di Enzo Fileno Carabba
Avevo i miei privilegi.
Credo di essere stato il primo bambino italiano a conoscere la storia di Shining, il romanzo dell’orrore di Stephen King da cui Kubrick ha tratto il film con Jack Nicholson. I miei genitori, che spesso hanno di queste intuizioni, comprarono il libro quando ancora King non era nessuno. La traduzione italiana aveva per titolo Una splendida festa di morte e in copertina c’era un bambino con una camicia da notte e una faccia verdognola, poco sana, bisogna dire: più che spaventato sembra reduce da un’intossicazione alimentare.
Io invece mi spaventai.
In quegli anni mio padre imitava le voci dei film horror, la notte (di solito un film visto la sera stessa), come scherzo a beneficio della mamma. Mia mamma un po’ si spaventava davvero e in risposta gli rifilava delle gomitate o anche pizzicotti con torsione come segno di dissenso. Gli lasciava anche i lividi, questo secondo mio padre. Mia mamma è piena di energia. Oppure si raccontavano i libri a vicenda, specie quelli spaventosi. E così mio padre raccontò Shining via via che lo leggeva. Lo ascoltai anche io molto bene, lo assorbii come una spugna, perché eravamo in viaggio in Turchia e dormivamo nella stessa camera.
Ecco perché penso di essere stato il primo bambino italiano ad ascoltare quella storia.
Tutti dovrebbero conoscere Shining, però non si sa mai. In breve: Jack Torrance trova lavoro come guardiano all’Overloock Hotel, durante il periodo invernale, quando l’albergo è chiuso. Quindi lui, la moglie e il figlio si ritrovano bloccati in questo albergo tra le Montagne Rocciose, isolati dal resto del mondo per via della neve. Certo, possono vagare liberamente nel grande albergo. Ma non è detto che sia una buona idea.
Il lussuoso edificio infatti è vuoto solo in apparenza: in realtà è al completo. E’ occupato dagli spettri, che giustamente come tutti quelli che si dedicano a occupazioni scrivono sui muri o sugli specchi. Magari non tutti, altrimenti l’Overlook Hotel sarebbe pieno di scritte tipo “Trucidare è il sistema”, ma alcuni. Per queste presenze soprannaturali, tuttavia, i graffiti sono un’attività collaterale, infatti le scritte appaiono sbavate e imprecise. In realtà sono mossi da un’ambizione dominante: pretendono che Jack Torrance faccia fuori la moglie e il figlio.
Per l’appunto ho udito questo racconto in un grande albergo dai lunghi corridoi ombrosi, e per l’appunto eravamo io, mio padre e mia madre. Noi tre. Come i protagonisti di Shining. Ora, posso garantire che mio padre non ha niente a che fare con Jack Torrance, perché (lo intuii già da bambino) non si lascia facilmente condizionare da uno o più fantasmi. Tuttavia una parte di me si identificava — per un motivo che dirò — in Danny, bambino che è forse il vero protagonista della storia.
Il nostro albergo era in Cappadocia, circondato da una specie di deserto. Per cui per me la vera storia di svolge in un albergo in mezzo al deserto. Quando successivamente ho letto il libro con i miei occhi, e anche quando ho visto il film di Kubrick, la presenza di tutta quella neve non mi ha convinto. Se non come espediente narrativo per impedire la fuga.
Se uno legge attentamente il libro di King, noterà che in sostanza è la storia di una caldaia, e dei rischi a cui si va incontro con una cattiva manutenzione. Dovrebbe essercene una copia in ogni sede della protezione civile. Ma queste sono due riflessioni – quella sulla neve e quella sulla caldaia – che ho fatto più tardi.
Sul momento mi colpì il fatto che il bambino non è solo una vittima, in un certo senso è proprio lui a scatenare tutto. Infatti la vicenda fa paura soprattutto quando il bambino è solo. E’ lui ad avere lo shining, all’epoca dei fatti tradotto con luccicanza, cioè è dotato di un enorme potere che gli consente di vedere cose che gli altri non vedono e questo suo potere eccita tremendamente i fantasmi. La cosa si può anche capire. Di solito vivono in una solitudine tremenda, immagino oziosa, e devono fare il diavolo a quattro per farsi percepire dai vivi. Poi arriva questo bambino che addirittura li percepisce a distanza, ben prima di arrivare all’Overloock Hotel. Possiamo parlare di un bambino prodigio. E’ naturale che lo vogliano uccidere per farsi fare compagnia.
La storia mi faceva paura. Ma il fatto che il bambino avesse dei poteri e che addirittura vedesse gli eventi in anticipo non mi stupì affatto. Infatti capitava anche a me.
Le mie premonizioni erano più modeste, lo ammetto, ma in sostanza avevo anche io lo shining. Per esempio, lo yogurt non mi era mai piaciuto. Ma un pomeriggio, mentre ero in giro per Campo di Marte e facevo lo slalom tra i maniaci, una vocina dentro la mia testa mi disse che senza dubbio mi sarebbe piaciuto. Andai a casa, lo assaggiai e da allora mi piace. Un’altra volta ero in Versilia coi miei, eravamo al bar, mi chiesero cosa volevo. Fino a un attimo prima non avrei mai pensato di volere un bicchiere di latte. Invece la voce improvvisa nella mia testa disse: un bicchiere di latte. Freddo, specificò. E il latte mi deliziò. La cosa potrà sembrare buffa, e certo questa voce dovrebbe manifestarsi a tutti quelli che nei ristoranti fanno aspettare ore i camerieri prima di decidersi a ordinare, ma la vera domanda è: da dove veniva quella voce? Si potrebbe anche pensare che — mentre le premonizioni del bambino di Shining riguardavano il sangue — le mie riguardassero latte e derivati. Ma, a parte che sarebbe più originale, non è vero. Una volta ero in camera di mia zia Annalisa, a casa dai nonni, e tutti guardavano la televisione, quando la voce nella mia testa mi disse: tu amerai i polpi. Forse non usò questo tono solenne ma il concetto era questo. L’immagine di un polpo sott’acqua mi visitò. Bada bene che non avevo mai visto un polpo sott’acqua in vita mia, e il polpo visto sulla terraferma, per esempio in pescheria, non ha nulla a che vedere con lo splendore di un polpo visto nel suo elemento e nella sua pienezza. Ma successivamente al mare ho fatto in modo di vederli: corrispondevano esattamente alla visione che mi era piovuta nella testa e oggi posso dire, non senza commozione, che i polpi sono uno dei grandi amori della mia vita.
C’è chi vede la caduta di un impero, o la prossima eruzione del Vesuvio. Io vidi che mi sarebbe piaciuto lo yogurt. Piccole premonizioni, anticipazioni. Cose apparentemente senza importanza, ma che mi facevano riflettere. Quello che non mi tornava dei film e dei libri del mio tempo era che, in questi libri e in questi film, se uno ha una premonizione deve essere per forza disastrosa. Ma di solito non è neanche la caduta di un impero, ormai, sono cose più orride e morbose. Onde di sangue, voci che biascicano ti ammazzerò senza uno straccio di motivazione plausibile, fantasmi che imbrattano i muri con frasi rozze e sgrammaticate. Secondo l’immaginario del nostro tempo se uno incontra un fantasma deve darsela a gambe. E basta. Mentre prima i fantasmi suggerivano i numeri della lotteria. Il bambino di Shining fa benissimo a scappare di fronte alle due rigide bambine vestite di bianco. Lo capisco. Prima di tutto perché sono due contro uno, e poi a quell’età i maschi non giocano con le femmine e infine lui è un timido. Anche in questo mi riconoscevo.
Ma verrà un giorno in cui ai fantasmi sarà riconosciuta la dignità e la dolcezza e forse la stessa parola fantasma verrà sostituita da una locuzione meno offensiva e discriminante, tipo personalità non dotate di corpo.
Con questo, non voglio negare l’esistenza delle presenze oscure senza le quali il mondo sarebbe più povero, ma solo dire che fanno parte di un gruppo più vasto.
Per esempio, furono proprio le presenze oscure che mi insegnarono a governare i sogni. O perlomeno mi indussero a imparare quest’arte. Un periodo avevo spesso incubi. Avevo paura di andare a letto. Il nonno Fileno mi disse che gli incubi in realtà sono sogni che durano pochissimo. Poi mi hanno riferito che non è vero, ma sul momento la cosa mi tranquillizzò. La prima pensata che ebbi, per debellare gli incubi, fu quella di anticiparli. Prima di addormentarmi pensavo a tutte le cose che mi spaventavano, facevo una carrellata cercando di esaurirle. L’idea era che è improbabile sognare quello a cui hai pensato prima di addormentarti. Non so da dove mi venisse.
Diciamo che invece di contare le pecore contavo gli orrori, il che è anche molto più facile, non ho mai capito come si fa a contare le pecore. Con le pecore mi confondo, mi innervosisco e non riesco a dormire.
Successivamente, innalzandomi a un livello superiore di coscienza, imparai proprio a plasmare i sogni: quando mi accorgevo che un sogno normale stava virando verso l’incubo, operavo uno sforzo mentale e lo raddrizzavo. Infatti per lo più i miei incubi erano sogni normali che degeneravano, l’atmosfera cambiava, le persone smettevano di essere buone. Non è che poi compissero atti tremendi, ma io percepivo la loro cattiveria.
Alla fine raggiunsi un tale potenza di fuoco che ribaltavo la cosa. Non solo riuscivo a evitare che una persona buona diventasse cattiva, cioè non solo riuscivo a bloccare il processo degenerativo, ma riuscivo a invertirlo facendo diventare buone le potenze demoniache.
Per esempio c’era una faccia lunga e contorta che di giorno vedevo riflessa sul rubinetto del bagno. In teoria era la mia faccia deformata dal rubinetto, ma in pratica io — essendo furbo come una volpe — lo sapevo bene che tramite quel rubinetto si accedeva a un’altra dimensione e quella faccia bislunga non era certo la mia faccia. Insomma ogni tanto me la sognavo, questa faccia da incubo. Ma dopo una laborioso negoziato con le mie parti oscure riuscii a farne una faccia abbastanza normale, con cui poteva perfino capitarmi di parlare. Non era una cosa stabile. Sentivo che era continuamente sul punto di trasformarsi di nuovo, di ridiventare malvagia, ma non ce la faceva. Era costretta a parlarmi, anche se i dialoghi non erano sempre rilassati.
Essendo un bambino illuminista attribuivo questa mia potenza mentale agli studi scientifici che mi rafforzavano l’anima.
Pensai anche che l’inferno era quando non riuscivi a trasformare i demoni. Secondo questa idea, un’anima opportunamente potenziata, nell’aldilà, trasforma i demoni in angeli. E insomma l’inferno e il paradiso sono sempre lo stesso luogo, cioè l’aldilà, sei tu che lo vivi meglio o peggio a seconda dei tuoi meriti.
Comunque sia, gli incubi smisero per davvero e da allora non ne ho più sofferto, perlomeno non di quel tipo che prevede che le persone si trasformino in demoni. Da adulto al massimo ho sognato di essere condannato a morte e che nessuno ci facesse caso.
Seguì un periodo in cui miei sogni si svolgevano sott’acqua. Abitualmente strisciavo sul fondale, ma a volte saltavo o addirittura me ne andavo in giro a mezz’acqua, proprio come le conchiglie. Allora mi convinsi che captavo i sogni delle conchiglie. E’ vero che ormai il mollusco era morto, ma i sogni dovevano essere rimasti intrappolati all’interno, rimbombavano.
Una volta sognai delle automobili che uscivano dalle onde prolungandone la corsa selvaggia sulla spiaggia. Una visione possente, che anni dopo ho rivisto — esatta — in una pubblicità.
E veramente ci sono stati altri due o tre casi dove ho sognato pubblicità future.
E’ vero però che, per quanto uno li coltivi, i poteri della mente non sempre funzionano. Una volta, ero ormai grande e stavo guidando, pioveva, ero in discesa, sul viale dei Colli, e i freni hanno smesso di funzionare. Dato che non so nulla di macchine mi sono detto: i freni non possono smettere di funzionare di colpo, così senza preavviso. Per cui questo è un sogno. Strano un incubo così, per me, non mi si addice, ma insomma è un incubo. Questo mi sono detto. Astuto come non mai. Allora ho pensato di rispolverare la vecchia tecnica di quando plasmavo sogni. Se da bambino facevo diventare buoni i demoni, ora potevo bene aggiustare i freni della macchina. Mi sono concentrato per frenare. Dovevo essere un po’ arrugginito, perché la macchina non frenava affatto. Ero stupito e deluso di me stesso. La mia anima è flessa in uno sforzo supremo, per tornare all’antico splendore e fermare la macchina. Una macchina piccola, tra l’altro. Insomma sono andato a sbattere. Ma sul serio.
Nel senso che mi sono reso conto con sollievo che era tutto vero, non era un sogno: questo significava che la mia anima non si era indebolita, grazie a Dio.
Molti anni dopo mi sarei ricordato di quel viaggio in Turchia in cui mio padre mi fece conoscere Shining. Prima di arrivare in Cappadocia conoscemmo un modenese sanguigno. Se ci fate caso i modenesi sono sempre sanguigni, nei libri scadenti. Avrei preferito parlare di un modenese anemico, ma quello che incontrammo noi era veramente sanguigno, nel senso perlomeno che parlava con grande entusiasmo di cibi robusti, dalla piadina al Kebab, alimenti tra cui trovava singolari consonanze. Disse che non poteva dormire con altre persone nella stessa stanza perché “ho paura dei sogni degli altri”, disse. In particolare ne aveva paura se lui si svegliava mentre gli altri dormivano.
L’avesse detto un tipo pallido e atteggiato non avrei dato gran peso alla cosa, ma il fatto che la dicesse quel tipo sanguigno me la fece sentire vera.
Poi fummo in Cappadocia, regione che ha per me i contorni del mito. Le cicogne nidificavano sui pali della luce. Trovammo un tedesco imponente che a torso nudo, a piedi, portava con aria eroica suo figlio inerte ciondolante sulle spalle, nonostante il ragazzo fosse sui sedici anni. Il padre diceva che il ragazzo era disidratato e ci sconsigliava di andare avanti: quella era una terra inospitale, ci saremmo disidratati anche noi.
Astuti come faine, ricorremmo all’antica tecnica di bere, evitammo di camminare per ore sotto il sole come fanatici e sfuggimmo così alla disidratazione.
Entrammo dentro un paesaggio che non pensavo esistesse. Era come nelle pubblicità: la nostra macchina procedeva solitaria. Vidi pinnacoli di roccia chiara a perdita d’occhio, e magari in cima al pinnacolo c’era un masso scuro messo per traverso. E questo per chilometri: un mondo stupefacente. Alcuni pinnacoli – camini delle fate, li chiamavano – sembravano gelati di venti metri, ma col cono messo al contrario e la pallina di gelato in equilibrio sulla punta.
Mi spiegarono che questi camini delle fate erano stati scavati all’interno da monaci dei secoli passati. Questi monaci presumo ci abitassero e di sicuro ci avevano dipinto degli affreschi. Perché poi dei monaci eremiti in tempi antichi fossero andati a vivere laggiù non mi era chiaro. Non sapevo neanche cosa fosse un monaco, se è per questo.
In generale, le opere dell’uomo non mi entusiasmavano, preferivo una scogliera a un quadro. Però essendo dentro i pinnacoli, quegli affreschi non erano esclusivamente umani.
Sentii che una parte da me era inseparabile da quei luoghi, era come essere a casa.
Sono convinto di aver visto una grande statua raffigurante un orso che si accoppia con un coniglio. Non so se era una statua o piuttosto il frutto dell’erosione di due pinnacoli collegati. Qualunque cosa fosse, mi colpì. Non ero pratico di accoppiamenti, però sognavo spesso i conigli.
Venti giorni dopo, sulla via del ritorno trovammo un altro luogo che usciva dai sogni. C’erano centinaia di vasche bianche, naturali, piene d’acqua, poco profonde, a picco sulla pianura lontana. Le vasche dovevano essere di calcare o non so cosa, una attaccata all’altra, digradavano dolcemente. Ci facemmo anche il bagno. In teoria in quell’acqua non c’erano animali, così ci fu detto. Mentre ripartivamo bagnati — mio padre ha sempre amato ripartire bagnato – io vidi chiaramente degli animaletti dalle forme strane e pulsanti. Ma avevamo fretta, non so perché, e così la mia scoperta non ebbe la risonanza che meritava.
Io quando ero a casa prelevavo sempre campioni d’acqua dalle pozze e poi li studiavo al microscopio, perché i miei libri mi assicuravano che avrei visto animali incredibili. Non sono mai riuscito a vedere nulla.
Ma quegli animaletti delle vasche bianche erano esattamente come immaginavo gli organismi delle pozze, solo che li vedevo senza bisogno di microscopio.
Posso anche dare testimonianza di fenomeni telepatici in famiglia. Si vede che nel nostro sangue c’è un potere che si trasmette. Per esempio una volta, mi sembra fossimo a Bagno Vignoni, in Toscana, gli adulti stavano facendo quel gioco in cui uno deve indovinare un personaggio sulla base degli indizi che un altro gli fornisce.
La passione della mia famiglia per i quiz è pari solo alla mia avversione per le risposte.
Comunque, gli indizi forniti fino a quel momento da mia madre erano: attore, occhi gelidi, un solo film.
Al che mia zia Margherita, la moglie di Manin, lo zio che mi spiegava il diavolo, chiese: come porta i capelli?
Mia madre ci pensò un po’ su, poi rispose: capelli a spazzola.
Lo squalo! concluse trionfante la zia Marghe.
Aveva indovinato.
Ora, è vero che era appena uscito Lo squalo di Spielberg, ma penso che la risposta si spieghi solo grazie alla telepatia.
Sempre a Bagno Vignoni – un posto che risulta lugubre solo nei film di Tarkowsky – stavamo facendo tutti una passeggiata lungo un sentiero sassoso che risaliva da un torrente su per un bel bosco rado.
Mio padre e mio zio parlavano. Uno dei due avanzò l’idea che andassi in montagna con gli zii, quell’estate.
Ora, io ero un tipo marino, non avrei mai pensato che mi piacesse la montagna. Ma in quel momento una voce mi garantì che la montagna mi sarebbe piaciuta moltissimo. E così fu, per sempre.
Avrai capito che era sempre la stessa voce che mi aveva chiarito le idee circa il latte e lo yogurt. E bisogna dire che anche le montagne dove andai quell’estate erano piuttosto bianche, per via dei ghiacciai. La voce aveva una spiccata preferenza per il bianco.
Era come se la voce mi indicasse cose che già mi appartenevano, senza che io lo sapessi. In particolare ricordo una montagna, la Grivola, con una parete che si incurva sul ghiacciaio. Poderosa come un castagno di pietra. Quando la vidi, ero con mio zio, quell’estate, era così bella che mi mancò il fiato, come si suol dire (ma non è vero, ero allenatissimo): quella montagna era esattamente come mi ero immaginato. Era MIA.
Moltissimo tempo dopo ci sono tornato con mia figlia undicenne e ho sentito che ciò significava qualcosa. Quando capirò cosa, ve lo farò sapere.
Di recente ho conosciuto un signore che è stato ospite per quarant’anni di un manicomio e ora resta da quelle parti perché altrimenti non saprebbe dove andare. “Per quelli come me sono aperte le porte del carcere, del cimitero e del manicomio. Io preferisco il manicomio” mi ha detto sensatamente. Mi ha anche riferito che lui sente davvero le voci. “Ma io mi metto i tappi” ha concluso felice.
Intendo dire che le voci vanno benissimo, ma richiedono prudenza.
Allo stesso modo, nonostante tutto quello che ho detto prima sulla dolcezza delle apparizioni, resto convinto che anche con loro la prudenza non sia mai troppa. In prima elementare un mio breve componimento fece scalpore. La maestra ci aveva dato per titolo: “Cosa farei se Gesù Bambino apparisse in camera mia”, qualcosa del genere. Immagino volesse sapere cosa gli avrei chiesto, a Gesù bambino: la pace nel mondo, per esempio.
Io invece visualizzai questo bambino luminoso galleggiare in modo inquietante in camera mia, nel centro del mio santuario scientifico, magari sospeso pericolosamente a mezz’aria sulle conchiglie, o sui pesci in formalina. Chissà perché stentavo a visualizzarlo seduto. Tra l’altro me lo vedevo grassottello. Meno terribile delle gemelle di Shining, che ancora non conoscevo, ma certo più pesante, se rovinava sulle conchiglie. E comunque abbastanza spaventoso anche lui.
Ora, io lo sapevo che in realtà è buono. Tuttavia immaginai questa entità pulsante e irraggiante luce (probabilmente una entità radioattiva, me ne rendo conto oggi) che mi appariva di colpo e senza regolare invito. La cosa mi parve insopportabile.
Allora scrissi nel tema che mi sarei buttato dalla finestra per la paura.