di Danilo Arona
Sergio Pent, La nebbia dentro, Rizzoli, 2007, pp. 207, € 17,00
“La nebbia si stende come un lenzuolo sdrucito sul fogliame che cerca il colore giusto per l’addio e rimane lì a poltrire fino a quando qualche corrente ventosa del Monferrato non la spazza via in pochi soffi veloci, come se non fosse mai esistita.”
E’ la cosiddetta “nebbia dei funghi” quella di cui parla Sergio Pent in questi scarni, magistrali tocchi in apertura del suo La nebbia dentro, romanzo dell’anima e della memoria ambientato in un’attualissima e dolente Val di Susa, teatro contemporaneo di non poche contraddizioni della nostra stramba nazione.
Due fratelli si ritrovano dopo anni al funerale del padre. Nel paesino di lui, arroccato sulla montagna a “resistere”. L’uno, il politico più o meno arrivato e più o meno furbetto, con al seguito body guard e insopportabile figlio adolescente viziato e strafottente; l’altro, il “piemontese dentro” che è rimasto fedele alle sue radici e alla sua terra, scegliendo di non lasciare la valle quasi a custodirla sino all’ultimo giorno della sua vita.
Due fratelli che più diversi è difficile immaginare. Eppure, lungo la linea del sangue, esaurite le formalità funebri, i due tentano di “riconoscersi”, di ritrovarsi e di aprire come mai il loro spirito l’uno all’altro. Poche ore, non più di un paio di giorni, durante i quali non succede in realtà quasi nulla; ma, come già diceva Oscar Wilde, è nella psiche che avvengono i più grandi peccati del mondo. Così, in un processo di montante e divorante tensione che passa dai protagonisti al lettore come la nebbia che scaturisce dal terreno, il gioco delle memorie e dei rimpianti, dei rimbrotti e dei bilanci, mette spietatamente a nudo i due caratteri e le due maschere (destinate a cadere) e poco importa se poi Pietro e Attilio siano o meno le speculari parti dello stesso Io in perenne e, forse, irrisolvibile conflitto.
Con il suo apparente minimalismo spirituale La nebbia dentro è un romanzo che mette i brividi. Pent fonde con magistrale e pragmatica sintesi il senso enigmatico della vita con il mistero e il folclore appena accennato di un territorio nei cui meandri riverberano ancora storie stregonesche di masche, le veglie paurose accanto al camino e i boschi oscuri abitati da chissà quali e incomprensibili creature. E’ quel Piemonte sconosciuto e ripiegato in se stesso, dove la nebbia nasconde e cambia le prospettive, e da forma si trasforma in sostanza. Dove “le montagne hanno gli occhi” e dove la memoria conserva ancora il suo giusto rilievo sacrale. Val di Susa, si potrebbe dire “non a caso”, anche se qui Pent è nato e, di tanto in tanto, presumo ci viva ancora. Ma, per paradosso, La nebbia dentro spiega molte più cose sui problemi innescati dalla TAV che cento inchieste giornalistiche di qualsiasi televisione, di stato o privata. Perché ci fa capire come mai questa gente, che poi siamo noi, vuole “resistere”.
Non occorre che ricordi chi sia Sergio Pent. Chi abitualmente legge “TuttoLibri”, l’inserto di letteratura de “La Stampa”, ben conosce i suoi acuti, e sempre fuori dal coro, resoconti critici sulla produzione noir d’Italia e del mondo. Chi non ha letto Il custode del museo dei giocattoli (Mondadori 2001) e Un cuore nudo (e/o, 2005), è sempre in tempo. Chi invece vuole scoprire un vero gioiello di tensione e di gotica ferocia, si predisponga per la lettura di Tutto il nero del Piemonte, antologia della Noubs a giorni in libreria, dove il racconto d’apertura Quanti siete in famiglia ci svela un angolo di Piemonte che non dispiacerebbe per nulla al Lovecraft de Le montagne della follia… Firmato, ovvio, da Pent, cantore delle masche, del vento minaccioso che sibila in alto tra fessure di pietra e delle ombre “perturbanti” che appaiono nei boschi a predire la morte.