di Valerio Evangelisti (da Il Venerdì di Repubblica)
La più nota delle interviste filmate a Philip K. Dick, pochissime e rare, lascia un senso di sconcerto. Fu fatta verso gli inizi degli anni Settanta. San Francisco, la città in cui lo scrittore viveva, continuava a essere uno dei principali centri della contestazione pacifista e per l’eguaglianza razziale.
A un certo punto dell’intervista, dopo essersi dilungato sui misfatti dell’amministrazione Nixon e sul controllo esercitato sui movimenti da CIA e FBI, si inizia a comprendere come lo stesso Dick si consideri un sorvegliato speciale. Lo starebbero spiando e pedinando, quasi fosse un pericolo per il paese. Un’idea risalente all’effrazione del suo appartamento, pochi anni prima, che lo spinse a stabilirsi per qualche tempo in Canada.
Vero o falso? Pare che a qualche forma di sorveglianza fosse sottoposto, ma certamente ne esagerava i termini. Il che spinge a chiedersi se il massimo poeta della realtà fittizia fosse di sua indole paranoico. La risposta è controversa.
Un noto editor e documentarista francese specialista in fantascienza, Patrice Duvic (scomparso di recente, n.d.r.), fu ospite di Dick per diversi mesi ed ebbe modo di osservarne i comportamenti quotidiani. Il suo responso è netto: Dick era un bugiardo matricolato. Con le sostanze allucinogene aveva meno familiarità di quanto pretendeva e, fosse o no spiato dai servizi segreti, conduceva una vita tutto sommato tranquilla e normale. Almeno in quel periodo, Dick non era più succube delle droghe che lo avevano costretto a una terapia per disintossicarsi. Tuttavia continuava a presentarsi come tale (e come irriducibile nemico del sistema) a chiunque lo interrogasse in merito.
Sia veritiero o esagerato questo lato esibizionista di Philip K. Dick (nato nel 1928, morto nel 1982), sarebbe comunque una dimostrazione, assieme al suo rapporto difficilissimo con le donne, del suo temperamento schizoide. Dove “schizoide” non significa in nessun modo “schizofrenico”. Checché ne pensino alcuni suoi biografi — incluso il più noto in Europa, Emmanuel Carrère – nulla porta a ipotizzare una “follia” di Dick. Non mancarono nella sua vita episodi psicotici, tuttavia rimasero isolati e non incrinarono la coerenza di un pensatore originale e profondo, che non fu filosofo solo perché ritenne che la fantascienza, con la libertà che assicurava, gli consentisse di esporre e divulgare la sua concezione del mondo.
La vita di Dick non è, nei dati esteriori, particolarmente interessante. Nato a Chicago in un ambito familiare in disfacimento, trasferitosi in California a cercare fortuna, trovò in un genere letterario allora negletto e confinato a riviste dalle copertine volgari un mezzo per campare. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, alcuni autori americani di fantascienza erano in effetti ben retribuiti, per quanto la critica li ignorasse. Dick, però, non fu mai considerato, nemmeno nel campo ristretto in cui operava, scrittore di serie A. Tentò vari approcci alla narrativa generale (soprattutto con un romanzo straordinario, Un oscuro scrutare, pubblicato nel 1977). Non ebbe alcun riscontro. Cominciò a essere rivalutato solo negli ultimi anni della sua vita, da parte della critica specialistica europea, anzitutto francese. Oggi è ritenuto uno dei maestri del romanzo americano post-moderno, e gli omaggi si sprecano.
Parlavo di episodi psicotici che occorsero a Dick, peraltro totalmente sano di mente. Nel 1963, mentre camminava tranquillamente per strada, avrebbe alzato gli occhi e visto nel cielo un’enorme maschera di metallo che lo fissava. Così riferisce. Undici anni dopo, l’incontro con una venditrice porta a porta, con uno strano ciondolo al collo, e un misterioso “raggio rosa” gli avrebbero fatto intuire la verità. Dal primo secolo dopo Cristo un impero invisibile ci farebbe percepire una realtà alterata, per mantenerci sotto il suo dominio, e nulla di ciò che scorgiamo esiste effettivamente.
Sembrerebbero le convinzioni di un pazzo. Smettono di esserlo se si considera la smisurata cultura di Philip K. Dick. Nessuno scrittore americano di fantascienza, finché lui visse, gli stava alla pari. Divorava Jung e la psicoanalisi freudiana, conosceva a menadito la letteratura ermetica e Plotino, assimilava gli autori gnostici della tarda latinità e i filosofi contemporanei. Finì per convincersi dell’esistenza di un Dio nascosto e sonnolento, soppiantato da un Demiurgo che opera il male fingendosi l’altro. La realtà che conosciamo è un’illusione ottica allestita da costui: solo l’azione attiva degli umani, particelle di un cosmo vivente e intelligente, potrà destare il Dio che dorme, dato che è il pensiero attivo degli esseri senzienti ad avere dato forma alla divinità, latente in un mare universale di energie psichiche.
Mi fermo qui, però credo che una cosa sia chiara. Uno scrittore capace di elaborare una concezione del genere, e di approfondirla di romanzo in romanzo, non può essere né dileggiato (col definirlo “pazzo”) né trascurato. In effetti, oggi pochi negano la sua autorità e la sua influenza. Peccato che, essendo stato Dick autore soprattutto “di genere”, il riconoscimento letterario gli sia stato tributato post-mortem. Senza contare che alcune teorie scientifiche contemporanee, come quella dell’ “universo olografico”, paiono confortare, sul piano sperimentale, certe sue tesi.
Quanto all’ “uomo Dick”, non va visto né come un profeta né come un folle. Fragilissimo e in quanto tale cauto all’estremo, colse con la propria sensibilità esacerbata ciò che altri non vedevano: a volte miraggi, altre volte anticipazioni. Mise tutto per iscritto, e fu così — forse – che si salvò dalla psicosi.
Sia onore a uno scrittore di tanto talento. E adesso attenti al cielo: la maschera di ferro la si vede di rado, però c’è.