di Franco Berardi Bifo
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[a destra: André e Dorine Gorz]

La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C’è chi sopravvive.

Com’è possibile rimanere estranei al dominio del capitale, quando la Metamacchina si è messa a ronzare nelle nostre teste, quando gli automatismi tecnici, psichici e relazionali invadono lo spazio della vita quotidiana? Questa domanda si pone l’intellettuale contemporaneo. Ma esiste ancora quella figura novecentesca che si chiamava intellettuale, ha ancora una ragion d’essere l’intellettuale? Io credo di sì. L’intellettuale è colui che non si fa i fatti suoi, ma si fa i fatti di tutti, diceva Sartre. E’ colui che si sforza di agire in condizioni di consapevolezza etica.

Nella società postindustriale il lavoro intellettuale si massifica, e prende la forma sociale del cognitario, lavoratore della conoscenza costretto a vendersi come un proletario, in cambio di un salario spesso scarso e intermittente. Dunque il lavoro intellettuale è catturato, dipendente, ma questo non cancella l’esigenza di una funzione conoscitiva, etica, creativa, che sia estranea rispetto all’universo dell’asservimento: questa funzione si esprime nella figura dell’intellettuale.
L’intellettuale attraversa sensibilmente ed eticamente la rete del lavoro cognitivo: è la funzione etica dell’agire sociale. Suo scopo è produrre estraneità al dominio e alla ripetizione, suscitare autonomia della mente e del corpo sociale rispetto agli automatismi del capitale.
Ma com’è possibile riprodurre autonomia sociale entro le condizioni neo-schiavistiche dell’epoca precaria? Quando il corpo fu messo al lavoro dal capitalismo industriale disciplinante, l’intellettuale si appellò all’anima. L’anima dell’operaio rimase estranea allo sfruttamento che consumava il suo corpo. Ma ora che l’anima è messa al lavoro, dove si troveranno le energie capaci di riattivare autonomia, indipendenza dalle regole dominanti? Probabilmente nel corpo, ma questo si vedrà.

Servitù della gleba immateriale
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Anya Kamenetz [a destra] è una giornalista free-lance di ventiquattro anni che a un certo punto della sua vita, dopo avere studiato a Yale ha scoperto che le condizioni in cui vive la maggior parte dei suoi coetanei non ha nulla a che fare con le illusioni del sogno americano. Ha scritto un libro che si chiama Generation Debt, (2006 Riverside Books, New York) in cui descrive minuziosamente i meccanismi dell’indebitamento giovanile. Kamenetz ha scoperto che per pagarsi gli studi i suoi coetanei sono costretti a indebitarsi con le banche, attraverso mutui e carte di credito. Finiti gli studi trovano poi lavori precari spesso mal pagati e sono costretti ad accettarli per poter pagare il debito che intanto continua a salire. Il debito è la forma generale dell’asservimento psichico, il fondamento immaginario della civiltà del sacrificio. Il debito è l’opposto del desiderio: se il desiderio è creazione di mondo, il debito è costrizione a subire il mondo. Il debito è la forma generale della servitù post-moderna.

Ma questa servitù si presenta spesso in forme più brutali. Nell’estate del 2007 Ken Loach ha presentato a Venezia il suo ultimo film, It’s a free world con la sceneggiatura di Paul Laverty.
Il personaggio principale è Angie, una giovane donna londinese, coraggiosa e decisa a non lasciarsi sopraffare. Lavora in un’agenzia di reclutamento di lavoratori provenienti dai paesi dell’est.
Quando i dirigenti dell’agenzia la licenziano (perché si è ribellata a un gesto di arroganza machista) decide di mettere su la sua agenzia, usando le competenze che ha acquisito come dipendente.
Le competenze che Angie ha acquisito sono quelle del reclutatore di forza-lavoro a basso prezzo. Angie ha imparato a contattare poveracci che sono appena arrivati dalla Romania o dall’Ucraina, spesso sono in condizioni di clandestinità e hanno bisogno disperato di danaro. Con un’amica convoca ogni mattina gruppi di immigrati, e fra loro ne sceglie alcuni che manda a imprenditori con pochi scrupoli. Il film è raccontato dal punto di vista di Angie, e Loach riesce a spogliare la sua narrazione di ogni accento moralistico. La rete di rapporti sociali e personali che Loach descrive ha i caratteri di un universo concentrazionario, in cui ognuno è costretto a muoversi da automatismi psichici ai quali non è possibile sfuggire. Angie, la sfruttatrice, l’organizzatrice di uno sfruttamento disumano, non può essere giudicata moralmente. free_word.jpgE’ una schiavista, ma è anche una schiava, perché questo è lo schiavismo contemporaneo: un regime di interazioni obbligate, uno schiavismo in cui tutti sono schiavi.
Il film ha sorpreso alcuni recensori. Ken Loach è diventato cattivo, non si intravede in questo film nessun personaggio positivo, solo automi rabbiosi costretti alla violenza l’un contro l’altro.
A questa obiezione Ken Loach risponde che “c’è un personaggio positivo ed è quello del padre, legato ai valori dell’integrità e dell’onestà. Lui non accetta la giustificazione della figlia ‘lo fanno tutti’”. Quando il padre scopre il lavoro che sua figlia sta organizzando, le chiede: “Ma tu rispetti il minimo sindacale?”. E’ un momento di struggente patetismo: il vecchio operaio laburista crede ancora nei valori della legalità, nel rispetto del lavoro. Ma questi valori non hanno più alcun senso. Angie risponde con una scrollata di spalle, e gli dice che il mondo è cambiato.

Un film di Jia Zhang-Ke, intitolato Still life (Sanxia haoren) prodotto a Hong Kong nel 2006 racconta la devastazione che è l’altra faccia dell’ipermodernizzazione. E’ una storia semplice sullo sfondo di una Cina triste, desolata, devastata nel panorama e nell’animo. Il colore che domina è un verde marcio, un verde grigio, un verdognolo-viola.
Huo Sanming torna nel suo luogo natale, nella speranza di ritrovare la figlia e la moglie, che ha lasciato molti anni fa, quando partì per trovare lavoro in una lontana miniera del nord. Ma il suo luogo natale però non esiste più. Era un villaggio che si trovava lungo le rive del fiume Yangtze. La costruzione della diga delle tre gole ha cancellato decine di villaggi. Case e persone e strade sono state coperte dall’acqua. E i lavori continuano, la costruzione non è compiuta, la distruzione dei villaggi continua, l’acqua è destinata a salire ancora.

Huo Sanming arriva in questo panorama di devastazione, mentre l’acqua sale, e non trova la moglie e la figlia, e comincia a cercarle. Le cerca mentre intorno gruppi di operai armati di picconi abbattono muri, e cariche di esplosivo fanno esplodere i palazzi di un centro urbano. Dopo molte ricerche Huo Sanming riesce a trovare la moglie venduta dal fratello a un altro uomo. Si incontrano nei locali di un edificio in demolizione, la donna è molto invecchiata costretta a lavorare duro per mantenere sé e il nuovo marito. Parlano della figlia mentre all’orizzonte su uno sfondo verdescuro astronavi di mattoni e di ferro schizzano verso un cielo color merda. Nell’ultima scena di Still life un equilibrista cammina sulla corda dai tetti di una casa verso il nulla sullo sfondo di uno scenario che ricorda un certo cupo surrealismo, certe tele acide di Dalì.
Un peana all’incontrario: la maledizione del progresso, della crescita, dello sviluppo, un inno al capitalismo cinese, recitato a rovescio, dal punto di vista della vita devastata.

Nota sul cinismo e l’autodisprezzo

Queste tre opere descrivono il panorama, e l’intellettuale vi appare impotente. In altri tempi si scrivevano romanzi e si giravano film di denuncia, perché si era convinti che la denuncia dell’esistente potesse muovere le coscienze e aiutasse così a cambiare il mondo. still_life.jpg
Ma oggi tutti lo sanno che il capitalismo produce la guerra e che i poteri del mondo sono asserviti all’infamia più infame. Non ci sarebbe bisogno di denunciarlo. Perché allora continuare a farlo?
Quel che occorre non è la denuncia, ma una linea di fuga dall’esistente.
Ma la linea di fuga non si intravede. Si vede invece distintamente il diffondersi del cinismo.
Cinismo è dissociazione tra l’agire comunicativo e la consapevolezza etica.
La dissociazione tra coscienza etica e realtà dell’agire sociale è costitutiva della realtà umana, e non è che un aspetto della irriducibilità dell’esistenza al pensiero. Questa dissociazione nel comportamento etico è fonte di sofferenza ma anche di una messa in questione del sé in rapporto all’altro.
Cinico è colui che conosce l’infamia del potere eppure se ne fa strumento in ossequio al principio (storico-dialettico) che il vincitore ha sempre ragione.
Non dovrebbe sorprenderci il fatto che intellettuali e funzionari comunisti si siano trasformati dopo l’89 in funzionari e intellettuali dell’ultra capitalismo liberista. Agenti del KGB divenuti oligarchi di un capitalismo petroliero. Dirigenti del Partito comunista italiano trasformati in consiglieri di Berlusconi, o in predicatori paranoidi della tolleranza zero. Intellettuali trotzkisti americani trasformati in aggressivi cantori dell’American Enterprise e della guerra infinita. Non dovrebbe sorprenderci questa trasfigurazione perché non è che un’evoluzione del tutto coerente con la premessa dialettica secondo cui nella storia chi ha ragione vince, ovvero chi vince ha ragione. Credevano che la classe operaia avrebbe vinto e la dialettica hegeliana gli aveva insegnato che il reale è razionale, e quello che accade è quel che deve accadere, e quindi chi vince ha ragione.
Il cinismo assume la dissociazione tra agire comunicativo e consapevolezza etica come affermazione di un sé che si disprezza. Il disprezzo di sé è il cemento di ogni adesione cinica al potere.
Non c’è nulla di peggio che il disprezzo di sé, il cui alone accompagna i comunisti dialettici convertiti al liberismo securitario. Ma com’è possibile evitare questo cinismo, com’è possibile evitare questo disprezzo di sé, quando la parola si rivela impotente, quando la consapevolezza dell’infamia e della violenza non può tradursi in azione?
A noi, in questo tempo di carcerazione dell’anima non resta che pensare come se, e non resta che agire come se. Come se la condivisione del mondo fosse governata dalla sensibilità, come se la ribellione contro l’infamia fosse imminente, come se l’armonia accordasse fra poco i desideri divergenti.
Una figura di sapiente terapeuta ed artista della propria vita è quella che meglio delinea l’intellettuale del nostro tempo. Una figura capace di mostrare il luogo difficile dell’estraneo, una figura capace di suscitare e di tessere una congiura degli estranei. Estranei all’assolutismo del capitale, ma anche estranei alla necessità storica, estranei alla competizione economica.

La storia non si snoda / come una catena
di anelli ininterrotta. / In ogni caso
molti anelli non tengono. / La storia non contiene
il prima e il dopo, / nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.

Il lavoro, il senso, lo scacco

Così vedo Andrè Gorz. Come un estraneo. E per questo lo sento vicino, per quanto lontana sia la sua formazione dalla mia. Sedicenne austriaco di nome Gerard Horst, fugge da Vienna nel 1939 per evitare il nazismo (suo padre era ebreo), studia a Losanna durante la guerra e poi va a Parigi nel ’49, dove matura nell’ambiente esistenzialista e militante. L’esistenzialismo segna indelebilmente il suo percorso. Giornalista e sociologo, Gorz ha dedicato gran parte delle sue riflessioni alle trasformazioni del lavoro, e alle prospettive di liberazione che i movimenti operai e post-operai hanno saputo prefigurare.
Se ci limitiamo a considerare la sua opera in una prospettiva politica, Gorz potrebbe apparirci come un utopista temperato, troppo vicino a una visione sindacale per cogliere l’aspetto drammatico della lotta di classe.
Ma Gorz non è soltanto un sociologo. Resta, nel profondo, un esistenzialista. Il tema dello scacco, del fallimento costitutivo del progetto, rimane l’orizzonte della sua riflessione utopica, al cui centrasi pone la questione dell’autonomia come liberazione progressiva dal vincolo sociale del lavoro.
Negli anni sessanta Gorz partecipa al movimento di pensiero critico che cerca di rinnovare il marxismo partendo da una ripresa dei temi umanistici. Negli anni seguenti frequenta Ivan Illich e da quel sodalizio viene l’ispirazione delle prime forme di ecologia politica, e di un’antropologia capace di cogliere nel vissuto individuale la radice dell’alienazione tardo-capitalista.
L’incontro con l’utopia realizzata del maggio ’68 apre a Gorz una nuova prospettiva, e la sua visione esistenzialista del comunismo operaio converge naturalmente con lo spontaneismo anti-lavorista del movimento. L’abolizione del lavoro salariato diventa l’asse principale della sua ricerca a partire dagli anni Settanta. E le sue opere più note, quelle pubblicate negli ultimi due decenni sono dedicate all’utopia della fine del lavoro.
La posizione di Gorz è molto differente dall’ipotesi operaista del rifiuto del lavoro. Rifiuto del lavoro significa infatti pervicace decostruzione operaia del castello capitalista per spostare e ridefinire i confini che separano il lavoro dall’impresa, per decomporre e ricomporre il corpo collettivo del lavoro. Non significa realizzazione di un paradiso del non lavoro. Sono due ipotesi diverse, quella operaista italiana e quella utopico-psotlavorista di Andrè Gorz.
Ma non sono da considerare contrastanti.
Il rifiuto del lavoro che si manifesta come estraneità attiva e come autonomia sociale, si motiva e si rende possibile a partire dalla consapevolezza (utopica) di un possibile che il capitalismo rende inoperante. L’avarizia idiota del proprietario ostacola la piena realizzazione delle potenzialità implicite nella tecnologia. Questo motiva l’odio operaio per il lavoro e per la proprietà, questo giustifica il sabotaggio, la violenza contro la proprietà, l’appropriazione.
Gorz ragiona coerentemente sulle potenzialità liberatorie che la tecnologia mette a disposizione della società, anche se si rende conto del fatto che queste potenzialità non si realizzano perché il capitalismo ha costruito una diga culturale, epistemica, ancor prima che una diga politica e giuridica contro il comune interesse alla libertà dal lavoro.metamorfo_lavoro.jpg
L’utopia di Gorz è descrizione di una possibilità che (sartrianamente) sfugge, ma che produce effetti di socialità autonoma, di libertà del progetto e dell’azione.
In Metamorphoses du travail, quete du sens, un libro del 1988, Gorz afferma che il fenomeno emergente è quello di una liberazione massiccia di tempo.

“La questione è di sapere che senso e quale contenuto si vuole dare a questo tempo liberato. La ragione economica è fondamentalmente incapace di rispondere a questa domanda.” (Metamorphoses, 1988, Galilée, pag. 17, traduzione mia).

D’altro lato Gorz riconosce che:

“l’ideologia delle risorse umane prepara la strumentalizzazione, o come dice Habermas, la colonizzazione delle aspirazioni non economiche da parte della razionalità economica… Tutta la questione è di sapere se questo prepara uno sfruttamento e una manipolazione aggravate dei lavoratori o una autonomizzazione dei valori extra-economici, non quantificabili, fino al punto di restringere i diritti della logica economica a favore dei loro propri diritti.” (ibi, pag. 83)

Oggi sappiamo bene come le utopie della fine del lavoro sono state smentite. Ma Gorz lo pre-sentiva, nel suo libro del 1988:

“Lo spessore sensibile del mondo è abolito. Il lavoro come attività materiale è abolito. Non resta che un’attività puramente intellettuale, o piuttosto mentale. E’ il trionfo finale, assoluto di quello che Husserl definiva come la matematizzazione della natura. La realtà appresa è spogliata di tutte le sue qualità sensibili… Il lavoro è scomparso perché la vita si è ritirata dall’universo. Non c’è più nessuno, solo dei numeri al posto di altri numeri in silenzio, indiscutibili perché insensibili, muti. Alla fine della sua giornata l’operatore si alza. Di quel che ha fatto non gli resta niente, nessuna acquisizione materiale, visibile, misurabile: non ha realizzato nulla. Ma questo nulla lo ha esaurito: durante la sua giornata (o notte ) di lavoro si è imposto questa ascesi che è la repressione della sua esistenza sensibile: si è prodotto all’esistenza come intelletto puro, eliminando, reprimendo tutto quel che è rapporto vivente al mondo vissuto nel suo corpo e attraverso il suo corpo.” (ibi, 111)

In uno dei capitoli finali, intitolato Travail intermittent, maitrise du temps, Gorz prevede la prospettiva di un’estensione crescente del lavoro precario. Ma la descrive come una prospettiva liberatoria, come una riduzione del peso che il lavoro ha sempre avuto nella vita sociale. A partire dalla desincronizzazione, dalla possibilità di ricombinare il prodotto indipendentemente dal luogo e dal tempo dei produttori, Gorz immagina un mondo nel quale il lavoro si riduca a una frazione marginale della vita individuale.
Oggi sappiamo che le cose sono andate diversamente, che la precarizzazione ha reso più pesante il fardello della dipendenza.

Dorine

Ma la chiave che mi permette di capire André Gorz, e mi permette di condividere il suo percorso la trovo nel suo ultimo libro, Lettre à D, Histoire d’un amour, la breve opera scritta rivolgendosi a Dorine, la donna con cui ha vissuto cinquantotto anni della sua vita.

“Avrai presto ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, pesi soltanto quarantacinque chili e sei sempre bella, graziosa e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che giammai. Sento di nuovo nel mio petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio può colmare.”

Questo libretto racconta la storia di un amore che attraversa e fiancheggia le tragedie del secolo ventesimo, eppure rimane pervicacemente estraneo alla violenza e al cinismo. Estraneo è colui che conosce la via per mettersi fuori, per offrire (e offrirsi) una linea di fuga.
Raccontando il suo amore per una donna che ha vissuto con lui cinquantotto anni, Gorz racconta la storia di una vita vissuta come se. Come se la condivisione del mondo fosse governata dalla sensibilità, come se la ribellione contro l’infamia fosse imminente, come se l’armonia accordasse fra poco i desideri divergenti.

La storia / non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede / né recede, si sposta di binario
e la sua direzione / non è nell’orario.

(Eugenio Montale, Satura)