di Valerio Evangelisti (da il manifesto del 30 ottobre 2007)
[Avevamo già pubblicato una recensione di Wu Ming 1 di quest’ultimo romanzo di Serge Quadruppani. Non sembra superfluo aggiungere un altro commento a un libro importante, opera di uno degli autori di punta del noir europeo. Quadruppani presenterà il suo romanzo lunedì 19, alle 18,30, alla Fnac di Milano. Introduce Giuseppe Genna.]
Una cosa colpisce subito chi prenda tra le mani l’ultimo romanzo di Serge Quadruppani pubblicato in Italia, In fondo agli occhi del gatto (Marsilio, 2007, pp. 194, € 13,00). Né la quarta di copertina, né le bandelle interne lasciano presagire alcunché dei contenuti dell’opera. Lo stesso potrebbe dirsi a riguardo delle recensioni già apparse. Salvo fugaci e generici riferimenti, la trama resta misteriosa.
C’è un motivo. La vicenda non è tanto semplice da sintetizzare. Abbiamo due voci narranti: quella di tale Émile e quella di certo Michel. Solo a metà libro, e persino oltre, si intuisce che i loro racconti hanno un nesso. Fino a quel momento, l’unico raccordo è costituito da una forte presenza di gatti, amati da entrambi i protagonisti.
Cerco di dipanare un poco l’intrico.
Michel somiglia ad altri personaggi di Quadruppani, come quello centrale nel suo lavoro meglio noto, Rue de la Cloche (non ancora tradotto in Italia). E’ un perdente, uno sfigato di vocazione, tecnico informatico disoccupato. Ha un unico amico ricco, Paul, dalle attività varie e imprecise. Quando Paul viene ucciso, Michel è il primo sospettato. Peggio ancora gli capita quando qualcuno assassina una donna, ufficiale di polizia, divenuta casualmente la sua amante. Michel si trova coinvolto in una trama di cui non comprende che qualche dettaglio, tra squadre di polizia in lotta tra loro e killer professionisti che non paiono avere che un obiettivo: lui.
E’ l’inizio di una sarabanda degna di Fuori orario (alludo al film di Scorsese). Michel passa da una casualità all’altra, cerca di afferrare regole che gli sfuggono, scappa a un nemico senza nome e senza intenti comprensibili.
Émile è un tipo tutto diverso. Calmo, anziano, ritirato in campagna, alleva oche e nutre gatti. In passato è stato un mercenario. Non un tizio romantico alla Bob Denard (scomparso nei giorni scorsi e adesso, per fortuna nostra, all’inferno), bensì un freddo killer quando un governo ne aveva bisogno. Tra i vari committenti, anche un uomo politico italiano di cui Quadruppani non precisa il nome, più volte presidente del consiglio, baciatore di mafiosi, processato per collusione e quindi assolto (qui, se ho colto l’allusione di Quadruppani, devo fare un appunto: assolto sì, ma riconosciuto reo del delitto prima del 1980, caduto in prescrizione).
Émile, sull’orlo della pensione, ha deciso di prolungare un poco la sua attività precedente, basata sull’esercizio della crudeltà (un episodio che rievoca, avente luogo nel suo granaio, è degno di Hostel; per fortuna Quadruppani ha mano leggera). Affiliato a una loggia massonica spaventosamente deviata, offre ragazzine a chi voglia suppliziarle nel più atroce dei modi. Qui il riferimento non è a Hostel, bensì a In nome di Ishmael, di Giuseppe Genna.
Cosa c’entra tutto questo con le disgrazie di Michel? L’attinenza — per meglio dire, l’aderenza – la si scoprirà solo nelle ultime pagine del romanzo. Nessuno speri di coglierla prima.
I difetti del libro? Ce ne sono, però relativi. Il meccanismo dell’agnizione, che scatta nel finale, è da romanzo d’appendice. Superfluo, rispetto alla trama. Inoltre a Émile viene fatto carico di troppi intrighi, quasi che le nequizie del mondo gravassero sulle spalle di un solo mestatore, al servizio di poteri univoci. E’come se l’autore, premuto da altre urgenze, avesse voluto riassumere in lui mille pagine oscure della moderna storia dell’Europa occidentale: mafia, servizi deviati, polizie parallele, tortura, interferenze internazionali, logge “coperte”, pedofilia, ecc. Forse un po’ troppo per un uomo solo, sia pure totalmente amorale.
L’elenco dei pregi è, per fortuna, enormemente più lungo. Intanto Quadruppani scrive magnificamente, e certe pagine, o anche solo certe battute, sono memorabili. Gli bastano due parole per raffigurare un paesaggio o lasciare intuire uno stato d’animo (mai descritto, si veda sotto). Poi la suspense non viene mai meno. Ciò farebbe pensare ai meccanismi collaudati della narrativa di genere. Niente affatto, nessun meccanismo. Non c’è pagina del romanzo che non contenga, sia pure in sintesi, riflessioni generali sulla società in cui viviamo e sui poteri che, più o meno segretamente, la reggono. Ciò malgrado la lettura scorre, si fa ansiosa. Proprio le coulisses du monde diventano il segreto vero da scoprire e il motore capace di inchiodarci all’intreccio, di volerne conoscere gli sviluppi. Di sorpresa in sorpresa, di orrore in orrore, capiamo che è il mondo attorno a noi quello che ci viene svelato. A partire dal punto di vista di un povero cristo che ha avuto la sventura di rimanere impigliato nei suoi ingranaggi occulti. Il turbine delle disgrazie individuali non è fine a se stesso: rimanda a una totalità socio-politica, ed è quella che finisce per attrarci.
Ciò senza un facile ricorso all’immedesimazione. Quadruppani lancia, qui e là, strali feroci alla psicoanalisi e cerca di tenersi fedele alla direttiva “comportamentista” di Manchette (mutuata da Hammett): non descrivere le psicologie, ma lasciarle trapelare dagli atti. Per fortuna, come Manchette non fu sempre fedele all’assunto (salvo, in parte, che nel romanzo Fatale), nemmeno Quadruppani lo è. Alcune osservazioni di Michel, o dell’ancor più riservato — per forza di cose — Émile, rendono i due personaggi umani e credibili.
Sì, anche l’atroce Émile è umano, troppo umano. E ciò ci induce a riflettere sulla natura ancora ferina, o meglio felina, del genus homo. Aiutati da una torma di gatti chiamati a rappresentare, nel loro comportamento con i topi e altre bestioline, la crudeltà che diventa piacere e dominio. Dominio assoluto, è ovvio, dunque politica. Soprattutto politica.
Et voilà, tout se tient.
Restano da dire due parole su Quadruppani in quanto scrittore e persona. E’ celebrato come traduttore in Francia di Andrea Camilleri (la domanda più ricorrente è: “Come hai fatto a tradurlo?”) e di altri italiani, incluso l’autore di questo articolo. Ha scritto parecchi romanzi, di cui alcuni, in Italia, hanno conosciuto la vita effimera dei Gialli Mondadori, finché Marsilio non ha deciso di tradurre le sue opere più significative. E’ stato, fin da giovanissimo, un militante della ultragauche post-sessantottesca, singolare mix tra situazionismo, anarchismo e bordighismo (che in Italia è simbolo di rigidità, mentre in Francia si ha presente il Bordiga immaginativo degli anni Quaranta e successivi, interessato alla fantascienza e ad altri linguaggi d’avanguardia). Parecchi stalinisti — “ex”, “post”, “para” – non gli hanno perdonato questo curriculum e hanno cercato di rendergli la vita e la carriera difficili. Non ci sono riusciti, grazie al cielo.
Ma soprattutto Quadruppani è un uomo integro, nobile (non nel senso di “aristocratico”, tutt’altro), retto, sincero. Non si piega quando chiunque altro lo farebbe. Ecco perché scrive romanzi che avvincono, sì, ma anche inquietano e disturbano. Scorge con chiarezza dove si acquatti il nemico e non ha remore a denunciarlo. Gli occhi del gatto sono i suoi.
Felino per eleganza naturale, Quadruppani non lo è di sicuro per crudeltà, a lui estranea e da lui temuta. Sa scrutare nel buio e cogliere minacce incombenti. Poi, anziché miagolare, scrive per metterci in guardia. Manchette, altro gatto non addomesticabile, non poteva avere erede migliore, in un mondo di lupi, di cani e di incroci poco riusciti tra le due specie.