di Enzo Fileno Carabba
3 – IL QUARTO E’ SEMPRE A DESTRA
Verso Natale e durante l’estate le mie capacità matematiche si intensificavano. Ho appreso i rudimenti del calcolo grazie allo scopone scientifico. E’ vero che non sono andato molto oltre i rudimenti, ma bisogna riconoscere che è già qualcosa. Lo scopone ha inculcato in me l’idea che alla base di tutto c’è l’addizione e ha sopperito a eventuali lacune del sistema scolastico. Tre e quattro sette, sei e uno sette, e altre somme del genere, sono state – se non le prime parole che ho sentito – certo le seconde.
Dico “parole” perché all’inizio percepivo questi calcoli come una parola unica: cinqueduesette, per esempio. Non ne comprendevo il significato esatto, tuttavia non mi sfuggiva la carica di attesa, emozione e trionfo che accompagnava queste formule misteriose, quando la carta planava sul tavolo verde portando con sé una particolare, visibile energia.
I giocatori parlavano di “settebello”.
Col tempo ho capito che tutto ruotava intorno al sette d’oro, una specie di centro aureo delle cose. Un perno esoterico. E certo anche da questo deriva la mia attrazione per gli arcani dell’universo.
Alla fine ho imparato a giocare. Mio nonno nell’età in cui si dovrebbe leggere Winnie Pooh mi fece leggere – o dovrei dire studiare – il testo base dello scopone scientifico, “Il Chitarella”. Si tratta di un libro del Settecento che spiega i misteri dello scopone ma allo stesso tempo mi sembrava alludere ad altro. Al movimento dei corpi celesti. Oppure alla vita umana, al fatto che è imprevedibile ma governata da leggi. “Il quarto è sempre a destra”, era una delle sue massime, profonda ed enigmatica. Potrebbe valere per una persona come per un asteroide.
Come bambino ero un giocatore prodigio, solo che poi mi sono fermato lì. Prima di tutto perché quando sono entrato nell’adolescenza tutti i giochi di carte (visto non è che ci limitassimo allo scopone) mi sono apparsi come un dovere familiare, in contrasto col meraviglioso mondo delle ragazze: quello che per un altro è andare alla messa, per me erano le carte, poker compreso. E dunque me ne sono distaccato. Inoltre dopo la morte del nonno la mia capacità di concentrarmi davvero nel gioco è svanita del tutto, di colpo, in modo irrevocabile, come per un sol colpo di scure.
Ma qualcosa è rimasto intatto dentro di me. Ricordo le parole di quel tempo.
Hai più culo che anima, era solita dire mia nonna Letizia commentando le fortune di un avversario. Mi piaceva l’immagine, anche se non era facile visualizzarla.
Questa passione della famiglia per le carte si perde nella notte dei tempi. Mio nonno però non giocava d’azzardo. Mai. Neanche cento lire con noi nipoti. Neanche per finta. I suoi esuberanti fratelli in Abruzzo quando lui era ragazzino si erano giocati tutto. Per non parlare delle sorelle. Ogni tanto mi veniva mostrata una casa che era stata della nostra famiglia. Mio nonno a diciassette anni si era saggiamente dato alla fuga. Era scappato a Siena, dove, secondo la leggenda, si era mantenuto giocando a dama, che non è un gioco d’azzardo ma di pensiero, sicuramente aveva trovato mia nonna e infine era diventato un magistrato importante.
Invece a casa dei miei genitori la tradizione del poker aveva ripreso vigore.
Ho un ricordo struggente del salotto fumoso di casa mia, la notte. E’ vero che io stavo asserragliato in camera, ma avere i miei che giocavano a poker con i loro amici nella stanza accanto mi dava un senso di calore umano. Ricordo quelle partite e quelle strisciate di fumo e luce come altri ricordano il camino scoppiettante.
Mio padre comunque non è che fumasse sul serio. Praticamente mordeva un po’ la sigaretta poi la buttava via. Così come sul lavoro prendeva whisky e optalidon nonostante fosse sostanzialmente un astemio come tutti noi. Più che altro faceva scena.
Gli optalidon gli venivano forniti da quello che noi conoscevamo affettuosamente come il farmacista pazzo, poi diventato scrittore.
Ogni tanto quando facevo capolino di là in salotto mio padre mi esortava a fumare.
Sarà dunque una specie di ribellione inconscia all’autorità paterna che crescendo mi ha portato a: non fumare e non giocare d’azzardo, neppure ai cavalli! Per colmo della dissolutezza, durante l’adolescenza se ero solo tendevo ad andare a letto presto. Dal punto di vista dei miei, una gioventù bruciata.
Non bevi neanche acqua gassata, mi rimproverava mio padre.
Voglio riferire un particolare edificante: al liceo facevo sì forca, cioè mi astenevo segretamente dall’andare a scuola, ma trascorrevo quelle sterminate mattine nelle chiese, che per me erano un luogo alieno.
All’epoca in cui di solito il ragazzo inquieto fugge di casa, sono stati i miei ad andare via, a fuggire di casa. Stavano quasi tutta la settimana a Milano per motivi di lavoro e io – per quanto inquieto – invece di bivaccare in una stazione mi trovavo padrone dell’appartamento. La casa si popolava di amici che si sentivano nel paese dei balocchi: trovavano eccitante il fatto di fare le quattro di notte. Io li accontentavo come fossero vecchie zie.
Non vorrei con ciò dare l’impressione di una famiglia sregolata o dedita al malaffare. O di un’infanzia difficile. Sarebbe pittoresco ma falso. La mia infanzia è stata facile e la consiglierei a chiunque. L’autorità e direi il sostegno morale della famiglia non sono mai venuti meno.
Quel salotto fumoso rappresentava anche, per me, un ventre materno e una promessa di conoscenza. Quando i miei giocavano a poker o teresina e io stavo asserragliato in camera, loro sedevano e azzardavano all’ombra di antichi libri, dato che il tavolino stava sotto la biblioteca del bisnonno. Tacito e Plutarco vegliavano su di loro e anche su di me. E poi – a parte la biblioteca del bisnonno – libri di ogni genere ed età dilagavano per tutta la casa e perfino i fumetti con le donne nude vegliavano su di noi. Soprattutto le more, per quanto mi riguarda. Era tutto un insieme. Forse per questo non ho mai sentito barriere tra i vari generi di libri e neanche tra le donne e i libri. Al massimo potevo fare confusione pensando ai libri biondi e ai libri mori.
Quando la bisca era chiusa io aprivo gli antichi libri, non ci capivo molto ma mi piacevano. Ero convinto di averli scoperti io. Quando poi anni dopo qualche estraneo è saltato fuori dicendo che non era vero e ha preteso di spiegarmeli ci sono rimasto male.
Spesso i giocatori di poker sono macellai arricchiti, assicuratori, banchieri, orafi. Non erano personaggi di tale genere che frequentavano casa mia quando ero bambino. Però ce n’era uno che, nonostante non fosse un assicuratore, mi dava delle preoccupazioni.
Era un giornalista esuberante e giocherellone. Apro una breve una parentesi per dire che a quel tempo la professione del giornalista era molto più divertente e varia di oggi. O così mi appariva. Andavano più in giro. E se stavano fermi non avevano quell’aria impiegatizia e affannata. Erano altri tempi. Venivano perfino assunti. Quando mi recavo in visita alla redazione di Paese sera dove lavorava mio padre stazionavo spesso nella sala Subbuteo. E’ vero che non arrivavo bene all’altezza del tavolo su cui si svolgeva il gioco, ma mi piaceva perché – a parte che potevo studiare il movimento delle ginocchia – la gente era sempre allegra. Oppure molto arrabbiata. Comunque mai depressa.
Tornando al tipo di cui dicevo: all’epoca delle elementari irrompeva in camera mia senza permesso e dicendo “Cosa abbiamo qua?” si metteva a frugare dappertutto, con un’aria distratta e casuale che nascondeva un interesse sadico. Era simpatico. Ma un po’ faticoso. Come si permetteva? Non tanto perché poteva trovare qualcosa di compromettente (al massimo conchiglie, o qualche fumetto erotico di cui cercavo di decifrare il senso che mi rimaneva oscuro) quanto per l’atto stesso, che costituiva una palese violazione del mio santuario.
Lui scherzava. E quello era il suo modo di comunicare. Nei suoi occhi leggevo lampi di vera comunicazione.
Ma si rendeva conto che le sue intrusioni mi disturbavano. Anzi, più io ero a disagio più lui si eccitava e insisteva. Da allora nutro una particolare avversione per lo scherzo molesto: quando uno fingendo di volerti divertire ti infastidisce. Lo trovo contorto. A quel punto preferivo i molestatori struscianti dell’autobus 11, caratterizzati da una loro discutibile linearità.
Gli adulti non davano peso alla cosa. Non che facesse niente di grave. Assolutamente. E’ vero che ogni tanto si presentava munito di quelle cinture elastiche che andavano di moda allora. Almeno suppongo che andassero di moda allora, dato che le ho viste solo a quel tempo e solo in mano a lui. Insomma queste cinture elastiche terminavano in una borchia metallica tonda, con in rilievo la testa di un capo indiano pazzo. Così che lui poteva tenderle e colpire, con una violenza considerevole. Apprezzava in particolare quando c’era il mio amico Nicola, che mostrava di spaventarsi più di me.
I colpi lasciavano dei bei lividi, però bisogna riconoscere che non mirava mai alla testa, o noi eravamo abili a proteggerci alzando le piccole braccia tremanti.
Tornando allo scopone scientifico, lo si giocava parecchio a casa dei nonni, verso Natale. Ma anche – anzi ancora di più – d’estate in Abruzzo.
Una notte, avrò avuto cinque anni, mi accorsi che, nonostante le promesse, ero stato lasciato solo in camera. Mi affacciai e vidi laggiù sul grande terrazzo la nonna Letizia che giocava a carte. Allora urlai una frase che fece epoca: “Bellina lei con quel parrucchino”. Infatti indossava una parrucca, non perché non avesse ancora dei bei capelli (era una nonna giovanissima ed elegante: si racconta che quando nacqui si presentò in ospedale con uno sfavillante abito da sera, perché veniva da una festa) ma per vezzo. Tutti pensarono che avessi paura a dormire da solo. Mentre il mio era solo disappunto per essere stato escluso dal gioco.
Ricordo che ai primi di luglio, appena arrivato all’Hotel Garden, chiamavo dal grande terrazzo dell’albergo un autorevole magistrato che stava in una casa vicina. “Beppinooo” urlavo, perché venisse a giocare facendo coppia con me.
Credo di poter dire che ero un coraggioso: infatti erano da temere più i compagni degli avversari, soprattutto se erano maschi. Un errore nello spariglio poteva generare reazioni imprevedibili, senz’altro un biasimo più severo di un brutto voto a scuola. Per cui la cosa era bella ma non propriamente rilassante. Diciamo che uno non si annoiava.
Alle medie cominciai a vedere aloni luminosi attorno alle persone. Poi mi sentivo male, stremato. Dovevo distendermi. I miei si preoccuparono. Forse, dato che la mia era una famiglia laica, temevano che se alla fine mi appariva la Madonna io avrei fatto la triste fine di diventare un credente. Infatti non risulta di gente che dopo aver visto la Madonna non è diventata religiosa. Magari esiste, ma la Chiesa mette a tutto a tacere. Non lo so. Io posso dire di essere uno che ha resistito alle aureole. Fatto sta che vedevo questi aloni luminosi e i miei mi mandarono da un neuropsichiatra. Lui fu molto gentile e pacato ma mi parve un po’ preoccupato anche lui. Forse era laico. Dette una complessa spiegazione di cui non capii molto, se non che – secondo lui – dato che la mia famiglia era composta da prorompenti personalità, il mio piccolo cervello cercava di adeguarsi e nello sforzo generava aloni luminosi attorno alle persone.
Anni dopo, qualche amico esoterico mi ha detto che mi si stava aprendo il terzo occhio e che se lo avessi coltivato ora sarei un santone.
Meno male che non l’ho coltivato! Non lo dico tanto per me, quanto per i miei adepti.
In ogni caso, magari era solo lo sforzo di azzeccare lo spariglio giusto.