di Francesco Lo Duca
[La ricorrenza del ’77 ha causato l’uscita di numerosi libri di vario interesse, tra cui opere di narrativa. Abbiamo già segnalato l’eccellente Insurrezione di Paolo Pozzi. Altrettanto vero e avvincente mi pare un romanzo di Francesco Lo Duca, Guai a chi ci tocca, ancora in cerca di un editore. Lo Duca, militante libertario, partecipò al ’77 bolognese da protagonista. Lo racconta senza infingimenti, con profondo realismo e un costante senso dell’humour. Riporto, del suo lavoro, il primo capitolo, in cui l’uccisione di Francesco Lorusso, l’11 marzo, è narrata da uno che vi assistette. Mi auguro che un romanzo così non rimanga inedito a lungo, se non altro per il suo valore storico.] (V.E.)
Caterina è già in piedi da tre ore, quando decide di rompere gli indugi e aprire la porta della “caverna”.
Il rumore dell’aspirapolvere e la luce del giorno irrompono violentemente nell’ambiente pregno di una puzza solida, quasi corporea fatta di fumo, di piedi marci e chissà che altro.
Un lamento sepolcrale promana dall’intrico di coperte che sembra appena uscito dalla centrifuga.
– Ma che cazzo!! Non si può mai dormire in questa casa. Cos’è ‘sto casino? Sembra di essere in un cantiere –
La santa donna rimane interdetta per qualche istante; annichilita, come sempre, dalla faccia tosta di quel figlio fancazzista ideologico, tiratardi recidivo e pure un po’ drogato, ma solo nel tempo libero.
– Oh, Oh! Giovanotto! Sono quasi le dieci e io sgobbo da tre ore. Ma tu all’Università non hai mai lezione? Dai, alzati che la colazione è pronta da secoli e ti voglio fuori dalle scatole entro 30 minuti. Qui c’è gente che lavora…-
Grugniti animaleschi sottolineano la contrarietà di Rocco per quella levataccia quasi ancora nel cuore della notte.
In tre minuti si lava e si veste, ingolla un caffè e mezzo biscotto, mentre la radio in sottofondo diffonde la cantilena di “Alla fiera dell’Est” di Branduardi, bacia la mamma e schizza fuori. Un salto veloce a recuperare dall’imbosco un mezz’ etto di fumo che deve portare in una casa di compagni del collettivo di Giurisprudenza in Via Del Carro.
Ventotto minuti dopo essersi svegliato il rombo dello scarico diretto del Ducati scrambler copre gli improperi di Egidio, il salumiere all’angolo.
“Fanculo, bottegaio di merda” l’usuale ma opportunisticamente inespresso pensiero che ogni giorno, immancabilmente, accompagna la partenza di Rocco e gli improperi del salumaio.
La strada scorre mentre Rocco distrattamente lancia occhiate a destra e a manca, quasi a volere controllare che tutto sia ancora al suo posto, come ieri, oppure che qualcosa di particolarmente schifoso sia sparito nel nulla e per sempre.
Sui muri della piazzetta di fronte al supermercato PAM resistono due scritte rassicuranti: CONTRO IL CAPITALE LOTTA CRIMINALE firmata con una stella a cinque punte e RIPRENDIAMOCI CIO’ CHE PRODUCIAMO con in calce la A cerchiata.
“Se fosse stato per me avrei scritto direttamente BOMBE, SANGUE, ANARCHIA così il messaggio era chiaro e vaffanculo”. Pensieri in libertà di chi si è svegliato male.
Piazza Verdi è in piena attività. Gruppi di studenti bivaccano esausti dopo le prime ore di lezione. Il bar Piccolo dalle prime luci del giorno mesce litri di prosecco e aperitivi della casa al proletariato giovanile assetato che alle undici del mattino mostra già evidenti segni di astinenza etilica; le cucine del Cantunzén emanano effluvi odorosi di lusso, da 20 sacchi al piatto – Bastardi – le due aule occupate pullulano.
Dal Bunker, “covo” degli autonomi di Rosso, entrano ed escono nugoli di kinder-truppen con aria cospirativa, tutti concentrati sulla “linea” appena ricevuta per la manifestazione nazionale dell’indomani a Roma.
La scadenza è stata lanciata da tempo. Dalla fine di febbraio il movimento si era esteso a livello nazionale. Moltissime erano le scuole medie superiori e le facoltà universitarie occupate o in stato d’agitazione permanente. Si tenevano forme di autogestione e studio collettivo sulle parole d’ordine del movimento incentrate contro la politica dei sacrifici, la gestione dell’ordine pubblico, la ricomposizione di classe che per la prima volta contrapponeva i lavoratori “garantiti” alle nuove figure di proletari che entravano in fabbrica senza tutele né prospettive occupazionali stabili. Gli studenti, dal canto loro, giudicavano la scuola e l’Università una sorta di area di parcheggio il cui sbocco erano precarizzazione e sottoccupazione.
Il 5 marzo a Roma c’era stata la manifestazione per Panzieri, condannato a nove anni di galera per concorso morale nella morte di un fascista.
All’ultimo momento, la questura aveva fatto sapere che la manifestazione non era autorizzata. La polizia in forze perquisiva e minacciava chiunque si avvicinasse.
Poi improvvisamente i carabinieri avevano caricato sparando lacrimogeni ad altezza d’uomo. Erano iniziati subito gli scontri che si erano presto allargati all’esterno dell’Università determinando un salto di qualità nella partecipazione attiva da parte di tantissimi che non volevano più delegare alle strutture organizzate dei servizi d’ordine la gestione della piazza.
Sui giornali si erano poi lette le testimonianze dirette dei partecipanti. “Radio Città Futura ha svolto per la prima volta la funzione di tam-tam, comunicando i luoghi degli scontri, la dislocazione dei reparti di polizia. La gente ha seguito con le radioline, ha telefonato, si è scambiata le informazioni su come andavano le cose, gli scontri. C’erano i compagni che sabotavano i semafori per creare degli ingorghi, una grande creatività spontanea.
Il movimento non ha una pregiudiziale volontà di scontro, vuole affermare il diritto alla propria agibilità politica. Di fronte alla polizia che massacra i compagni appena può, lo scontro è una necessità per sopravvivere. In questi giorni a Roma frequentare l’Università è come andare in prima linea”.
Erano giorni in cui in tutta Italia si svolgevano grandi mobilitazioni regolarmente attaccate dalle forze di polizia con brutalità crescente. Feriti, arresti e pestaggi particolarmente violenti erano ormai all’ordine del giorno.
L’atteggiamento di scontro fortemente voluto dal Ministero dell’Interno e avallato, dopo la cacciata di Lama a Roma, dal fronte sindacale e dal PCI caratterizza i preparativi della manifestazione nazionale che si preannuncia “caldissima”.
Di fianco al bunker la serranda degli ex Collettivi Politici Studenteschi è abbassata a metà. Segno evidente di attività non propriamente pubbliche in pieno svolgimento.
Dentro il CPS la puzza di benzina è quasi oltraggiosa. Rocco, ancora sulla porta, viene arpionato da Leo, il cucciolo del Wild Bunch: 17 anni, quasi due metri, studente medio di buona famiglia sempre incazzato come una bestia.
– Oh, Rocco era ora che arrivassi. Non è che ti stai imborsendo ultimamente? Quelle checche del collettivo di lettere non ci hanno ancora restituito la tappatrice e ci sono quasi quindici bocce da chiudere. Comunque Rosco è andato a recuperarla –
Rocco non gradisce l’accoglienza e soprattutto non gli è mai piaciuto il tono con cui Leo apostrofa chiunque non appartenga al suo branco. Sono tempi duri: le femministe s’inviperiscono immediatamente al solo sentire pronunciare certe parole; i gay sono pronti a cavarti gli occhi, tra un sorriso e un sospiro; gli spioni accampano ovunque.
Una landra di toscanazzo pestilenziale invade il locale precedendo l’ingresso del Rosco col solito mozzicone ciancicato in bocca. Trionfale con la tappatrice riconquistata in mano tiene la porta aperta per fare largo a Tugu e Ralf che trascinano un bidone del rusco pieno per metà di sanpietrini.
– Dai, maremma maiala! Chiudiamo le bocce e portiamole via. Io vo’ a prendere i tappi a corona –
Il Rosco in versione efficientista è micidiale. Si ferma solo per attaccarsi all’ottima canna di nepalese il cui aroma pieno e profondo tenta timidamente di arginare i miasmi di benzene misti a trinciato forte, birrazza di ultima e toscano.
– Oh! Codesto nero gli è proprio bonino. A proposito, dopo dobbiamo fare i conti del fumo venduto e dei soldi —
Il commercio del fumo tra i compagni, da sempre, è assolutamente indipendente da organizzazioni criminali. Il fumo che gira in Piazza è portato, in quantità che vanno da uno a dieci chili, da gente, compagni o frikkettoni per lo più, che se lo vanno a prendere, in Olanda, in Marocco, in India, in Nepal o in qualunque altro luogo di produzione. Viene poi diviso e ridiviso, in vari passaggi successivi, fino alle “stecche” che a centinaia si scambiano ogni sera in Piazza e in giro.
La politica di gestione dal basso della circolazione delle sostanze in fondo è semplice. Organizzare collettivamente l’ acquisto e la vendita del fumo per ricavarne il necessario per fumare gratis. La qualità è ottima, i “prezzi politici” sono bassi e tutti vivono felici.
– Un momento… prima di fare i conti volevo dire una cosa – Giordano deve alzare la voce per sovrastare il brusio dei dieci-quindici compagni indaffarati nella preparazione dei più disparati strumenti di autodifesa.
– Giulio e un’altra decina di compagni sono andati all’aula di anatomia per tentare di intervenire all’assemblea dei ciellini – Silenzio interrogativo per alcuni secondi nel CPS/santa barbara.
– Ma se l’è portato il napalm per “intervenire”? – Risate sguaiate e commenti truculenti nel CPS/tavernadimalaffare. E l’operoso casino ricomincia.
Rocco diligentemente allinea a scalare cinque antivento sul fusto di ogni bottiglia e li blocca con tre giri di nastro e intanto pensa alla parte più rischiosa. Toccherà a lui trasportare tutta la roba in macchina fino a Roma durante la notte mentre gli altri compagni viaggeranno sui pullman. Si caga addosso forse come mai prima, ma si è offerto perché è l’unico che a Roma può contare su una base di appoggio sicura fino alla partenza del corteo.
Tutto è ormai quasi pronto. Bocce, Stalin, fionde e quindici Usag 36 lunghe nuove di zecca, appena espropriate dal proletariato in lotta.
“Ma no, i sanpietrini no. Cazzo facciamo adesso, ci tiriamo dietro pure le pietre per mezza Italia, e poi, se non ci sono sanpietrini a Roma…”
Si spalanca la porta con uno schianto che manda quasi in frantumi la vetrata ed entra trafelatissimo Mimmo, del collettivo di Magistero.
– Porcoddio compagni! I ciellini hanno scaraventato fuori dall’ assemblea Giulio e gli altri; bisogna aiutarli –
– Naaa! Si sono fatti menare da quelle borse di ricotta di CL – E’ ancora il cucciolo Leo, con impeccabile eleganza lessicale, a commentare il ferale aggiornamento.
Non frega un cazzo a nessuno della faccenda dell’assemblea, ma è del tutto inconcepibile e intollerabile che i ciellini, radicatisi dentro l’Ateneo solo in forza dei cospicui finanziamenti della Curia, alzino la cresta, e le mani, dopo che sono sempre stati buttati fuori dall’università a calci in culo.
Un rapido conciliabolo e in tre partono per dare manforte, un’altra decina di compagni dei collettivi si uniscono lungo il breve percorso fino in via Irnerio.
Rocco è il primo del gruppo ad arrivare. Vede Giulio ed altri tre o quattro, pesti e doloranti, urlare inferociti contro un muro invalicabile di chiesaroli che bloccano l’entrata all’aula.
– Oh, Rocco. ‘Sti stronzi ci hanno menati e buttati fuori appena ci siamo fatti vedere. Gli altri sono venuti in piazza Verdi a chiedere aiuto –
Rocco non dice nulla, s’infila i guanti e respira a fondo per controllare il tremito che l’esplosione di adrenalina gli provoca. Poi stringe i pugni e si lancia contro il muro umano.
All’inizio nessuno reagisce, molto cristianamente. Prendono calci e pugni, cadono e si lamentano ma tengono serrati i ranghi. Un tale ipocrita spirito al martirio fa inferocire ancora di più l’esiguo numero di “aggressori”. I ciellini, stufi di prendere cazzotti in bocca cominciano a reagire; non l’avessero mai fatto. Rocco non tenta nemmeno di parare i colpi, “chissenefrega bastardi”, alza il tiro dei calci dagli stinchi ai coglioni e colpisce a mani aperte: dita negli occhi e colpi di taglio alla gola.
C’è un lieve sbandamento nelle fila dei martiri e i compagni spingono aiutati da chi nel frattempo si è aggiunto; un tizio ormai di fianco a Rocco tenta di acchiapparlo e si becca una gomitata in faccia. Cade a terra. C’è un sussulto dei clericali che riescono a respingere l’attacco e a rinserrare le fila.
Intanto da fuori rimbalza la notizia che sta arrivando la polizia; pare che il Rettore Rizzoli, su pressioni dei ciellini, abbia richiesto l’intervento dei carabinieri.
Tutti i compagni, tra insulti e urla, lasciano il campo di battaglia per portarsi all’esterno di Anatomia, su Via Irnerio.
Dalla direzione di Piazza VIII Agosto si scorgono, ancora lontani, i lampeggianti blu che indicano il procedere di una colonna di gipponi e camionette.
Il numero dei compagni è aumentato, richiamati dal passaparola. Tutti girano in tondo non sapendo bene che fare. Risuonano le invettive contro i ciellini asserragliati nell’aula magna che occhieggiano dalle finestre antistanti la strada.
Quando il convoglio di mezzi arriva gli sbirri scendono velocemente e senza dare corso alle consuete coreografie di inquadramento e schieramento entrano nel cortile di Anatomia; invece di iniziare le prevedibili manovre di contenimento e allontanamento dei manifestanti cominciano a manganellare furiosamente chiunque si trovi a tiro e partono i primi lacrimogeni, tutti ad altezza uomo, in direzione del gruppo di compagni che era all’interno di Anatomia e che nel frattempo si era spostato, precauzionalmente, verso Porta Zamboni. Un ragazzo giovanissimo è colpito all’addome, per fortuna da lontano, ma cade semisvenuto.
Mentre il malcapitato viene soccorso inizia a farsi strada l’idea, ma forse ancora di più la sensazione, che le cose non stiano procedendo secondo gli schemi ormai da tempo conosciuti.
Viene improvvisato un blocco con cassonetti messi di traverso e inizia una scaramuccia a distanza con i pochi sassi e calcinacci reperibili. L’aria si riempie del solito fumo amaro.
Poi i caramba, dopo avere gasato ben bene tutti, accennano una carica e i compagni che appartengono ai servizi d’ordine si defilano con calma verso Piazza Verdi.
– Dobbiamo organizzarci un attimo e rifornirci di roba. Che cazzo gli ha preso oggi? Sono più stronzi del solito..-
– Ma si, avete visto come ci hanno aggredito a freddo? Nessuno stava facendo un cazzo in quel momento… A parte gli slogan —
A fronteggiare i caramba restano i soliti poveretti bersagliati dalla sfiga, non inquadrati, o semplici curiosi casuali a prendere mazzate.
La voce degli scontri ormai si sta spargendo per tutta l’Università e Piazza Verdi è più in agitazione del solito; le normali attività, aperitivi, musica, cazzeggi si bloccano ed è tutto un vociare, un girare tra i vari capannelli. Dal CPS e dal Bunker sciama gente in continuazione; i presenti entrano nelle sedi occupate a mani vuote e ne escono coi tascapane pieni e inquietanti sporgenze sotto gli abiti. I compagni di Rocco gli si avvicinano e chiedono ragguagli.
Tutto si svolge in pochissimi minuti, poi un gruppo riparte in direzione di via Irnerio. Percorre velocemente e in silenzio via Belle Arti e svolta nella stradina successiva a Via Centotrecento in fondo alla quale è ferma la testa della colonna di camionette. L’ansia per lo scontro imminente provoca brividi e fiato corto; il cuore comincia a battere freneticamente.
Un conto è difendersi da una carica o scappare, cercando di non farsi prendere dal panico e di non finire in trappola; cosa ben diversa è disporsi a un attacco mantenendo la lucidità e la determinazione necessarie al buon esito del “mordi e fuggi”. Rocco ha a fianco Sergio di Senza Tregua, Gigi ex di Lotta Continua e due compagni del Mucchio.
Appena imboccata la laterale di via Irnerio vedono in fondo, sulla strada principale, il gippone di carabinieri che apre la colonna di mezzi. I caramba sono tutti voltati verso Anatomia e non possono scorgere il gruppetto che si avvicina quasi strisciando lungo il muro.
Arrivati ad una trentina di metri i carabinieri si accorgono del tentativo di sorpresa da parte degli “incursori” e partono i primi lacrimogeni. Rocco rapidamente accende gli antivento della boccia che ha in mano e la scaglia.
Obbiettivo centrato, la jeep telonata prende fuoco; altre due molotov fendono l’aria e s’incendiano creando un effimero sbarramento. Tutti stanno già correndo, in senso contrario, lungo la strada appena percorsa.
D’un tratto si sentono alcune detonazioni diverse da quelle dei lanciagranate, più attutite, come di arma corta.
Neanche il tempo di realizzare cosa stia succedendo e Rocco sente due/tre sibili vicinissimi alla testa.
Sparano!
Anche Sergio, appena intuito che a fischiargli attorno è piombo caldo e non sospiri d’amore, senza esitazione si butta a terra strisciando velocemente dietro una macchina.
Rocco non pensa, sente solo tutti i peli rizzarsi, come fossero aculei scagliati da un istrice in pericolo. Un brivido violentissimo lo scuote per una frazione di secondo. Prima di cedere al panico riesce a scaraventarsi a pesce dentro l’unico portone aperto.
La strada è invasa dal fumo dei lacrimogeni e non si vede a un metro. Tutto sommato è un vantaggio perché è evidente che nemmeno gli sbirri vedono e, meno che mai, sono in grado di prendere la mira per continuare il tiro al bersaglio.
Un silenzio innaturale incombe tutt’intorno dove fino a pochi istanti prima urla, sirene e spari graffiavano le carni molli della Bologna grassa, laida e bottegaia. Rocco ansima, fatica ad ascoltare il silenzio sopra il battito impazzito del cuore che urla: “Basta! Questi sparano per davvero; adesso arrivano, s’incazzano come bestie perché gli hai incendiato il gippone e ti ammazzano come un cane. Scappa, molla questo delirio, se ti ammazzano finisce tutto. La vita, il mondo, l’universo non esistono più. Tu non esisti più. Scappa adesso, vatti a nascondere, che te ne fotte della rivoluzione. Lascia che si faccia ammazzare qualcun altro; quando sei morto è tutto finito, tutto inutile. Un martire in più che sarà ricordato per un giorno, un anno, per sempre forse ma che importa? Tu non ci sarai più, sarai solo una foto, solo un nome in mezzo a migliaia di altri. Tutti morti per niente”.
Il tempo del monologo cardiaco dura una manciata di secondi, troppo pochi per fare breccia nella irriducibile determinazione rivoluzionaria che gl’impone di riprendere il controllo della situazione.
Rocco raccoglie tutto il coraggio che ha, o che crede di avere, e butta un occhio sulla strada; nessuno. Silenzio. Ancora e solo fumo.
Striscia piegato lungo il muro, l’auto sotto cui si era buttato Sergio è sempre là, ma lui no, è già scappato; vuol dire che la strada è sgombra. Corre verso Belle Arti, gira l’angolo da cui era provenuto e si blocca con le spalle contro il muro. “Fuori tiro”.
In lontananza scorge sagome di studenti che si agitano. Una certezza, per quanto precaria, gli infonde coraggio; è ancora vivo, l’ha schivata solo per culo; l’appuntamento con le anime dannate per ora è rinviato.
E’ il gruppo di compagni reduci dall’assemblea di CL quello che staziona in via Belle Arti, all’angolo con Via Mascarella.
– Oh, compagni – grida Rocco mentre si avvicina ancora stravolto – I caramba ci hanno sparato. Ci hanno sparato cazzo! A me e a Sergio. Non ci hanno beccati per miracolo. –
– Ma che cazzo dici Rocco? – è isterico il tono di Giulio mentre urla la domanda corale del capannello che si è formato attorno a Rocco, lo scampato.
– Ho sentito tre-quattro proiettili fischiarmi vicino alla testa. C’era Sergio vicino a me. Dov’è? Lui si è buttato sotto una macchina e io dentro un portone. Cazzo, compagni, ci hanno sparato! Quei bastardi cercano il morto – Sono paura, rabbia, adrenalina, gas dei lacrimogeni e odore di morte che solcano di lacrime brucianti le guance di Rocco; la voce ora è calma, lontana.
– Dobbiamo fargliela pagare, muoviamoci. Tu Andrea vai in Piazza Verdi e chiama tutti quelli che trovi. Ci rivediamo all’altezza del Picchio – Giulio parla a scatti secchi e nervosi, ma il tono è fermo. E’ uno dei leader del movimento, come lo era stato di Lotta Continua; quando l’organizzazione si era sciolta anche a seguito della volontà di parte del gruppo dirigente di farsi partito e partecipare alle elezioni politiche del 1976, quelle famose del “mancato sorpasso”, aveva scelto di dare vita, insieme ad altri compagni di collettivi autonomi, della IV Internazionale, anarchici e molti cagnacci sciolti al Collettivo Jaquerie .
Andrea non fa domande e non discute. Parte di corsa attraverso piazza Scaravilli; gli altri si guardano in faccia. Lentamente, come animali in pericolo si scrutano a vicenda; ognuno cerca negli occhi degli altri la sua stessa rabbia, l’odio ed il coraggio per l’azione. Rischiare la pelle insieme dà forza, infonde l’esaltazione necessaria per non soccombere alla paura. E all’istinto di conservazione.
La forza per muovere le gambe, pesanti come macigni, viene dalla certezza granitica di lottare per un’altra vita, mettendo in gioco la propria pelle collettivamente.
E’ la consapevolezza d’incarnare un ruolo vitale nel processo storico che attraverso i secoli ha cambiato i nomi dei protagonisti, sfruttatori e oppressi, senza cambiare mai la sostanza, l’illusione di poter distruggere la gabbia e liberare tutti che alimenta il coraggio di affrontare i fucili del nemico, quasi a mani nude.
Esistono solo la necessità e l’urgenza di rovesciare i rapporti di produzione esistenti, di imporre la riappropriazione del profitto rapinato dai padroni, di reclamare diritti e salario garantiti, al di là della dimensione del lavoro salariato, mito ormai solo per quei rincoglioniti del sindacato e della loro “aristocrazia operaia”, dei burocrati del PCI, tragici attori fuori tempo massimo della politica dei sacrifici e dell’ austerità, come al solito a senso unico.
La tensione cresce ogni secondo che passa, sequenze vissute come sempre nell’ intercapedine della coscienza tra il sogno e la riluttante consapevolezza del pericolo incombente che diventa realtà.
Rocco ripete gesti apparentemente normali, come accendere una sigaretta, annodarsi il fazzoletto attorno al collo o infilarsi i guanti che gli sembrano immagini al rallentatore viste dal di fuori; il respiro ricomincia a farsi corto e sente il battito del cuore rimbombare nel cervello fino ad appannargli la vista. Ma ancora una volta non c’è tempo per cedere alla lusinga del dubbio e alla tentazione di mollare il colpo, girare i tacchi e salutare la compagnia.
Arriva quasi di corsa Andrea seguito da una decina compagni raccolti in Piazza Verdi. Rapidissimo capannello: il tempo di fare il punto della situazione e decidere che fare.
– In fondo a Via Mascarella c’è la coda della colonna di gipponi dei caramba. A Porta Zamboni ci sono ancora scontri e la “madama” è tutta impegnata da quella parte. Noi arriviamo in silenzio, gli tiriamo pietre e bocce poi torniamo all’Università e cerchiamo di radunare più gente possibile – Giulio non ha molto da aggiungere, guarda i compagni attorno a sé e fa il gesto di avviarsi.
– Oh, compagni – Rocco blocca per un istante il gruppo in partenza – ricordatevi che quelli oggi sparano. State attenti cazzo! Rimanete sempre coperti dalle colonne – Sussurri, imprecazioni a mezza bocca e il gruppo si muove. Nessuno ha bisogno di parlare, tutti sanno bene quello che devono fare. Solo il rimbombo attutito di anfibi e scarponi rompe il ritmo tranquillo di una strada tranquilla nel quartiere universitario della città più “libera” e benestante d’Italia, modello di civismo e buon governo che il mondo c’ invidia…
Rocco si muove con cautela, si sposta da una colonna all’altra fino in fondo alla strada, fino a vedere sulla destra, in Via Irnerio, gli ultimi mezzi della colonna fermi in mezzo alla strada.
I compagni escono allo scoperto pur restando sotto il portico, inizia il lancio di sampietrini e in breve i carabinieri realizzano di essere attaccati alle spalle. Movimenti concitati di sbirri a non più di trenta – quaranta metri. Rocco, riparato dall’ultima colonna, lancia due pietre e una boccia che s’incendia sull’asfalto a una ventina di metri. Sapeva di non potere fare danni ai mezzi troppo distanti ma voleva creare una barriera di fuoco tra gli sbirri e il gruppo.
Leggermente avanti spostato sulla destra, Rocco vede Giulio esporsi esageratamente; lo sente urlare istericamente – Bastardi! Assassini! – Lo vede scagliare un sampietrino, talmente accecato dalla collera, che il sasso colpisce il capitello della colonna quasi di fronte a sé. Continua a urlare e scaglia un altro sasso. Di nuovo centrata la stessa colonna.
Rocco tenta di scalfire la tensione altissima, e la sua paura, con una battuta – Mo’ va a cagare Giulio, che mira di merda. Piuttosto, stai dietro la colonna che è meglio – Poi, convinto che l’azione sia ormai finita e che sia assolutamente il caso di ritirarsi, prima che gli sbirri abbiano troppo tempo per contrattaccare, prende a ripercorrere Via Mascarella a ritroso, colonna dopo colonna.
Tutti in effetti si stanno ritirando seguiti dal solito lancio di lacrimogeni.
Poche decine di metri poi un crepitio sinistro di colpi, troppo diversi da quelli dei lanciagranate e troppo simili a quelli sentiti vicinissimo alle orecchie pochi minuti prima. Rocco rabbrividisce e s’incolla ancora di più alla colonna più vicina.
Il fumo invade la strada e i portici improvvisamente deserti, il cielo è grigio, pesante, sembra essere sul punto di rompere in un pianto premonitore.
– Mi hanno beccato –
Parole irreali, quasi da copione cinematografico che non sanno fotografare l’immagine della morte, quella vera, quella che non ha niente d’irreale né di cinematografico.
Tre parole. Francesco fa qualche passo, cade in avanti, sotto quel maledetto portico che porterà per sempre i segni della mano assassina di uno sbirro che ha preso la mira con calma, con la fredda determinazione di ammazzare. Non perché ha perso la testa per paura dell’aggressione subita, non per difendersi da nemici praticamente disarmati e neanche perché gli è partito accidentalmente un colpo, vigliacca menzogna troppo spesso spacciata dalle cronache dei giornali per “raccontare” la sommaria esecuzione di compagni nelle piazze.
Francesco viene raccolto e trascinato fino quasi davanti al cinema. E’ supino, non dà segni di vita. Rocco è in piedi davanti a lui, inebetito come tutti. Qualcuno bestemmia, urla di chiamare un’ambulanza, frasi spezzate che rimangono nelle gole bruciate dal fumo, una compagna piange col viso appoggiato al muro, come per sfuggire all’immagine della morte. Rocco vede che Francesco respira… forse ce la farà… tra poco arriverà l’ambulanza. Dài cazzo, resisti.
Una macchia rossa si allarga sul fazzoletto che ancora nasconde il viso di Francesco.
Francesco sta morendo. Hanno ammazzato il nostro compagno.
Un impulso collettivo percorre impellente tutti i compagni inebetiti dallo sgomento. E’ un grido silente che esplode dentro ognuno – Torniamo in fondo a quella strada e facciamogliela pagare. Adesso, subito! Ci ammazzino tutti, quei bastardi assassini, ma devono pagarla. Adesso, subito! –
Tutto sembra fermo tra Via Mascarella e Via Belle Arti.
Nessuno tornerà in fondo a quella strada. Pagheranno caro, certamente non tutto, ma non adesso, non subito.
Arriva l’ambulanza. Non sono trascorsi più di cinque minuti dall’omicidio, ma il deposito è proprio lì, in Via Belle Arti e portano via il corpo di Francesco.
L’espressione dei volti di chi rimane è più eloquente di qualunque parola che possa essere pronunciata; l’abisso della follia pare attraversare quegli occhi rossi di pianto e di gas, pieni di orrore.
Giulio è il primo a parlare con la voce rotta dalle lacrime – Convochiamo subito un’assemblea a Lettere. Bisogna avvertire le radio, l’ANSA. Dobbiamo preparare una manifestazione dura, che faccia pagare il prezzo più alto possibile agli assassini di Francesco. La Democrazia Cristiana –
Rocco percepisce il senso pieno delle parole di Giulio. Con poche sfumature è quello che pensano tutti i compagni presenti e che senza dubbio condivideranno tutti quelli che arriveranno appena saputo. Sente brividi gelidi percorrergli a tratti tutto il corpo e vorrebbe solo urlare la disperazione di avere visto uccidere un suo fratello.
L’immagine violenta di se stesso là per terra, al posto di Francesco, gli esplode come un lampo davanti agli occhi che lo fa ridestare dallo stato di prostrazione che stava per avere la meglio sulle rovine della sua capacità di ragionare con lucidità. Prova a mettere in fila le cose da fare immediatamente; per prima telefonare a casa tentando di rassicurare i vecchi. Caterina morirà di paura è ovvio, ma nessuna rivoluzione si è fermata davanti alle lacrime delle madri, e lei, è certo, non dirà una sola parola per tentare di dissuadere Rocco. Anche Mario, il padre poeta per vocazione, anarchico per ineluttabilità intellettuale e oscuro dirigente statale per costrizione, attenderà con l’anima straziata ma in orgoglioso silenzio il ritorno di quell’ unico figlio, irrimediabilmente ribelle.
Seconda cosa da fare raggiungere subito i CPS, aggiornare i compari del WB e decidere insieme come organizzarsi per la manifestazione del pomeriggio.