priva di vita in una fossa comune.