di Enzo Fileno Carabba
[Da quando vinse il premio Calvino col romanzo Jakob Pesciolini (Einaudi, 1992) fino al recente Pessimi segnali (Marsilio, 2004), Enzo Fileno Carabba non ha mai deluso i suoi ammiratori. L’estrema eleganza e “leggerezza” della sua prosa, l’ironia garbata degna di un Collodi, il tono deliziosamente trasognato, la profonda cultura ne fanno uno dei migliori scrittori italiani – come chi scrive ebbe a dichiarare, in tempi non sospetti, a un’intervistatrice de Il Corriere della Sera. E’ dunque un grande onore, per Carmilla, potere pubblicare a puntate, in anteprima assoluta, il nuovo libro di Carabba, Discese estreme. Non proprio un romanzo, quanto… scopritelo da soli. E’ tempo che Enzo Fileno Carabba, di indole modesta e dolce di temperamento, esca dal suo riserbo e divenga autore noto al maggior numero possibile di lettori.] (V.E.)
1 – LE DISCESE ESTREME
C’è un luogo riparato, una specie di cittadella inespugnabile o di baia segreta, dove il mio numero di telefono continua ad essere 602146, mia nonna materna continua ad avere 73 anni e io d’estate continuo a mangiare tacconi al pesce, in Abruzzo.
Fuori da questo luogo riparato, il mio numero di telefono è cambiato diverse volte e mia nonna materna è morta ultranovantenne. L’Abruzzo invece è sempre lì, ma non ci torno da una vita.
A San Vito Chietino c’era uno scoglio in mezzo al mare, immagino ci sia ancora, che per via della sua posizione distante dalla riva veniva chiamato scoglio di fuori. Stava davanti a un trabocco che secondo D’Annunzio è simile a un ragno gigantesco. All’epoca di D’Annunzio dovevano andare in giro ragni particolari.
Mio nonno si ricordava il giorno e l’ora in cui avevo raggiunto lo scoglio di fuori a nuoto per la prima volta. Era una cosa importante: quando uno raggiungeva lo scoglio di fuori (e tornava) poteva essere considerato nuotatore.
L’ho raggiunto per la prima volta in tenera età. L’estate successiva (stavamo là tre mesi) presi confidenza con lo scoglio di fuori: ci tornavo spesso. Infatti, volendo essere onesti, non era poi così lontano per un uomo nel pieno del suo vigore, come ero io a sette anni.
Insomma andavo e tornavo dallo scoglio di fuori, da solo. Mio nonno (il nonno paterno, di cui porto il nome) diceva che nonostante fossi furbo come una volpe non dovevo esagerare con la confidenza.
Durante una di queste mie nuotate allo scoglio di fuori catturai un grosso peloso. La breve cattura avvenne in assenza di testimoni. Per quanto riguarda i pelosi, si trattava di granchi di scoglio splendidi e robusti, con una chela per tagliare e una per stringere. Creature leggendarie. Nonostante il nome, erano sostanzialmente glabri, a parte qualche pelo sulle chele. Si diceva che quelli grossi fossero in grado di piegare un accendino di plastica, anche se oggi mi rendo conto che non poteva capitargli spesso l’occasione. Per prenderli ci voleva arte. E non quell’arte che anche il più pauroso degli uomini può esercitare al chiuso di una stanza. Ci voleva un’arte fatta di coraggio. Bisognava sorprenderli da dietro e bloccare le due chele con una mano sola, un’operazione difficile anche per gente esperta e vissuta come i diciassettenni. Addirittura un ventenne, pieno di malizia, ne era uscito con un dito rotto.
Erano deliziosi da mangiare. Una volta, già adolescente, presi un polpo che aveva avvolto un peloso, lo stava perforando con il becco nero. Il granchio ce lo mangiammo crudo seduta stante.
Su quei fondali, ma negli appezzamenti sabbiosi, abitavano anche le grancevole, la cui fama è certo superiore ai meriti. Quelle sì che sembravano pelose, con tutte le alghine addosso, e anche un po’ fangose. Potevano essere più grosse dei pelosi ma avevano delle chele esili e lunghe, sproporzionate, inoffensive. Erano lente nei movimenti e nel comprendonio. Suscitavano nell’individuo sensibile una pena infinita. Pescarle era facile e non richiedeva virtù.
Gli adulti mostravano di preferirle, anche dal punto di vista gastronomico, che era poi l’unico punto di vista della maggior parte degli adulti. Ma questa preferenza dimostrava solo quanto fossero vittima di una moda incomprensibile.
Per quanto riguarda la cattura temporanea del peloso, andò così. Mi ero spinto allo scoglio di fuori nonostante il mare fosse un po’ mosso. Lo scoglio presentava una vasta estensione appena sommersa, a circa un metro dalla superficie. Lì cominciavano delle strane impronte scavate nella roccia, che continuavano nella zona emersa. Mio nonno, grande narratore, mi aveva riferito che erano il segno di un combattimento tra i centauri e non mi ricordo quali creature marine.
Proprio lì, nell’acqua bassa luminosa, si aggirava il peloso più grande che avessi mai visto. Col mare mosso era più facile che gli esemplari di mole andassero in giro e si esponessero quindi a una presa da dietro. Così avvenne. Mi ritrovai la creatura leggendaria tra le mani. Solo che rivelò una forza perfino superiore alle aspettative. Spingeva indietro le chele cercando di aprire la mia mano. Le ondine mi sballottavano. E insomma non so come dirlo ma, appena mi staccai dallo scoglio e ripartii alla volta della riva, cercando di nuotare con un braccio solo, il peloso, pigiando a tutta forza con quelli che potremmo chiamare i gomiti delle chele, si liberò. Lo vidi cadere verso il fondo che in quel punto era alto e non osai inseguirlo. Planava, con le chele e le zampe larghe, come un paracadutista acrobatico prima di aprire il paracadute.
Non ho visto mai più un peloso di quelle dimensioni, forse si sono estinti. Lo guardavo rimpicciolire nella discesa. Quello fu il nostro addio.
Se c’era un adulto che coglieva il valore dei pelosi, un valore sia morale che alimentare – tra le due cose vi era un evidente collegamento – questo adulto era mio nonno, che era originario di quei luoghi. Era anche una persona capace di ascoltare gli altri. Quando due ore dopo arrivò alla spiaggia di sassi, io corsi verso di lui per raccontargli la mia cattura.
Cominciai a dirglielo già mentre scendeva dalla scala di legno che dalla massicciata portava alla spiaggia e continuai quando fu arrivato. Questo momento non me lo posso dimenticare. Portava una maglietta azzurra. Ascoltava, sorrideva, era contento. Forse non credeva del tutto alle mie parole, questo dubbio mi è rimasto, ma certo sentì l’entusiasmo incontenibile che mi sprizzava anche dai capelli.
Ci sono momenti solo tuoi. Momenti interni che recuperi attraverso discese estreme in regioni segrete nella tua mente. Momenti che per nessun altro sono stati decisivi. Questo è stato uno di quei momenti. Un momento che non lascia traccia esterna, pensavo.
E invece no. Proprio l’anno scorso, molti anni dopo la breve cattura, sono rimasto folgorato nel trovare due fotografie che mi ritraggono mentre, con mimica e parole, torcendo una mano, racconto a mio nonno l’impresa. Lui in una foto guarda me e nell’altra sorride guardando verso il misterioso fotografo, che senza saperlo ha colto un momento interno.
Ma se guardo a lungo la seconda fotografia, mi sembra che stia sorridendo a me, adesso.
Tornavamo a pranzare in albergo, all’Hotel Garden. Mi presentavo con i capelli ancora bagnati di mare. C’era Florindo, un capocameriere che mi chiamava Signorino. Cosa vuole il Signorino? Io mi chiedevo se faceva sul serio o mi prendeva per il culo. Mia nonna era in guerra permanente con Florindo. Una volta lui le portò una mozzarella, ma posò il piatto con malagrazia. Allora mia nonna disse questo lo prende lei e glielo rilanciò. Un lancio elegante, misurato, bisogna dire, di una ventina di centimetri, e la mozzarella atterrò al margine del tavolo.
Lui prese il piatto e senza far parola lo portò via, con uno sguardo di fuoco. Avvenivano spesso scenette simili tra Florindo e mia nonna. Sicuramente si divertivano.
C’erano i tacconi al pesce. E i tacconi in quell’angolo inespugnabile della mia mente rimangono il mio alimento principale, anche se non li mangio da una venticinquina d’anni. I tacconi erano quadrati di pasta, me li ricordo morbidi, elastici, abbastanza spessi. Galleggiavano in un sugo scuro di pesce e pomodoro.
Mio nonno si faceva sempre portare un piattino a parte, coi peperoncini freschi, che aggiungeva a qualsiasi cosa.
C’erano anche delle polemiche scherzose, a distanza, perché un altro mio piatto preferito era opera dell’altra mia nonna, la nonna materna, 73 anni permanenti, e che d’estate stava in un paesino dell’Appennino chiamato San Piero in Bagno. In certi periodi ci andavo anch’io e una volta eravamo stati inseguiti da un toro. “A San Piero / c’è soltanto un toro nero” le aveva scritto il nonno Fileno, cioè il nonno paterno, abruzzese. Il piatto della nonna materna consisteva nel bollire un pomodoro insieme alla pasta e poi schiacciare il pomodoro sulla pasta. Aggiungere burro, olio, parmigiano e poi servire in tavola. A tutt’oggi, non ho trovato di meglio e quando aprirò un ristorante lo chiamerò “Al pomodoro schiacciato”. Dato che invece la mia nonna paterna quando era in città si prodigava in piatti più elaborati, si arrabbiava per questo mio entusiasmo.
Un’altra cosa che mi dava la nonna materna era l’uovo fresco o uovo del contadino. La nonna paterna sosteneva che l’uovo fresco – anche se resta del contadino – dopo un po’ smette di essere fresco, mentre io pensavo che “uovo fresco” fosse una caratteristica destinata a durare per sempre, come “pantaloni rossi” o “impresa eroica”.
D’altra parte la nonna paterna mi ha dato molte spiegazioni, nel corso del tempo. All’epoca in cui dicevo cippone invece di piccione, e trighe invece di tigre, quando le chiesi cosa fosse una troia, mi disse che era una che andava a letto con molti uomini. Io pensavo dormissero in molti nello stesso letto. E ancora oggi, d’istinto, collego la parola troia a un certo stato di sonnolenza. Per cui non posso ammettere che una ragazza sveglia sia una troia.
Sempre la mia nonna paterna mi spiegò che tutte le pizzicagnole sono lesbiche e che Pippo Baudo è superdotato (lo disse ben prima che la questione venisse fuori pubblicamente). E anni dopo la morte di mio nonno mi disse: sai, tuo nonno era un gran puttaniere. Lo certificò con un tono di rimprovero ma anche di affetto.
Ai tempi dell’Hotel Garden, i miei nonni dopo pranzo andavano riposare nella stanza numero 46, prendevano sempre quella, l’ho sognata per anni. E io tornavo sul bordo del mare, in attesa che fosse l’ora di entrarci.
Ogni tanto i miei genitori apparivano e mi portavano a fare un viaggio in macchina in posti remoti, improvvisando tutto. Quei viaggi avventurosi sono conficcati bene nella mia mente. Attraversavamo montagne e torrenti in macchina, una Volkswagen rossa decappottabile, oppure basandoci su certi infallibili punti di riferimento ci perdevamo nel deserto, dove mia mamma presa dall’entusiasmo inseguiva a piedi i topi del deserto, appunto. Erano viaggi movimentati. E il bello è che non sapevano neppure cambiare una ruota. Magari arrivavamo in posti di mare incredibili e un turco con la muta strappata pescava una cernia con un pugno. Una volta facemmo Firenze – Istanbul in due giorni, in Bulgaria non trovammo dove dormire perché non facevamo parte di un viaggio organizzato, durante il giorno non ci si fermava mai e io mi nutrii di biscotti. Un’altra volta, in Egitto, puntammo verso un albergo sulla costa, la descrizione che avevamo letto sulla guida ci era piaciuta. Ma quando arrivammo trovammo solo rovine, perché era stato bombardato. Non si poteva neanche fare il bagno, dato che la spiaggia era minata. Però dei militari gentilmente ci indicarono il passaggio per evitare le mine e arrivammo sul mare, un mare sfolgorante dove non c’era nessuno. Da allora, spiaggia minata è per me sinonimo di paradiso naturale. Quando comanderò io le farò minare tutte. Trovai delle conchiglie che ho ancora, e ancora è integro il velo di sabbia sull’apertura. Murex triremis, o qualcosa di simile.
Poi tornavo in Abruzzo, dove c’era anche mia zia, che avendo avuto dei problemi col marito era tornata ad abitare coi nonni. Nuotava per ore e ore, non ho mai visto nessuno, neanche i più aitanti degli energumeni, andare lontano come lei. Aveva uno stile lento, tutto suo, il braccio sinistro lo usava poco, giusto per ruotare il corpo, mentre il destro si alzava perpendicolare sulla superficie marina, così che era visibile anche a grandi distanza. Come un capodoglio. Nonostante mi fosse proibito io la seguivo. I primi tempi con le pinne, poi senza. Il fondale spariva lentamente sotto di noi. Quando la zia si accorgeva che ero dietro di lei era ormai tardi, eravamo troppo in là. La spiaggia era così lontana che quasi non si vedeva, una cosa incredibile. Mia zia però era sicura del fatto suo e trasmetteva questa sicurezza anche a me. Quando eravamo arrivati a largo si toglieva la maschera, buttava la testa all’indietro, tirava i piedi fuori dall’acqua e stava un po’ così, galleggiando, a riposarsi. Io guardavo sotto e il fondo non si vedeva proprio più. Poi tiravo la testa fuori dall’acqua.
Galleggiavamo in un’altra dimensione, è poco ma sicuro, oltre il mondo degli uomini con le sue miserie. Lontano da tutto, e specialmente dagli altri.
Lo spazio interno e lo spazio esterno coincidevano. Stavo così bene che avrei potuto morire.
Parlavamo in mezzo al mare. E mi pareva che quelli fossero i momenti in cui era più felice. Di sicuro, per me quelle nuotate di ore sono stati i momenti di maggiore comunione con lei, fuori dell’acqua non era la stessa cosa: come zia e nipote eravamo acquatici. Tuttavia le volevo bene anche sulla terraferma.
Ogni tanto i nonni ci scatenavano dietro il bagnino che ci ripescava, ma questo avveniva solo col mare mosso e noi in verità non ne avevamo bisogno neanche col mare mosso, o così ritenevamo. Infatti col mare mosso – appena io fui un po’ più grande – facevamo così: mia zia usciva dalle zona delle onde grosse e poi rientrava. Se rientrare era molto difficile lasciavamo perdere. Altrimenti, contava il numero di bracciate che ci aveva messo a uscire e poi le bracciate che occorrevano per rientrare. Potevano essere dieci volte tante. A quel punto ripartiva con me, tanto sapevamo a cosa andavamo incontro. Bastava non farsi prendere dall’ansia e non bere troppo. E anche evitare le mazzate sulla nuca che certe onde marroni e pesanti – possenti ma prevedibili – tendono a darti quando rientri. Nella fase finale, se il mare nel frattempo era aumentato (il che, bisogna ammettere, sballava il conto delle bracciate), certi segmenti deviati di onda diventavano molto meno prevedibili e regolari e ti prendevano alla sprovvista e ti strofinavano sui ciottoli del fondo, una specie di massaggio molto energico. Ti costringevano ad assumere pose scomposte, poteva essere che ti ritrovavi un calcagno sulla testa, ti disarticolavano. Gli sarebbe bastato aumentare di poco per smembrarti, ma non lo fecero mai. Erano onde forti e gentili, come la Maiella madre. Di sicuro uscivo pieno di lividi. Una volta uscii con un occhio nero, per colpa di un sasso vagante.
A volte il ritorno non è andato così liscio, ma siamo stati fortunati.
Erano giorni magnifici.
Con altri ragazzi andavamo a pescare le cozze, ma è un’attività che non mi ha mai entusiasmato. Uno se ne mise un po’ nel costume, perché il retino era pieno. E qui si dimostra come l’ingordigia viene punita. Infatti, una cozza aperta, una volta nel costume si richiuse, serrando con le valve gli organi sessuali del mio amico in una morsa determinata e tagliente. Lui si trascinò su uno scoglio sotto il trabocco e lì non ci fu verso di far aprire la cozza. Alla fine frantumammo la cozza innamorata con un sasso ma fu un’operazione delicata, non priva di rischi. Poi ci abbandonammo a facili giochi di parole.
Io preferivo pescare le orecchie di mare (haliotis lamellosa), molto più difficili da individuare e poi da staccare. Incomparabilmente più belle e robuste una volta ripulite dal mollusco. Anche il mollusco era bello: giallo e verde, carnoso. L’interno della conchiglia poi!: in madreperla iridescente. Ma al tempo stesso con qualcosa di primordiale, non quella madreperla leziosa, eccessivamente raffinata. Era invece una madreperla che avrebbe potuto piacere a King Kong.
Inoltre per prenderle bisognava scendere sott’acqua, mentre le cozze le prendevamo vicinissimo alla superficie, e in posti dove l’acqua non era limpida.
Inoltre – sempre per sottolinearne la superiorità – le orecchie di mare vuote, scintillanti sul fondo, segnalavano le tane dei polpi, che a volte ci facevano veri e propri muretti, con orecchie di mare, frammenti di pelosi e sassi, a volte anche coi vetri. Sempre rigorosamente col vetro verde, però: si vede che i polpi sapevano che il vetro verde è più robusto.
Un’estate ne pescai più di seicento di orecchie di mare, ero un maniaco ossessivo, un serial killer di orecchie di mare, solo ora me ne rendo conto, ma a quel tempo mi sentivo pieno di poesia. Un signore gentilissimo si offrì di pulirmele. Era anche lui un buon nuotatore, si faceva chilometri nuotando a rana ma senza affondare la testa, con gli occhiali da vista. Un buon nuotatore, ma nulla a che vedere rispetto a mia zia, per di più se si alzava il mare era finito, con quei ridicoli occhiali sul naso a punta. Effettivamente uno che nuota con la testa di fuori avrebbe dovuto mettermi in sospetto. Io gli portavo le mie orecchie di mare quotidiane, e lui il giorno dopo portava sempre le orecchie di mare ripulite perfettamente. Andò avanti a lungo. Solo alla fine dell’estate seppi che il mollusco è prelibato, altro che cozze!, e che il signore aveva trovato il modo di abbuffarsi senza fatica alle mie spalle. Io però le orecchie di mare non le ho mai assaggiate, neanche dopo.
Lo scoglio che vide il mio amico accoppiarsi con una cozza lo vide anche mentre pescava con la lenza insieme a suo fratello. Veramente per me la pesca con la lenza era inaccettabile, si prendevano prede piccole e liscose, e poi non era una pesca abbastanza movimentata. Ma mi sbagliavo, su tutti e due i fronti. Il mio amico prese lo slancio e fece per gettare la lenza a grande distanza, solo che l’amo finì invece per uncinare l’occhio di suo fratello. Al che lui svenne. Non il fratello con l’amo nell’occhio, l’altro. Il fratello pescato dovette caricare il fratello pescatore svenuto sul canotto e tornare a riva, tanto l’amo aveva preso solo la palpebra. Ora sono due avvocati.
Ma certo anche sulla spiaggia non ci si annoiava. Mia nonna attaccava briga con mio nonno per i più fantasiosi motivi. Per esempio, secondo mia nonna il metodo che mi aveva insegnato il nonno per asciugarmi la schiena consumava troppo l’asciugamano. Il metodo consisteva appunto nello strofinare l’asciugamano sulla schiena.
Tra l’albergo e il mare passavano i camion. La notte mi piaceva la musica dei camion. Ogni tanto il ristorante dell’albergo era usato per i matrimoni e allora c’era una musica più normale. Cantavano un sacco di canzoni strappalacrime che mi piacevano, anche se non capivo il nesso tra quelle canzoni e il matrimonio, o forse proprio per quello. Una più o meno diceva “Tutte le fontanelle si son seccate / povero amore mio muori di sete”. Mi commuovevo. Ma forse era solo un modo per vendere bevande. La mia preferita in assoluto diceva “Mare di latte e d’argento”. Magari era la stessa delle fontanelle, non lo so. Però è vero che verso sera il mare diventava placidissimo, sembrava di latte e d’argento. Entrarci dentro era incredibile. Ti sentivi trasfigurato. Senza limiti. Qualcosa di più di un essere umano.
Una volta ero con due miei amici sul mare, al tramonto. Sulla superficie azzurra e densa vedemmo passare una specie di papera nera.
Viene dalla foce del Sangro, disse uno di noi.
Non so chi ebbe l’idea, ma ci buttammo in mare per inseguirla. Uno addirittura si infilò un bastone nel costume, a mo’ di spada, ma naturalmente lo perse dopo pochi metri. La maledetta papera era una nuotatrice formidabile. Tra l’altro non era una papera. Ci portò andando a zig zag verso il largo. Non volava, probabilmente non poteva perché era ferita o qualcosa del genere. Ma con quelle zampette sott’acqua doveva andare a tutta birra, anche se quando alzavo la testa per guardarla non pareva sotto sforzo.
Ma qui entrò in gioco la celebre astuzia umana. Con un’ampia manovra riuscimmo a portarla praticamente a riva. Secondo noi, la avremmo arrostita e mangiata sulla spiaggia. Una degna cena per gente rude come noi.
Il volatile che nuotava arrivò in dieci centimetri d’acqua, rivedo ancora i ciottoli nitidissimi sotto di lei nonostante l’ora tarda, l’acqua trasparente come un torrente di montagna. Quasi afferro dentro di me la gioia selvaggia che provavo: un sentimento lirico, lancinante. Ancora pochissimo e la papera nera sarebbe salita sulla spiaggia e allora non ci sarebbe stata storia.
Solo che con una brusca manovra puntò verso il largo passando tra di noi come nulla. Insomma ci riportò verso il largo. Noi la seguimmo, ma eravamo stremati. Ormai era quasi buio.
Ci fermammo. E a quel punto si fermò anche lei, una decina di metri più avanti. Ci guardò e fece una cosa semplicissima che noi non ci aspettavamo. Si inabissò.
Fummo presi da un terrore irrazionale. Pensavamo che ci avrebbe attaccati da sotto, con quel becco nero che ora ci appariva in tutta la sua pericolosità. Magari aveva gli stessi gusti della cozza innamorata.
Di sicuro aveva degli occhietti tremendamente aggressivi. Neri anche quelli.
Invece di scappare rimanemmo così, sospesi, atterriti. Anche perché eravamo troppo stanchi.
Chissà dove sparì. Nemmeno la vedemmo riemergere. Uscì per sempre dalla mia vita. Quella creatura nera che chiamammo papera rimane per me il simbolo del mistero nella natura.
Venne un’invasione di meduse rosse. Mia zia era al largo da sola, quando le si ruppe la maschera e per tornare a riva fu costretta ad attraversare il branco immenso. Rimase quasi cieca. Stette per giorni al buio nella sua stanza e dopo era un po’ strana.
Mio nonno disse che non potevo stare sempre in acqua con tutte quelle meduse rosse, mi propose di fare un giro nell’interno, con un trenino che effettuava tutte le fermate. Era un suo grande desiderio da sempre. Facemmo solo un pezzo del percorso e oggi rimpiango di non averlo fatto tutto. Poi vennero certi parenti che ci portarono in giro in macchina. Comprammo dei dolci a tre punte che erano chiamati le Sise delle monache, le poppe delle monache, cioè. Eravamo in un paesino alle pendici di un monte, immagino che il monte fosse la Maiella, perché per mio nonno il Gran Sasso non aveva importanza, era molto più importante la Maiella.
Sul Gran Sasso invece ci andavo con certi amici e i loro numerosi parenti, ogni volta diversi. Però lo schema era sempre lo stesso. Prima di partire chiedevo: ma mica ci piazzeremo su un prato a mangiare? Faremo noi un giro a piedi in montagna?
Ma certo, mi rispondevano, che ti credi?
Dopo qualche ora di viaggio arrivavamo a un prato, ci piazzavamo lì e tutti tiravano fuori dai bagagliai un tale quantità di teglie, vassoi e zuppiere che sembrava impossibile. Timballi, lasagne, c’era di tutto. Dopo aver mangiato rimaneva giusto giusto la forza di rimettere le teglie in macchina.
Una volta però il desiderio di salire fu più forte. Io e i due fratelli dello scoglio partimmo come missili. Anche se si trattava di missili pieni di timballo. Il Gran Sasso era lì, sopra di noi, assolutamente a portata di mano. Dopo qualche ora di salita forsennata però la cosa si rivelò più difficile del previsto. Non è che avessimo organizzato la salita molto bene: andavamo a caso. Trovammo una lapide con scritto: Quando in montagna si chiede aiuto è sempre troppo tardi.
A quel punto tornammo indietro.
Non sono mai stato bravo a far saltare i sassi sull’acqua. Una sera ero lì, in riva al mare di latte e d’argento che mormorava calmo e placido. Si vede che era destino: effettuai il lancio più bello della mia vita. Proprio mentre lanciavo, nell’immensità di fronte a me, emerse la testa nera di un subacqueo. Era molto improbabile che la traiettoria del sasso incrociasse proprio quella ridicola testolina, in tutta quella immensità. Ebbene, la incrociò. Il sasso colpì la testa con una violenza silenziosa. Vidi la testa andare giù. Io mi buttai e recuperai il subacqueo per un pelo, tra l’altro era un mio amico. Così ci fu un altro, oltre a mia zia, che per qualche tempo si fece portare il pranzo in camera.
Ricordo ancora l’odore della ferrovia che passava vicino alla costa, sopra la massicciata. Quando il sole squillava alto nel cielo di mezzogiorno le traversine sprigionavano il loro profumo incantatore. In una casina scrostata stava un omone che era una specie di guardiano della ferrovia ma era anche pescatore. Per noi era dunque il guardiano del mare, una figura mitologica. Lo ammiravamo e lo temevamo. Aveva ire terribili che non capivamo, come una divinità. Oggi capisco che il fatto che si arrabbiasse quando uno di noi stava per finire sotto un treno aveva un suo senso. Con la nassa catturò una murena enorme, che avrebbe potuto fare da proboscide a un elefante. Ci raccontò di quando l’aveva caricata in barca: Saltava come nu cristiano, ci disse. Quella sera mangiai murena per la prima volta.
Mio nonno prima di morire mi offrì un orologio in regalo. Non lui direttamente, venne a dirmelo la nonna: il nonno vorrebbe regalarti un orologio, disse. Lo presentò esplicitamente come un regalo di addio. Io mi immaginavo un orologio a cipolla, non so perché. Comunque rifiutai. Non volevo un addio. Mi sembrava portasse male, mi sembrava di scongiurare qualcosa, rifiutando l’orologio.
Non avevo ancora capito che le cose finiscono veramente.
Più tardi, dopo la morte del nonno, mi sono pentito. L’avrei voluto quell’orologio, come avrei voluto percorrere l’Abruzzo con lui, sul trenino, ascoltando i suoi racconti.
Qualche anno fa ho ritrovato l’orologio del nonno, non quello che voleva regalarmi ma proprio quello che portava lui. L’orologio appare chiaramente anche nelle due fotografie in cui io sono appena tornato dallo scoglio di fuori e cerco di convincere il nonno che davvero ho praticamente catturato un peloso gigante. L’ho caricato e andava ancora. Forse le cose finiscono ma non finiscono.
Allora ho indossato l’orologio e ho cominciato a scrivere le mie discese estreme.