di Tommaso De Lorenzis
AA.VV., Platone suona sempre due volte. La filosofia del noir, a cura di Mark T. Conard, Casale Monferrato, Edizioni PIEMME, 2007, pp. 358, 16.50 euro
James M. Cain, agosto 1946
Visto che The Philosophy of Film Noir sarebbe risultato un titolo pesantissimo per le morbide orecchie del pubblico italico, l’alternativo Platone suona sempre due volte pare una scelta azzeccata. Tanto più che, ad accrescere bizzarria del volume e curiosità dei lettori, provvede un’originalissima copertina, su cui spicca la statua del filosofo agghindata con un completo alla Bogart. Ecco, dunque, l’allievo di Socrate catapultato in una pellicola anni Quaranta: trench, cappello a falde, immancabile sigaretta all’angolo della bocca e sbuffo di fumo che si perde nel gioco dei chiaroscuri.
In realtà, nelle trecentocinquanta pagine di questa brillante antologia dedicata ai rovesci concettuali del film noir, Platone non è il solo a bussare più d’una volta alle porte del “genere”. Anche Friedrich Nietzsche always rings twice…
È tesi condivisa, infatti, che la disperazione, il pessimismo, la claustrofobia e la solitudine d’un certo cinema traggano oscura linfa dall’annuncio della «morte di dio». Dirimpetto all’orizzonte del «disincanto», in un deserto appena rischiarato dal crepuscolo degli idoli, si muoverebbero — a detta di molte voci che compongono il coro della silloge — i grandi personaggi del Nero. Eretto sulle “solide” basi del «nulla» nicciano, il filone in questione ha messo in scena i patimenti di esistenze sciagurate, consegnate a un destino inesorabile e imprigionate nel «labirinto rizomatico», dove — secondo Jerold J. Abrams — vaga il detective hardboiled. Del resto, se il Dedalo stesso si è fatto Minotauro e se Arianna indossa le equivoche vesti d’una femme fatale, allora conviene abbandonare ogni speranza. Perfino il leggendario filo si sottrae alla funzione di stratagemma provvidenziale, per assumere significati tenebrosi. Ne sa qualcosa Mike Hammer a cui, in Kiss Me, Deadly (1955), la fidanzata Velda impartisce un’amara lezione a proposito delle proprietà delle corde: «Prima trovi un filo sottile. Il filo sottile ti porta a uno spago. Lo spago ti porta a una corda. E a quella corda ci finisci appeso». Bisogna riconoscere che per Teseo fu una vera fortuna avere a che fare con Arianna invece che con Velda: scegliere tra il nemico taurino e una donna che ti ricorda la stretta dello scorsoio non è una prospettiva incoraggiante.
Studioso di filosofia, etica ed epistemologia presso il Bridgewater State College del Massachusetts, Steven M. Sanders si avvale d’un collage mozzafiato per descrivere la smarrita «rotta attitudinale» delle pellicole nere: «La vita è un passaggio oscuro, una deviazione [Detour] , un viaggio nella paura [A Journey into Fear] senza via di fuga [No Escape] e senza uscita. Il personaggio di un film noir cammina solo [I Walk Alone]; cammina di notte [Walk by Night] per La città nuda [The Naked City], nella Giungla d’asfalto [The Asphalt Jungle], lungo una Strada senza nome [Street with No Name]. Vive di notte [They Live by Night], si scontra di notte [Clash by Night], a volte è Catturato [Caught], a volte è Posseduto [Possessed], spesso è ammaliato [Spellbound], ma è sempre e comunque su un terreno pericoloso [On Dangerous Ground] e sta sempre dove vive il pericolo [Where Danger Lives], perché sono Ore disperate [Desperate Hours] di un pronostico avverso [Odds against Tomorrow] a separarlo dalla sorte incombente».
Se la dottrina platonica degli universali torna utile per definire un fenomeno sfuggente, ricco di esempi “unici” tanto da far dubitare dell’opportunità d’una definizione complessiva, è senza dubbio l’evocatore di Zarathustra ad allungare la sua ombra su questo «tipo di dark film». Secondo Read Mercer Schuchardt la predizione di Nietzsche a proposito di una «eclissi totale di ogni valore», risuonerebbe già ne Il cantante di jazz (1927), diretto da Alan Crosland e interpretato da Al Jolson [a sinistra]. L’accostamento tra la prima pellicola audio della storia, la poetica del noir e l’annuncio dell’«uomo folle», pare un’associazione ardita. Tuttavia, Schuchardt nota come le atmosfere malinconiche, l’illuminazione cupa, l’ambivalenza morale, l’omicidio senza cadavere — ovvero tutti gli ingredienti del Nero — siano ben presenti agli albori del cinema sonoro. Poco importa che l’assassinio sia quello di dio, il cui cadavere non è difficile da occultare, o che l’«ambivalenza morale» dei “primi orfani” connoti il carattere di Jakie Rabinovitz ancora prima del temperamento di Sam Spade. Poco importa perché Il cantante di jazz rimane una perfetta rappresentazione del «capovolgimento dei valori tradizionali e della perdita di significato delle cose». La vicenda dell’ebreo che rifiuta le prescrizioni dell’ortodossia, scegliendo di esercitare l’arte canora nei luoghi dell’illusione e dello spettacolo, si offre come manifesto ante litteram del “genere”.
Dunque, Friedrich Nietzsche suona sempre due volte, e perciò possiamo immaginarcelo con impermeabile, feltro e cicca che spunta da sotto il baffo foltissimo. Con Albert Camus, invece, il ludico détournement non dà soddisfazione, dal momento che lo scrittore nutriva una preferenza per i soprabiti alla Marlowe e di sigarette ne faceva fuori un paio di pacchi al giorno. Comunque, l’autore de L’uomo in rivolta costituisce un imprescindibile termine di paragone di questa ricerca collettiva, che — a dispetto d’un indirizzo programmatico volto al rimosso oscuro degli States — finisce per sprofondare nelle “inquietudini” della vecchia Europa. E nonostante Robert Porfirio cerchi di tenere la barra dritta sul «cuore nero» degli Stati Uniti, puntando al tracollo del trascendentalismo emersoniano, il ragionamento oscilla inevitabilmente tra le due sponde dell’Atlantico.
Rapportati ai personaggi di Camus, ad esempio al «bravo nichilista moderno» Jean-Baptiste Clamence, i protagonisti del noir presentano caratteristiche divergenti e del tutto peculiari. Così, se il primo si libera dalla paura, ignorando «le conseguenze devastanti provocate da una caduta morale», i secondi rimangono aggrappati ai loro difetti, rispecchiando la «natura imperfetta dell’universo disincantato». Se per Camus il modello del dandy baudelairiano si erge come una «seconda linea di difesa simbolica» contro il «disincanto», gli altri incarnano il tramonto dello «strano spiritualismo» che il poeta de Les Fleurs du mal descrive come una dottrina dell’«eleganza», dell’«originalità» e — soprattutto — d’una certa «energia contenuta». È in questo quadro post-decadente che Allan Woolfolk colloca la poetica del noir cinematografico, in cui i modelli del dandismo si disintegrano innanzi all’inesorabilità del destino e alla brutalità del reale. Il rilievo critico è di estremo interesse e situa Baudelaire al posto che gli compete: dentro una parabola della modernità alternativa a quella borghese e al centro della cultura di massa. Vale la pena notare come Woolfolk citi un saggio di Stanley Cavell del ’79, in cui il poeta viene presentato come ispiratore di alcune paradigmatiche figure della filmografia americana: «I nostri maggiori esponenti di quel modello sono l’eroe western e Bogart; ma vi includiamo anche i più piccoli e logori detective e investigatori privati della generazione passata; e quel modello è reiterato nell’elegante, dilettante risolutore di misteri». È davanti al mito della Transizione, all’archetipo di un’età scossa dal Mutamento, che si erge l’ambiguo eroe crepuscolare, capace di ribellarsi al “nuovo ordine” grazie alla forza d’un «fuoco» nascosto. Certo, Cavell menziona Bogart, lasciando intendere che anche il noir partecipa — in qualche modo — della «rarità» del Dandy. In realtà, la «padronanza» che Spade ostenta nel «proto-noir» The Maltese Falcon (1941) cede presto allo sbandamento, alla deriva e all’incapacità di amministrare il «culto della sensazione moltiplicata». Dopo Il mistero del falco, l’uomo «disincantato» del noir dimenticherà le indicazioni baudelairiane, consegnandosi alla confusione, alla dispersione, al vagabondaggio e alle dense nebbie dell’hangover. Così, Marlowe appare come un personaggio «letteralmente narcotizzato e alla mercé del mondo», segnato da un temperamento petulante e da un procedere confuso (Murder, My Sweet, 1945). Allo stesso modo, Al Roberts — in Detour — perde il «controllo emotivo mentre suona Bramhs al piano». E l’elenco potrebbe continuare, annoverando gli sbandati, “irrisolti” personaggi del noir cinematografico-letterario: dal Walter Neff de La fiamma del peccato a Jean Fraiger de La vita è uno schifo.
Platone suona sempre due volte è un prodotto inconsueto per il mercato italiano, un esempio di quelle raccolte saggistiche che i clichés dell’editoria nostrana giudicano di scarsa appetibilità commerciale. Inoltre, la miscellanea nasce in quel mondo tipicamente anglosassone, sospeso tra accademia e popular culture, che non ha equivalenti nel Bel Paese, dove i due universi sono ancora divisi da invalicabili steccati e pregiudizi reciproci. Tuttavia, da questi contributi si possono trarre importanti lezioni riguardo all’informata puntualità e all’abilità divulgativa di un’analisi che non svilisce i problemi connessi alla sistematica, alla poetica e al periodizzare. I punti di partenza risultano perfettamente condivisi e, ogni qual volta si procede a una forzatura delle classificazioni, l’argomentazione si sviluppa con chiarezza. Non funziona così in Italia, dove il dibattito sul “genere” — spesso gestito dai suoi interpreti più o meno illustri — rimane invischiato negli equivoci.
È la critica francese ad aver definito retroattivamente «film noir» quel filone cinematografico americano sperimentato tra l’inizio degli anni Quaranta e la fine dei Cinquanta. Suddetta indicazione serve da punto di partenza per vagliare la discordanza delle prospettive. Nel contributo d’apertura, eloquentemente intitolato «Nietzsche, il senso e la definizione del noir», Mark T. Conard — curatore del volume, noto al pubblico come autore de I Simpson e la filosofia (ISBN, 2005) — presenta le divergenti posizioni in merito all’oggetto della ricerca. Se per alcuni interpreti le caratteristiche del film noir sono sufficienti a farne un genere, altri mettono in dubbio che una certa uniformità espressiva, un «tipico stile visuale», basti a circoscrivere il filone. Dove viene rilevato il ricorrere di certi elementi (come, ad esempio, l’attività criminale, l’atmosfera generale di dislocazione, la voce fuori campo, il cupo cinismo e la presenza della dark lady), altrove gli stessi elementi sono considerati aspetti d’un timbro trans-genere. Se a detta di Foster Hirsch «l’uso ripetuto di strutture narrative e visuali […] qualifica senza dubbio il noir come […] un genere altrettanto codificato quanto il western», per Paul Schrader «il film noir non è definito, come il genere western e quello dei film di gangster, dalle convenzioni di ambientazione e di conflitto, ma piuttosto da caratteristiche più sottili di tono e atmosfera». Vagliate le molteplici interpretazioni, Conard propone una nuova definizione che funge da filo conduttore del ragionamento collettivo: «La mia proposta, dunque, è che il noir possa anche essere visto come una sensibilità o un modo di guardare al mondo conseguente alla morte di Dio, e che sia un tipo di risposta o di riconoscimento artistico americano a questo mutamento sismico della nostra comprensione del mondo».
Descritto in questi termini, il genere filmico statunitense appare come una risposta condivisa alla «crisi», o — più precisamente — come un suo riflesso deformato. Si tratterebbe, cioè, d’un orientamento complessivo, di una «sensibilità» per l’appunto, a cui è possibile riferire tanto Marlowe, quanto il vagabondo Frank Chambers de Il postino suona sempre due volte, sia Sam Spade, sia l’assicuratore Walter Neff. Ciò che in letteratura risulta diverso, sulla celluloide, trova una comune radice, grazie alle specificità visive del linguaggio cinematografico.
Eppure, la mancata distinzione tra i dettami dell’hardboiled school e le regole della «grammatica nera» resta una delle principali cause dei malintesi che rovinano discussioni e riflessioni sull’argomento. L’inchiostro, infatti, divide quello che il grande schermo unifica mediante la visualizzazione d’una condizione umana «sbilanciata». Ancora oggi, Marlowe viene presentato come un’icona del noir, mentre la sua connotazione da cavaliere errante senza Graal, figliol prodigo di un’epopea antica, ultimo interprete di valori remoti, lo rende simbolo d’un moralismo intransigente che si leva — solitario — contro la depravata ferocia del mondo. I polizieschi sporchi, inoltre, difendono a oltranza — attraverso plot intricatissimi — la centralità del «mistero», limitandosi a divaricare il momento dello scioglimento dall’ottimismo inquirente ostentato nelle soluzioni del giallo classico. Per gli esponenti della «scuola dei duri» la verità è ancora un effetto, una tenue, malinconica conseguenza d’uno spietato confronto col mondo. Tutto questo fa dei romanzi hardboiled l’ultimo resto dell’epica, del mito e della decadenza, collocato sull’orlo del «nulla». All’opposto di questa prospettiva, oltre ogni pratica della verità, al di là di un ruvidissimo whodunit («chi è stato?»), nelle tenebre del precipizio, si leva la noirceur di un’altra letteratura: quella di James M. Cain e Cornell Woolrich. In principio, forse, c’è lo stesso cantore reietto, il «dipsomane che si rovina»: Edgar Allan Poe, diviso tra la «cinica, demitizzante» decostruzione della propria poesia e le straordinarie doti indagatrici di Auguste Dupin. Eppure, ciò che in Poe è intrecciato, più tardi finirà per divaricarsi. Gli uni erediteranno la «proiezione mitopoietica», costituita da un precario equilibrio di opposti, da una dialettica tra codice d’onore e ostentata crudezza; agli altri toccherà in sorte il terrore, l’angoscia e un destino avverso, simboleggiato dai tiri mancini del gatto e dal tetro gracchiare del corvo. L’infinito mostrarsi del primo paradigma troverà una sapiente declinazione nelle pagine dell’Hammett di Joe Gores, in cui l’ex agente Pinkerton, futuro Signore delle pulp stories, si presenta come l’ultima incarnazione del Cavaliere scisso tra l’ideale dell’amicizia virile e un cinico distacco. Solo una cosa rimarrà comune: tutti guarderanno l’abisso attraverso il fondo della peggiore bottiglia.
La contraddizione tra hardboiled school e letteratura nera è — da un punto di vista rigorosamente letterario — un’opposizione irrisolvibile. Nel noir, sia in quello americano, sia in quello francese (ad eccezione del genere romantico e in argot), non c’è né epica, né mito, bensì disintegrazione sistematica d’ogni tensione archetipica. Benché i procedimenti che concorrono alla dannazione dell’uomo siano ampiamente codificati, ogni disastro conserva una specifica tragicità, certamente prossima al Cliché, ma decisamente impermeabile al gioco della dinamica mitica. Come nota Ian Jarvie, in uno dei pochi rilievi applicabili tanto al cinema quanto alla letteratura, la mancanza d’informazioni personali sul passato di un personaggio noir «non si rifà al mito, come accade nel western classico; invece, allude a un isolamento malinconico». L’“aura” di Yojimbo e la misteriosa indeterminatezza del protagonista di Red Harvest lasciano spazio alla vaghezza d’una solitudine opaca al luccicare del mito.
La verità stessa non è mai risultato d’una ricerca travagliata. Piuttosto, è una premessa che concerne la perdizione di vite già segnate. Non è un caso che ne La fiamma del peccato di Billy Wilder, Walter Neff anticipi — nei primi minuti del film — quello che accadrà nelle successive due ore: «Non ho avuto i soldi e non ho avuto la donna». L’unico, vero mistero attiene all’impossibilità dell’uomo di soddisfare il proprio desiderio. Si tratta del medesimo enigma di cui parla Cain nella tristemente dimenticata prefazione a The Butterfly: «Io credo che la caratteristica dei miei racconti sia quella di aprire una porta proibita, e qui, più che nella violenza, nella sensualità e nelle altre cose citate per spiegarli, deve ricercarsi quel fascino che si attribuisce loro. I miei libri agiscono soprattutto nella mente». Il viaggio nella psiche dà corpo al terrore che scaturisce dall’avverarsi d’un desiderio, o — meglio — dall’impossibilità di appagare una brama rimanendo vivi. È per questo motivo che i mariti ingombranti muoiono puntualmente. Ma è per lo stesso motivo che il compimento del “piano perfetto” conduce protagonista e dark lady a una rovina coincidente con la morte o con una condanna. Questa malata meccanica del desiderio, in cui non è difficile cogliere alcuni temi della psicoanalisi freudiana, è assente dalle avventure dei duri. Anzi, le resistenze, che — in The Big Sleep — Marlowe oppone alle avances di giovanissima Carmen Sternwood, confermano quello che Stefano Tani scrive a proposito d’un detective che è «solo un cavaliere ben intenzionato ma di scarsa efficacia»: in grado di resistere alle provocanti curve della ninfomane psicopatica, ma incapace di far valere il proprio ordine etico oltre la soglia d’un piccolo appartamento.
A dispetto del potere dei nomi, non è sulle colonne di «Black Mask», e nemmeno — ci permettiamo d’aggiungere — nel catalogo della Série Noire, che va cercata l’occulta potenza del Nero. E questo James M. Cain lo sapeva bene: «Io non appartengo alla scuola hard-boiled o cinica, che dir si voglia, né ad altre». E ancora: «Sebbene in vita mia io abbia letto forse venti pagine di Dashiell Hammett, Clifton Fadiman quando si riferisce al mio stile [il critico] può facilitarsi il lavoro con un gioco di parole definendolo hammett and tongs (“falce e martello”)».
Il bianco della pagina conserverà irrimediabilmente distinto ciò che innanzi allo schermo, nel buio della sala, tra le ombre dell’ultima caverna platonica, si presenta dello stesso colore.