di Giuseppe Faso

efferato2.JPG[Ancora un intervento per contrastare la marea d’odio contro rom e rumeni. Carmilla ringrazia Giuseppe Faso — già insegnante delle scuole superiori e animatore del Centro Interculturale di Empoli, nonché autore di Le parole che escludono. Voci per un dizionario (Arci, 2005) — per averci concesso in anteprima questo pezzo che verrà pubblicato nella seconda edizione del suo saggio.] A.P.

Mercoledì 31 ottobre 2007, TG2 delle 20.30: la parola più gettonata è senza dubbio “efferato”. Voce colta, già per i latini, avvertono gli etimologi: ottenuta per parasintesi da “fera”, belva; il prefisso “ex-“ (ex-feratus, poi efferatus) è rafforzativo. La pronunciano infatti persone che si presumono colte: (pare) il presidente della Repubblica, (pare) il presidente del Consiglio, di sicuro il sindaco di Roma e segretario del Partito Democratico. La ripetono i giornalisti.
“Efferato” ed “efferatezza” emergono da una serie di altre parole che non colgo, nel mio andirivieni affannato tra la camera, la cucina e la doccia (la Tv è in un’altra stanza ancora). Non so di cosa stanno parlando, ma l’aggettivo “efferato” è una spia sicura: si tratta del delitto commesso da un cittadino rumeno.


Dieci anni fa l’aggettivo sarebbe stato attribuito a uno “slavo”, poi a un “albanese”; oggi a un “rumeno”: si tratta di epiteti stereotipati, cone nell’Iliade “il piè-veloce…Achille”, e poi nelle figurine di una volta: “il feroce…Saladino!”. Naturalmente la loro funzione è molto mutata dai tempi di Omero, tanto che una trentina d’anni fa vi si è riapplicato uno dei più acuti filosofi contemporanei, Putnam: il quale ci ha spiegato anche, come avvertono i Dizionari di linguistica e retorica, che lo stereotipo “non costituisce necessariamente una caratterizzazione corretta” del sostantivo cui si applica (e quindi, proprio perché si dice sempre “efferato” del delitto compiuto da un rumeno non è detto che lo sia, efferato, cioè eccedente la bestialità, quel delitto); e che esso “si limita a raggruppare le informazioni considerate socialmente obbligatorie affinché un parlante venga riconosciuto competente nell’uso del nome”: se cioè vorrò essere riconosciuto come competente quando parlo di un rumeno, tra poco dovrò accettare l’obbligo sociale di dire che di solito commette delitti efferati.
Di efferatezza, di bestialità, di ferocia oltre ogni immaginazione hanno cominciato a parlare a fine anni ’90 giornalisti e qualche politico, per definire atti di violenza attribuiti a “slavi” ed “albanesi”. A volte si scopriva che slavi e albanesi non c’entravano, e ancora più tardi abbiamo saputo che uno dei giornalisti specializzati in questo tipo di attribuzioni, la cui prosa grondante razzismo campeggiava sulle prime pagine dei giornali, anche per queste attività immonde era pagato da settori “deviati”, come si dice con un eufemismo.
Ricordo un episodio che ha coinvolto un amministratore esperto di mia conoscenza, mitissimo e di una onestà profonda e rara. In occasione del saluto di un nuovo prefetto, era stato costretto, lui così misurato, a infrangere l’etichetta di tali occasioni, sbottando quando il prefetto aveva asserito che un delitto era stato di così rara ed efferata ferocia da poter essere attribuito solo a delinquenti slavi.
Un delitto di cui, per quarantotto ore, si proclamò a tappeto l’efferatezza fu quello di Novi. Cito, per un solo esempio, da “La Padania” del 23 febbraio: “E’ un delitto atipico – ha precisato anche Alessandro Tornabene, comandante la compagnia di Alessandria dei Carabinieri – proprio per gli elementi di efferatezza”. E ci fu anche un deputato di Alleanza nazionale, tale Marco Zacchera, che per precipitazione si consegnò alla memoria dei posteri parlando in una interrogazione parlamentare ”della solita banda di slavi storicamente e geneticamente avvezzi a tale efferatezze”.
Il dibattito sulla propensione genetica e culturale all’efferatezza era appena partito (Vespa & C. hanno pure dei tempi tecnici per mettersi in moto…), che arrivava un contrordine: Erica ha confessato, non sono stati “gli albanesi”. Il delitto smette immediatamente di essere definito “efferato”: nella mia banca-dati l’aggettivo torna solo in un articolo particolarmente volgare de “La Padania”, a opera di tale Marcello Ricci, il 1° marzo 2001, di cui sono degne di memoria alcune righe: “Se si confermerà, come sembra probabile, la colpevolezza di Erika e di Mauro, occorre riflettere su quali fattori abbiano potuto stimolare, nei due, impulsi che li hanno spinti a compiere un crimine così efferato. Anziché accusare la Lega di aver colpevolizzato la criminalità di importazione, non avrebbe Rutelli fatto meglio a considerare se la sistematica distruzione di ogni principio morale, di ogni valore, di ogni tradizione abbia contribuito a trasformare questi giovani in ributtanti mostri? Chi è responsabile della distruzione della famiglia, primo nucleo di uno Stato civile? Il comunismo, il ’68, la droga libera, i centri sociali, la pornografia, i sostenitori e apologeti delle famiglie di fatto e di quelle omosessuali, i fautori delle manipolazioni genetiche e della procreazione in provetta, sono loro che hanno contribuito a far scivolare in un baratro le deboli strutture morali di questi e di tanti altri ragazzi.”
Una manifestazione forcaiola anti-immigrati era stata battuta sul tempo dalla confessione di Erica: per la Lega, un autogol da cui difendersi. Ma la timida sortita dell’allora candidato premier del centro-sinistra non fu seguita da nessun affondo antirazzista: analisti dell’Istituto Cattaneo a proposito della campagna elettorale del 2001 attribuiscono a “una paralisi derivante da una spaccatura” interna allo schieramento di centrosinistra “il fatto che l’Ulivo non riesca neanche a sfruttare l’incidente, occorso in piena campagna elettorale alle forze di centro-destra, quando queste scatenano una campagna anti-immigrazione a proposito di un efferato delitto che risulta invece rapidamente commesso da parenti delle vittime”.
E l’epiteto “efferato”’ ? Tolto al delitto di Novi, torna a essere utile per ogni altro fatto di cronaca attribuibile agli “albanesi”: “un mondo in cui la crudeltà e l’efferatezza la facevano da padroni”, come scrive ad esempio “La nazione”, cronaca di Pistoia, 28 aprile 2001: erano i giorni in cui a Pistoia un gruppo di ragazzi ritenuti tutti albanesi era stato fermato e picchiato in questura – tra essi due pistoiesi, di cui uno figlio del politico più in vista della città, Vannino Chiti. Tanto che nelle lettere a quel giornale cinque giorni prima una cittadina che non firmava scriveva: “’sto sottosegretario non si sta approfittando di questa storia per farsi pubblicità gratuita visto che stiamo sotto elezioni?”
Negli ultimi mesi l’uso di “efferato” è dilagato, non tanto presso “l’uomo della strada” (la voce è colta e di non facile presa) ma presso giornalisti e politici, spostandosi sistematicamente sui cittadini di origine rumena. Già Veltroni in settembre l’aveva ripresa e riadoperata, e ora, in piena discussione sul DDL sulla sicurezza, la “voce” diventa pressochè obbligatoria. Purtroppo però c’è un solo modo per definire un aggettivo stigmatizzante che viene adoperato solo per una categoria di persone, intruppate nella loro nazionalità, e non per gli altri. Che vi insistano i leaders politici più in vista e le alte cariche dello stato induce a rafforzare il sospetto che abbia pienamente ragione Prantl, in un brano citato con piena adesione da Ulrich Beck, uno dei più autorevoli politologi contemporanei: “la paura, della criminalità come dei rifugiati, è indotta e promossa dallo stato, e ha per conseguenza che qualsiasi misura statale che contenga la promessa di una maggior sicurezza, soltanto per questo può contare su un consenso unanime…Se lo stato forte ritiene che sia ‘meglio farne a meno’, i diritti fondamentali vengono platealmente violati”. Se quest’analisi ha qualche credibilità, il consenso sul “pacchetto sicurezza” di cui si vanta oggi il governo ha qualcosa di sinistro.-

Referenze bibliografiche
Diego Marconi, voce “Stereotipo”, in “Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica”, a cura di Gian Luigi Beccaria, Einaudi 1994.
Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, “La legge Bossi-Fini. Estremismi gridati, moderazioni implicite e frutti avvelenati”, in Istituto Cattaneo, “Politica in Italia”, edizione 2003, Il Mulino
Ulrich Beck, “I rischi della libertà”, Il Mulino 2000