di Blackswift
Il principio più importante su cui si costruisce molta dell’offensiva culturale e politica della destra moderna è la confusione. Una confusione scientifica tutta mirata a mistificare concetti tutto sommato semplici, ma che con un ragionevole impegno dialettico possano essere vòlti ai propri fini.
Sempre più spesso violenza e sicurezza diventano binomi inscindibili: più sicurezza, meno violenza; più violenza, meno sicurezza. Basta una pennellata al contorno per far diventare la sicurezza non quella di una vita dignitosa e della propria libertà, ma quella dell’esercizio arbitrario dei poteri di repressione e di controllo, nell’illusione che alimentare la pressione in una pentola sigillata non la faccia esplodere ma ne dissipi il potenziale distruttivo.
E la violenza diventa quella rappresentata delle curve dello stadio o di una piazza in cui brucia una piccola barricata.
Puntare i fari in quest’ultimo caso è facile e fa spettacolo, malgrado i protagonisti, e consente di dimenticare la violenza che ogni giorno ci priva di un pezzetto di dignità, quella che rende possibile al datore di lavoro di mia madre di metterla in una scrivania faccia al muro dopo 40 anni di lavoro.
L’immagine è tutto, e manipolare i termini del tessuto sociale è un elemento primario nella possibilità di dominarlo. La destra l’ha capito subito e se da un lato si è attrezzata con un impero mediatico, dall’altra ha lavorato ai fianchi le menti delle periferie, convincendole che la loro vita quotidiana era sbagliata, e che dovevano fare di tutto per sconfiggere il nemico — senza specificare quale.
Così ritrovo ex banditi che al bar invocano l’intervento della polizia contro i rom e i barboni, oppure gente che contrabbanda qualsiasi cosa che si lamenta dei criminali. Come se non fossero loro. Come se non fossimo noi. Come se il problema non stesse da un’altra parte: nella barbarie della vita moderna e dei suoi interpreti principali.
La sinistra su questo terreno parte in ritardo, e negli ultimi anni la corsa a fare la fotocopia sbiadita della destra è qualcosa che fa sorgere sempre un sentimento a metà tra la compassione e il ribrezzo. Viene da chiedersi se le persone che si definiscono di sinistra ce l’abbiano mai avuta una idea delle parole e di come sono state usate nel tempo.
L’altro binomio cavalcato da tutto il “blocco d’ordine” (così qualcuno l’ha definito in maniera interessante a un recente incontro) è Morale e Legge. Qualche vecchia volpe diceva che la legge è l’ipostatizzazione della realtà, ovvero che la legge contribuisce a regolare gli usi e i costumi della società che regola, dopo che questi si sono lentamente consolidati. In realtà nel moderno mondo di cristallo delle false realtà immaginarie, la legge è la tutela della morale, l’ago della bilancia di ciò che è giusto e sbagliato, l’esatto opposto. Con un breve artificio retorico, il mondo si è rovesciato.
Il risultato diretto di tutto questo è che la legge viene usata come una sorta di maglio moralizzatore che dovrebbe mostrarci chiaramente i buoni e i cattivi, evitandoci di pensare. Peccato che poi esistano persone e istituzioni (buone o cattive chi lo sa?) che definiscono l’uso della legge, e se non è il comune consenso civile a definire come farlo, quali sono i principi che li muovono? E’ la risposta a questa domanda la più scomoda di tutte, perché la risposta è: “la conservazione di una élite dominante e di una popolazione docile al sopruso”.
L’11 marzo un gruppo di 200-300 persone circa ha cercato di impedire che circa mille neofascisti sfilassero nel centro della città di Milano. Lo ritenevano sbagliato, perché conservano ancora il ricordo di quanto ha significato per tutti noi la Guerra di Liberazione — anche se pare sia un po’ fuori moda, come testimoniano le uscite della sindaca Moratti sulle lapidi o la libertà d’azione che un gruppo di naziskin ha di accerchiare e sfottere un ex partigiano di 84 anni.
Non riuscendo a raggiungere il corteo dei neofascisti per l’imponente schieramento di polizia in piazza Oberdan (Porta Venezia), i presenti hanno eretto delle barricate e ingaggiato un rapido scambio di lanci con le forze dell’ordine (durato in tutto 30 minuti). Durante la carica che ne è seguita, le forze dell’ordine hanno arrestato 45 persone: un terzo di queste, dopo aver fatto qualche giorno in carcere, sono state rilasciate perché non c’entravano nulla con gli eventi; un’altra decina sono state assolte perché non vi era una sola prova che avessero fatto alcunché; diciotto di questi sono stati condannati a 4 anni (ovvero 8, ridotti a 6 per le attenuanti e a 4 per il rito abbreviato) per devastazione e saccheggio (art. 419 c.p.). Per questi ultimi l’accusa ha trovato almeno una foto che li ritrae travisati in piazza (notare che sono stati sparati decine di lacrimogeni e che anche le persone intorno che curiosavano avevano davanti al volto sciarpe e foulard per proteggersi dai fumi tossici). Solo due o tre di questi sono protagonisti di immagini in cui lanciano uno o due sassi. Nessuno di costoro si e’ reso protagonista di incendi, di lancio di razzi, o di lancio di bombe carta imbottite di chiodi (che non ci sono mai state, dato che la foto a cui viene associata questa affermazione della polizia è in realtà il tipico cartone in cui ti vendono i chiodi a tre punte in un qualsiasi ferramenta). Quattro anni di condanna per essere presenti a una manifestazione in difesa della memoria antifascista di una città che degenera. I naziskin che hanno accoltellato quattro persone fuori dal centro sociale Conchetta di Milano (di cui due ridotte in fin di vita) hanno visto in appello derubricato il tentato omicidio per il reato di lesioni: due anni con la condizionale. Forse l’indicazione è: smettetela di giocare e datevi sul serio alla barbarie. Dovremmo tenerne conto.
La legge è la misura di una falsa moralità che si nasconde dietro giudici e pm per non dover affrontare i contrasti di cui la vita quotidiana è composta, conflitti necessari per sopravvivere. Allora i giudici e i procuratori diventano lo strumento di un nuovo status quo, in cui è la legge a decidere cosa è giusto e cosa no, e non la convivenza tra le persone e il loro “contratto sociale”.
E’ facile per tutti tapparsi le orecchie e non accorgersi che a pagare sono sempre gli stessi, quelli che ancora non hanno capito che la compatibilità è il bene più prezioso, anche a scapito di ciò che reputiamo giusto.
In occasione del processo contro i 29 imputati per devastazione e saccheggio per i fatti dell’11 marzo, complici le elezioni e un sempre più spinto moralismo che confonde violenza e sicurezza, barbarie e legalitarismo, nonché la contemporaneità delle elezioni comunali, nessuno ha avuto la coscienza di affermare che l’uso politico dei reati del codice penale è ormai totalmente fuori controllo. Il comitato dei genitori e i pochi che si sono spesi per difendere le persone accusate sono stati lasciati sostanzialmente da soli, mentre 27 persone (di cui poi 9 assolte) passavano mesi in galera.
Ora, in teoria, sarebbe passato del tempo. Non ci sono più le elezioni. Non c’è più lo shock mediatico di mezza barricata che brucia in mezzo alle vetrine di Milano. Non ci sono più mostri, non ci sono più convenienze e opinionisti improvvisati che mettano tutto insieme in unico calderone di violenza, a cui rispondere con la mania securitaria, per il quale lasciare che la legge regoli il nostro senso di giustizia e dignità. Ora non c’è più nulla di tutto questo, ed è il tempo di rivedere libere persone che abbiamo immolato al nostro finto senso di tranquillità e al nostro desiderio di credere disperatamente alla rappresentazione della realtà che media e politicanti ci presentano, dimenticandoci quanto è diversa da quella che viviamo tutti i giorni e che loro ignorano.
Invece, durante la prima udienza d’appello il Sostituto Procuratore Generale di Milano ha chiesto la conferma della pena per i condannati, senza smorzare minimamente l’impianto accusatorio che pareva vagamente ispirato dal circo mediatico che si era creato un anno e mezzo fa.
Così, grazie a informative, documenti della polizia, dei carabinieri, ancora i Ris, i giudici, così come già a Genova, si apprestano a dare la loro versione della storia. Una versione, una verità che, anziché essere considerata solo una delle tante verità, spesso viene ripresa anche dai media, dai giornalisti, dagli scrittori, come quella “vera”.
Ne abbiamo visti di addetti all’informazioni aggirarsi per le aule di tribunale sempre molto eccitati – e acritici – di fronte a materiale con la dicitura “Questura”, “Uffici della Digos”, così segreti, così proibiti, forse. Li abbiamo visti e sentiti mentre pontificavano e usavano questo materiale per scrivere la storia per le masse, riprendendo una versione dalla storia decisa da una ben specifica parte sociale.
La storia non è quella scritta negli uffici, nè quella scritta dai giudici. “La storia siamo noi”, ma forse anche queste parole, così esaltate ipocritamente anni fa, oggi non sono più spendibili politicamente.