di Anarcoreta
[Leggi la prima e la seconda parte del racconto]
Ormai era il crepuscolo, quel momento della giornata in cui i colori si attenuano quasi completamente — riducendosi a sfumature tra il grigio e il nero – ma rimangono ben visibili le forme. Le forme intorno a me — dalla mia visione dal basso, seduto sulla pietra — erano le due figure che stavano tra me e la strada, Gideon — silenzioso — accanto a me e una fitta schiera di arbusti e alberelli — mi parevano acacia o un loro parente africano — che riducevano la vista a quella sorta di angolo intimo che si era creato.
Me ne accorgo per la prima volta. Ho paura, moderatamente ma ho paura.
La paura spesso — soprattutto di questi tempi in cui facciamo difficoltà a relazionarci con la realtà — può essere una sensazione che ci blocca, che ci inibisce la scoperta degli altri, che non ci fa vivere emozioni, che non ci permette di aprirci, la paura semplicemente dell’ignoto; la proiezione su tutto di stereotipi pericolosi. La paura può essere anche una sensazione salutare che ci aiuta a sfuggire ai guai, a evitare conseguenze spiacevoli, a percepire quando una certo percorso va interrotto. Questa paura è un bene prezioso, un campanello di allarme che ci ricorda dove siamo, quando magari viene meno la consapevolezza per una ragione o per un’altra, anche se credo di aver indicato con sufficiente chiarezza nel mio particolare caso quale fosse la causa del disorientamento. Due paure che si presentano in un’unica sensazione e quindi — come diverse delle emozioni legate all’uomo e alla donna – risulta difficile discernere con chiarezza e dire: “La paura — che sento ora – è questa piuttosto che quest’altra”. Si fa difficoltà a capire quale è il tipo di terrore che ci prende anche perché la barriera della prima paura — quelle che blocca piuttosto che quella che cautela – può a volte condurre ad una protezione, anche se si potrebbe sostenere, con qualche ragione, che è stata anche causa di infinite violenze. A ripensarci ora, mi sembra che quella paura fosse più del primo tipo, la paura paralizzante, che del secondo, la paura previdente. Su queste questioni, notoriamente, gli atteggiamenti di ciascuno sono diversi e sono sicuro che mia madre, il mio collega antropologo e i miei amici — se fossero giunti a questo punto della lettura – si sarebbero fatti opinioni diverse sulla legittimità della mia paura.
Intanto rimanevo lì. Non avendo dato alla donazione un significato che sentivo mio, veniva meno anche la possibilità di una sua quantificazione. Non trovo in chi mi stava accanto degli stimoli utili per dare un senso a quella offerta in denaro che — avevo ormai deciso — mi apprestavo a fare. Gideon era rimasto silenzioso da quando era arrivato l’uomo con la camicia rosa. Gli chiedo sorridendo — non era venuto meno il piacere dello scherzo e di stare lì — cosa consigliava come ammontare. La domanda era inusuale, eccessivamente complicata per quello che doveva essere un gesto di dono spontaneo e non era – almeno ufficialmente – una estorsione: non c’era un tariffario che fissava quanto un uomo bianco che fumava nel ghetto doveva pagare per avere in quel luogo una permanenza tranquilla. La scelta fu istantanea e direi casuale, orientandomi su una quantità che non doveva essere offensiva per chi la riceveva ma neanche insultante per quelli che lì non c’erano e che quindi non avrebbero beneficiato di quella transazione — per alcuni problematica, per altri benefica. Due banconote da 10 passarono dal mio portafoglio alla mano dell’uomo con la camicia rosa che — c’era da aspettarselo — una volta presi i soldi chiese And for my friend? (E per il mio amico?). Quello più alto, che si era intanto avvicinato, ricevette la stessa cifra.
L’ammontare dei soldi diventa rilevante solo se diamo alla cifra un senso vissuto; sono quindi in debito con il lettore che si è già trovato di fronte ad un ammontare che — se intende la comprensione non come la raccolta di un insieme di dati precisi ma come un immedesimarsi nell’esperienza altrui — dovrebbe averlo infastidito piuttosto che appagato. I cambi valuta prevedono lo scambio di un euro per poco più di 10. Questo dato, nel tentativo di offrire una traduzione in vissuto di una fredda cifra, significa che l’ammontare offerto a ciascuno di chi aveva avuto l’esperienza – più che la pazienza – di riuscire a ottenere una ridistribuzione che aveva un senso tutto personale e per niente disprezzabile — e che con i soldi in tasca si era allontanata velocemente dopo un frettoloso saluto — significa, dicevo, che permetteva di bere e offrire un caffè al bar in Italia. Ma, con una maggiore sensibilità culturale, significa che qui l’uomo con la camicia rosa e quello più alto avrebbero potuto usare i soldi per comprarsi, ciascuno, due birre a un bar; o prendere un taxi per un tragitto breve ma non brevissimo; o farsi lavare e stirare pantaloni, camicia, mutande e calze. Ma non avrebbero usato i soldi in questo modo. I soldi dati, in città, equivalgono alla paga di una mezza giornata di lavoro manuale e quindi appare chiaro che per molti quei soldi non sono né birra, né lavanderia ma racchiudono in sé tutte le esigenze, a volte non del singolo ma anche di quelli che per una ragione o per l’altra, con più o meno amore, attendono il ritorno a casa dell’uomo con la camicia rosa e di quello più alto, per capire come le esigenze basilari del giorno successivo possono essere affrontate, o meno. Per loro, quei 10 equivalgono a cinque viaggi attraverso la città in un taxi collettivo, a dieci stuzzichini comprati per strada, a ben cinquanta arance. E nella distanza tra le mie tariffe e le loro passa quel fossato che l’antropologo dovrebbe cercare di varcare ma che intrappola molti, come già spiegato, nella comodità degli ambienti protetti, soprattutto quando ci si muove per brevi periodi e se si va a convegni.
Rimaniamo di nuovo soli io e Gideon e mi accorgo che l’impressione sfuggevole che avevo avuto durante la presenza dell’uomo con la camicia rosa e di quello più alto, era confermata, addirittura amplificata rispetto alla sensazione iniziale: Gideon era alterato, arrabbiato, scostante. Nascono qui una serie di incomprensioni comunque riconducibili a problematiche esistenziali — qualcuno forse direbbe profonde. Faccio difficoltà a narrare con precisione — non tanto i frammenti di frasi e il significato, che riporto infatti qui sotto come me li ricordo – ma il senso di quella emotività di quella comunicazione poco serena che ci porteremo avanti per un po’. You think I am afraid?.(pensi che abbia paura?); They can’t treat you like that while I am here (non possono trattarti così mentre sono qui); I see you are afraid (vedo che hai paura). Sembrava offeso, offeso dalla mia paura o forse dal suo silenzio. Ma mi fermo qui nell’analisi della scostanza di Gideon perché a volte — soprattutto se le emozioni non sono chiare — come in questo caso — si rischia di dare a sentori arbitrari il peso di verità, il che, per di più quando si parla di qualcun altro, è proprio poco corretto.
Più o meno a questo punto della sequenza temporale, ho pensato che potevo raccontare questo pomeriggio e questo pensiero mi seguirà fino a quando entrato nella stanza decido di accendere il computer piuttosto che svolgere altre attività che, lo riconosco, sarebbero state altrettanto utili, o forse di più, come farsi una doccia, lavarsi le scarpe, preparare la presentazione per il giorno successivo. Questo è — come è ovvio a chi sta leggendo — il semplice racconto di un pomeriggio che ha dato spunti di riflessione e che ho voluto cercare di condividere, senza per questo che il lettore debba presupporre che chi scrive lo ritenga un momento speciale o eclatante da alcun punto di vista, se non nella particolarità irripetibile delle emozioni che ha suscitato.
Nel buio, senza scambiare parola, camminiamo ormai da un po’. Cercavo con insistenza – senza vederle – sopra il muro di vegetazione, le luci che annunciano le case e la strada. Gideon era avanti in quella che era la giusta collocazione per quel percorso. Lì dove si cammina per sentieri stretti, in cui non ci si può affiancare per scambiare due parole — anche se quel nostro viaggio di ritorno non suscita voglia di conversazione in nessuno di noi due — l’ordine di precedenza, non è casuale. Chi conosce la strada va avanti per evitare incertezze e ritardi che sorgerebbero inevitabili se — ad ogni incrocio — il compagno, ignaro della direzione, posizionato avanti dovesse attendere che chi sta dietro specifichi la via corretta. Stavo quindi dietro. Gideon si ferma e fa per lasciarmi sfilare avanti mettendosi sul ciglio del sentiero ma mi fermo anche io, perplesso. Dice Ah! You don’t want to walk forward! You’re afraid. You want me to stay in front (Non vuoi camminare avanti! Hai paura. Vuoi che rimanga io avanti). Camminare dietro aveva questa innegabile caratteristica: da dietro si controllavano i movimenti di chi, invece, vede solo la strada di fronte a sé e non riesce a scorgere le volontà, i pensieri ma soprattutto i movimenti di chi gli sta dietro. Anche questo gesto, ho fatto difficoltà a comprenderlo. Poteva forse essere un modo, un po’ scorbutico a giudicare dal tono di voce, per rammentare al bianco la sua inadeguatezza e fragilità.
Arriviamo infine alla luce artificiale dei lampioni e qui si separano le nostre strade. La fine di un incontro — così come la fine di un racconto — può assumere forme diverse a seconda del momento e della profondità del rapporto, e quello, come ho cercato di far capire a Gideon, poteva esaurirsi in una pacca sulla spalla, visto che le strade incrociate durante quel pomeriggio sarebbero presto tornate a muoversi in direzioni divergenti senza aver alcun elemento per poter presupporre ragionevolmente che si sarebbero trovate nuovamente vicine in un prossimo futuro. Gideon la vede diversamente, anche se non si riesce a specificare il momento di un prossimo incontro, dobbiamo perlomeno scambiarci i rispettivi indirizzi perché potremo voler comunicare. Ci guardiamo: chi deve cercare il necessario per scrivere l’indirizzo, il numero telefonico e la mail? Tocca a me, uomo di lettere e di penne che sacrifica — dopo attenta considerazione della carta disponibile, ovvero la ricevuta del bagaglio perso nel volo del giorno prima, i fogli stampati con l’intervento del giorno successivo e un libro, l’ultima pagina bianca di quest’ultimo, e quelle pagine lasciate vuote — quasi a disprezzo della carta — acquistano ora un altro senso. Sto attento alla calligrafia, cercando una scrittura precisa, rotonda e leggibile perché ero stato più volte accusato di lasciare indirizzi con una calligrafia veloce e quindi poco chiara. E mentre scrivo e aspetto che Gideon lasci — a sua volta – il suo recapito, penso che di questo pomeriggio l’unica testimonianza, la sola traccia materiale — libera dalle sensazioni personali, per di più falsate dalla fumata – era quel pezzo di carta che ora tagliamo a metà, con ciascuno che si appropria di quella redatta dall’altro. Con la differenza che io racconto, suggerisco, giudico, quantifico, spiego, insomma scrivo le mie impressioni di questo pomeriggio, mentre la voce di Gideon è assente da questo racconto, se non nella selezione fatta da me.
Tornato in Italia, mentre rileggevo e ritoccavo questo scritto mi sovviene il senso di quell’indirizzo, di quel contatto, un numero di telefono e una mail, lasciatami da Gideon. Gli scrivo, chiedendogli il suo racconto di quel pomeriggio, da affiancare al mio. Non ho risposta. Gli telefono ma risponde una voce lontana che, nonostante le mie insistenze, al nome di ‘Gideon’ risponde in maniera svogliata e incomprensibile. Il racconto del nostro incontro rimane quindi visto da un’unica prospettiva, la mia. Sono in attesa che altre voci, altre visioni troveranno modo e spazio per raccontare sensazioni, momenti e un pomeriggio con un bianco.
[Fine]