di As Chianese
Si torna a riveder le stelle ancora tesi, reduci da quella macrosequenza finale, fatta di aggressioni, vetri rotti e cadaveri putrescenti, in cui si è rischiati il collasso del sistema nervoso. Il 16 Novembre, due ore dopo aver staccato il biglietto per vedere sul grande schermo Il Nascondiglio, squarci di luce improvvisa illuminano l’oscurità di una memoria avvilita dai troppi scempi passati in sala: mai negli ultimi dieci anni, e ne sono testimoni gli irriducibili del genere, si era visto un thriller nostrano che inchiodasse letteralmente alla poltrona gli spettatori.
Rimandi e citazioni, paure vecchie e nuove, suggestioni e spunti metafisici tipici del cinema avatiano della tensione, si mescolano sapientemente in questa pellicola, a trentun anni esatti dal cult La Casa dalle Finestre che Ridono (1976) e a undici dalle raffinatezze gotiche del settecentesco L’Arcano Incantatore (1996). Una Laura Morante sublimemente compassata, mai esuberante o debordante, a servizio della storia e mai del suo ego, fa da protagonista, insieme a una sfilza di glorie straniere — Rita Tushingham, Burt Young, Sydne Rome, Treat Williams, ecc. — e a un’inquietante storia nera, che si svolge sullo sfondo di una sinistra “casa dei serpenti”. La donna si ritrova, suo malgrado, a indagare su un maledetto fattaccio di provincia che tutti, in primis gli omertosi anziani del luogo, vorrebbero dimenticare. Il perfetto e suadente meccanismo narrativo, lo script sviluppato attorno a un costante crescendo di angoscia, in bilico tra reale e sovrannaturale, è l’asso nella manica di questo piccolo/grande miracolo (cinematografico) italiano distribuito dalla 01.
Ambientato nel Midwest americano, in quello stato dell’Iowa dove il regista aveva per primo girato Bix, un’ipotesi leggendaria (1991), la tenera biografia del jazzman bianco Leon Beiderbecke, questo attesissimo ritorno al thriller del regista bolognese non ha niente da invidiare, o da rimproverasi, rispetto al marasma di produzioni straniere — soprattutto le sopravvalutate Asiatiche — che per anni hanno invaso le sale.
Nel 1957, a pochi giorni dalle festività Natalizie, una forte perturbazione atmosferica si abbatté, alle cinque del pomeriggio, sulla città di Davenport. Durante quella tremenda tormenta di neve in una grande casa isolata chiamata Snakes Hall: un ricovero per anziani gestito da una reverenda Madre Superiora e due converse minorenni di origine straniera, fu consumato un terribile massacro. In quella sinistra dimora, le cui finestre sono ornate da minacciosi serpenti di marmo, tra quelle stanze che un tempo appartennero a un magnate dei prodotti farmaceutici, noto per aver fatto fortuna scoprendo le proprietà analgesiche del veleno di alcuni serpenti africani, giacevano i corpi martoriati di tre anziane: due ospiti del gerotrofio e la Superiora; i cadaveri furono ritrovati in diversi ambienti della magione. Gli assassini si erano accaniti con furia sui loro corpi, infierendovi con un pesante e acuminato oggetto di ferro. Malgrado le scrupolose indagini della polizia, non si riuscì a ritrovare le due giovani converse straniere sulle quali caddero immediatamente i primi sospetti, nessuna traccia fu ritrovata sulla distesa di neve che circondava la casa e non fu mai rinvenuta la terribile arma con la quale tutto ciò venne, ferocemente, realizzato.
A distanza di cinquant’anni da quel massacro, una donna di origine italiana, dopo aver saldato in una clinica psichiatrica i conti con gli spettri e le voci del suo triste passato, è decisa più che mai a ricominciare daccapo la sua vita. Il destino la porterà proprio in quella misteriosa dimora dove, tra mille impedimenti e il timore di risprofondare nella malattia, cercherà di aprire un ristorante italiano. Foschi presagi si addensano su quella sua, nuova, sfida con se stessa. Il passato riemerge terribile e minaccioso dalla cortina di silenzio che, su quel terribile accaduto, sembra avvolgere l’intera cittadinanza. E ben presto la donna si renderà conto che i veri serpenti, pronti ad avvolgerla nelle loro mortali spire, non sono quelli che per anni hanno strisciato viscidamente nel buio della sua mente, o quelli di marmo, terribilmente immobili, che sporgono ad adornare le inquietanti finestre della Snakes Hall, ma un vero e proprio covo, formato da persone potenti e corrotte, decise a non far riemergere ciò che dal passato potrebbe compromettere la loro reputazione.
Tutto e tutti sembrano essere contro di lei finquando, una notte, sola nella stanza da letto che occupa al pianterreno della casa, la donna non sente aleggiare un’inquietante presenza all’interno di essa. Ode sommessamente una vocina infantile, simile a quelle che per anni l’avevano tormentata durante la notte, scoprendo — senza saper discernere tra suggestione, follia e realtà — che in quel luogo sinistro e ostile il terrore è di casa…
Gli ingredienti per un gustoso pastiche ci sono davvero tutti, gli elementi e le tematiche del cinema di Avati si manifestano, stavolta, in quella sorte di perversa dimensione in cui è possibile che si realizzi e svolga anche il rocambolesco Zeder (1983), come in un’iperbole, che per situazioni e ambientazione strizza l’occhio a Dove comincia la notte (1991)*, in cui il gotico funge da linea di demarcazione tra realtà e fantastico: la sindrome della luce e del silenzio, che avvolge le distese di grano come i polverosi ambienti della Snakes Hall; l’incanto di una festeggiata guarigione, il ballo di due sposini di plastica sulle note di Magic Moments, Perry Como sugli accordi di Burt Bacharach, e il disincanto di una realtà ostile… una vocina che ricalca quei suoni per farne una macabra nenia; il grande complotto, che angustia e opprime la protagonista… le voci dei morti, che invece sono solo il richiamo funesto di un passato che esige giustizia.
Il Nascondiglio, con la sua raffinata locandina Hammer-like in bianco e nero, da implicito rimando ai manifesti da cartellone dei nostri Riccardo Freda e Mario Bava, oltre che rappresentare un ineguagliabile punto d’arrivo del nostro cinema della tensione, e basta compararlo con il delirio in stile Hellzapopping dell’ultima opera di Dario Argento per rendersene definitivamente conto, è anche una spallata ai tanti, troppi, prodotti di fattura proto-televisiva che, come replicanti, si mescolano e prosperano nel veloce affollamento di titoli che si susseguono nei multiplex.
Pupi Avati e suo fratello, il produttore Antonio, a monte di qust’ennesima scommessa e grande sforzo economico, sono gli ultimi temerari che portano nella nostra languente industria della celluloide un cinema fatto di storie, non di stati d’animo (esercizi di stile venati da pedestre psicanalisi) e mode, ma qualcosa che rimanga dentro e non si limiti al puro intrattenimento… Immagini che, una volta tanto, possono e debbono essere interiorizzate e rielaborate, non soltanto assorbite. Capaci di toccare le corde del drammatico, del sovrannaturale, per approdare nei perigliosi lidi del puro thriller con risultati assolutamente esaltanti.
Pupi Avati ritorna a terrorizzare i suoi spettatori e lo fa in grande stile, dimostrano un invidiabile stato di grazia artistica, a 31 anni di distanza il terrore è ancora di casa, che Dio ce lo mantenga sempre così.
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Sul sito ufficiale de Il Nascondiglio è stato da poco indetto un Concorso a Premi per aspiranti sceneggiatori e scrittori di trame ad alta tensione. Si tratta di riscrivere, in cinque pagine, il finale del film uscito nelle sale il 16 Novembre. In palio, per i primi dieci classificati, oltre che la pubblicazione sul sito ufficiale dei loro elaborati, anche dei ricchi premi come una VideoCamera Digitale ad Alta Definizione, una Cena Offerta dalla produzione con l’attrice Chiara Tortorella o Marin Jo Finerty (le due giovani converse ad inizio film), ed ancora libri e DVD autografati dal regista. La partecipazione è gratuita ed avviene esclusivamente via posta elettronica.
Il Bando di Concorso è disponibile a questo link.