“I fantasmi sono crudeli, con la realtà ci si può sempre arrangiare”. Questa frase diciamo “romantica” la feci mia negli anni ’70: l’epoca non la contraddiceva. Ha ancora un senso quando la cosiddetta realtà si rivela consistere della stessa sostanza di cui sono fatti i fantasmi (più o meno crudeli che siano)? E di che sostanza è fatto un fantasma? Ombra, sogno, eidolon, immagine, come quella della madre che Enea incontra nell’Ade (Eneide, XI), ma quando cerca di abbracciarla dolorosamente svanisce.
Non è la stessa esperienza (rovesciata) che provò il pubblico convenuto al primo film dei fratelli Lumière, quando tutti scapparono alla vista del treno? A parte le analisi pur pertinenti di Jean Baudrillard, l’iper-reale che ha rimpiazzato la realtà di simulacri, ogni volta che ascoltiamo un disco — che sia la voce di Billie Holliday o quella di Mina — abbiamo a che fare con la presenza di un’assenza, diciamo pure un fantasma. L’universo di copie e cloni che inonda la nostra vita tecnologico-estetica, a cui si aggiungono i robot e tutte le inquietanti forme di sostituzione del corpo, sono segni di una fantasmatizzazione della realtà. Senza bisogno di Internet, si parla di fantasmi (secoli prima di Kafka) a proposito delle lettere, e la metafisica della scrittura che rende presenti gli assenti è oggetto di trattati dal I secolo a. C. Ma dobbiamo riconoscere al cinema di essere la più eclatante attestazione dell’esistenza dei fantasmi, materializzazione di quell’ombra dell’Ade. L’equazione cinema-fantasma è così evidente che Orson Welles la celebrò con poetica nostalgia nelle scene del suo magnifico e incompiuto Don Chisciotte, quando il cavaliere si precipita a cavallo contro uno schermo su cui sono proiettate delle immagini. I mulini a vento, o più esattamente i Giganti, non sono altro che (il) cinema. Ora, un sondaggio pubblicato dalla rivista Focus rivela che due italiani su tre ai fantasmi ci crede, e uno su due ne ha visto. Che cosa significa? Dal momento che, Eduardo docet, “siamo noi i fantasmi”, dovremmo abituarci a convivere se non altro con l’inquietudine del vederci dal di fuori, duplicati, estranei, “così vicini e così lontani”, fantasmi appunto. In fondo, anche il concetto marxiano di “alienazione” appare arcaico, e i romanzi di fantascienza paranoica e psico-teologica di Philip K. Dick come documentari. Mi dice Enrico Ghezzi [a sinistra], “il cinema è la punta di un iceberg di un immane apparato di registrazione che segna una svolta nella storia dell’umanità: la possibilità di rivedere la propria vita”.
Tutto questo, e molto altro, è scaturito dall’ultima edizione del Festival “Il vento del cinema” che si svolge ogni anno a Procida, sotto la direzione artistica di Enrico Ghezzi. L’intensa rassegna appena conclusa era dedicata ai temi dell’al di là e del fantasma. Titolo: After life. Film meravigliosamente antiquati e attualissimi alternati al dibattito filosofico (tra i presenti, il filosofo Boris Groys, che citerò tra breve), sullo spettro di sensi di questa formula, after life – “dopo la vita”, ma non necessariamente “dopo la morte”. Continuo a parlare con Enrico Ghezzi anche dopo il festival. Parliamo soprattutto di alcuni film, quelli di Evgenii Bauer (“il primo vero e grande cineasta del fantasma”), i documentari di Frederick Wiseman, il bellissimo film del giapponese Kore-eda Hirokazu, che si chiama appunto After life. Sembra un racconto di fantascienza ma è centrato sul cinema. Nell’ufficio spoglio in cui si ricevono delle persone, solo a un certo punto lo spettatore viene a sapere che tutti i personaggi sono morti, e i nuovi arrivati devono scegliere ognuno il ricordo preferito da vivo, con il quale sarà composto un film. Il resto della memoria verrà cancellato. Girato quasi tutto a piani fissi, il film è una celebrazione della vita ordinaria, perché i ricordi scelti sono immancabilmente comuni. Per questo viene da chiedersi: ma i film sull’al di là non raccontano poi tutti l’immanenza dell’al di qua? “After life” mi fa anche pensare al concetto di Nachleben, o “vita postuma”, tracce cioè di una sopravvivenza, secondo Walter Benjamin. Perché altrimenti non chiamarla “vita-di-fianco”, o archivio?
“Il cinema – dice Ghezzi – può essere pensato come la costituzione di un certo ammasso di after life. E’ il discorso dei fratelli Lumière, costituire un magazzino di piccole immortalità. Ho usato questo termine molto americano, after life, che non è religioso, non indica né una durata né uno spazio, una vita dopo la vita, ma l’indicazione tecnica dei Lumière è molto bella. Da una parte dice la conservazione, una possibilità di tenere dei tempi di vita (io a 10 anni volevo registrare tutta la vita di mia nonna); dall’altro l’uso poliziesco dell’archivio, come controllo. Di fatto però questo meccanismo di controllo, questo ri, della registrazione, è un inveramento-avveramento di tutte le prospettive after, anche quelle religiose. Il mondo col cinema (con la registrazione, la fotografia), comincia a un certo tempo a ri-vedersi. Pensa alle fotografie di Muybridge, come la famosa fotografia del galoppo del cavallo. Per la prima volta, a partire dalla fine dell’Ottocento, l’umanità ha la possibilità di un ri-vedersi tecnico, rivedersi ed essere visti da altri. Da quel momento il mondo si scinde. La mia deduzione forse eccessiva è che da quel momento inizia una sorta di sospetto (anche paranoico, alla Dick), in cui rientrano Freud e l’idea stessa di archivio, con l’installarsi della registrazione come orizzonte, di cui il cinema è il momento più eclatante. L’ossessione di certi vecchi film per l’aller-retour, l’avanti e indietro dell’immagine, ne era in certo modo la spia.”
E’ un caso che gran parte dei film recenti guardino la vita dalla prospettiva di un al di là? Citando a caso, mi vengono in mente American beauty, Donnie Darko, Il sesto senso, The others… “Nei film hollywodiani l’after life è ormai un vero proprio genere. Anche in film normalissimi c’è un momento after life. Il territorio mentale del cinema americano non è più il territorio-pianeta, ma un territorio interiore dissodato e immaginato, con molte cadute di gusto, da una compresenza dell’al di là, l’immaginazione di un al di là, ma immanente. Nel cinema americano il cinema si qualifica come luogo dell’after life non solo per un legame narrativo, ma perché si riconosce esso stesso così, ciò che poi era dalle origini.”
C’è una singolare coincidenza tra i nostri riferimenti. Nella letteratura (da anni cerco io stesso di comporre un romanzo sui fantasmi) mi affascinano i libri la cui trama nasce da un’idea di archivio, di catalogo, di memoria, trovando gli effetti più romanzeschi in una sorta di “documentario”, con l’uso di documenti veri e propri: lettere, fotografie, ritagli di giornali ecc. Come il film (e il libro) di Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei; o il bellissimo I passi sulla testa (Bompiani 2007) di Giuseppe D’Agata, dove un fantasma, letteralmente, che rumoreggia al piano di sopra, interferisce con l’attività di catalogazione della biblioteca del narratore, di cui solo una piccola parte potrà sopravvivere al trasloco (tra i cui titoli, nomi, “fantasmi”, appare anche il sottoscritto). Nell’arte opera da tempo una nozione attiva di “archivio” che ne ha deterritorializzato e riterritorializzato gli orizzonti. Tutto questo rientra nell’ambito dell’after life, “postumo” dello still life (che, con luttuosità tutta italiana, noi diciamo “natura morta”). Ma ha anche fare con la poetica del fantasma – dello sfumato, della cancellazione, della parvenza – come gli oggetti della vita ordinaria degli individui, o i loro volti anonimi, sgranati e ingranditi, che popolano come fantasmi le esposizioni di Christian Boltanski.
Ghezzi: “Il cinema nasce proprio su queste basi, sorta di materializzazione del fantasma, più che sul sogno, che secondo me è il falso schermo del cinema. E’ affascinante che sia nato insieme alle prime analisi freudiane, e della Psicopatolologia della vita quotidiana, ma è solo una bella coincidenza. Il tipo di registrazione freudiano si basa sulla memoria, su ciò che non si può dire del sogni. Il cinema è già sogno. Nel sogno comunque l’after life è un’esperienza comune e continua, perché è parte dell’attività cerebrale, anche senza parlare del déjà vu (il cinema è un accumulazione abissale di déjà vu). Ma il sogno non ha tempo, ed è la sua dimensione più affascinante e paradossale, che lo porta oltre l’immaginazione dell’after life. Nel sogno sei coinvolto in uno stato intermedio, sei una specie di fantasma, ma anche narratore”.
Tutto torna. Ma non è proprio il senso dei fantasmi (revenants) quello di “tornare”? Arte, cinema, letteratura, la nonna, il canto XI dell’Eneide, la madre che non puoi abbracciare, il Don Chisciotte di Orson Welles, cui Giorgio Agamben ha dedicato una pagina importante del suo Elogio della profanazione. Ma cosa lega più precisamente il fantasma all’after life, ed entrambi alla nostra epoca? Boris Groys pensa che la platonica metanoia (anticipazione dell’immortalità dell’anima nella postura dei veri filosofi) sia oggi possibile come anticipazione dell’immortalità dei corpi (l’evidenza che la vita del corpo, in una decomposizione virtualmente infinita, continua). Sostiene che la storia dell’arte moderna e contemporanea sia dalla parte del cadavere (le opere come cadaveri degli oggetti, di cui esibiscono la materialità pura). Di fatto, se la cultura di massa prospera sulla figura di vampiri, zombi, cloni e macchine viventi, per Foucault esistono luoghi — cimiteri, musei, biblioteche, discariche di rifiuti – in cui, per “eterotopia”, umani e cose sono spostati in uno spazio altro, separato, come quello dei non-morti. O come gli oggetti di un archivio, un tempo vivi e funzionali. E già Kafka suggeriva di sovrapporre macchine per fantasmi, telefoni, telegrafi, poste, ai mezzi di trasporto, treni, navi e aerei.
“Noi – aggiunge Ghezzi – stiamo vivendo oggi letteralmente l’esperienza dello zombi o dell’undead, non solo come società ma come pianeta. Se pensi al discorso sulla rovina del pianeta, la nostra autocolpevolizzazione. Non c’è politico che lo dica, ma alcuni filosofi sì. I politici sono amministratori che non ammettono nemmeno di parlare della morte”. E’ il discorso dell’immunità dei politici al tempo, contro la comunità, tutt’uno con la mortalità. “Sì, il tema che unisce i due corni del dilemma è questo, e lo abbiamo affrontato in una scorsa edizione del festival dal titolo Rest-aura: l’invecchiamento, il reimbellettamento del film, l’after life del cinema stesso. Tendere all’immortalità, all’eternizzazione dei corpi, e insieme all’immateriale, che collide con la conservazione dei corpi. L’11 settembre è stato anche questo…”
Allora, siamo noi i fantasmi? Come in Film, scritto da Samuel Beckett per Buster Keaton, all’insegna del berkeleyano “esse est percipi” (essere è essere percepiti)? Riepilogando: è questo, il nostro mondo presente e normale, l’al di là: visto da un ri, o da un punto in cui si vede il ri, il rivedersi della registrazione. Ghezzi mi cita questa frase di Kafka: “il positivo ci è già dato, ora resta da fare il negativo”. Anche Godard pare l’abbia usata. A Napoli, proprio nei giorni del festival, si è inaugurata la mostra Images, fotografie dal set dei film di Bernardo Bertolucci. “Immagini rubate”, mi ha detto il regista quando la mostra era a Parma, “che non rappresentano i miei film, ma l’inconscio dei miei film”. Che suggeriscono l’esistenza di un fuori-campo, una “assenza / più acuta presenza” (Attilio Bertolucci). Fantasmi, still life, after life. Non solo di film.
(da l’Unità, 1 ottobre 2007)