di Giuseppe Genna
[da Vanity Fair, 11 ottobre 2007 – versione integrale]
Virginia Woolf si è reincarnata. Vive in Italia, a Milano, e utilizza un nomme de plume non italiano: si chiama Babsi Jones. Anche la sua scrittura non sembra italiana, pare provenire da un altro continente, da profondità abissali che fanno del suo romanzo, Sappiano le mie parole di sangue (Rizzoli 24/7, 16.50 euro), un capolavoro che scuote la letteratura italiana, i cuori e le menti dei lettori e delle lettrici. C’è un cromosoma di Jack Kerouac in questa incarnazione della Woolf. Il libro di Babsi Jones può essere interpretato come un On the road, laddove la strada sia lastricata per l’inferno, un On the road map dove si entra a contatto con l’abiezione e la purezza, l’angelico e il demonico, il corpo devastato proprio e di una nazione dissolta, droghe per sopravvivere e carenza di cibo, follia e penuria di umanità.
Sappiano le mie parole di sangue è un taccuino ed è un atto di verità. Sono sette giorni di assedio subìto a Mitrovica, in Kosovo, al culmine della guerra più dimenticata e più efferata della storia europea di questi ultimi cinquant’anni. E’ tutto vero, perché Babsi Jones, come Orlando della Woolf, ha vissuto molte vite ed è finita nell’inferno dei bombardamenti, dei cecchinaggi, delle non rivelate storture ONU che hanno annichilito la ex-Jugoslavia. Giovanissima, è stata ai vertici dello showbiz musicale internazionale, in una posizione che nessun italiano si è mai sognato di ricoprire: è stata a contatto con le star mondiali del rock e del pop. Poi, di colpo, la ritroviamo reporter di guerra nel conflitto più cruento e falsificato della storia contemporanea. Sappiano le mie parole di sangue è dunque un diorama radioattivo di quell’esperienza. Ma non solo. Come ogni grande scrittore, Babsi Jones fa apparire tutto lo spettro dell’umano e dell’inumano, dalla stanza spoglia dove lei e altre tre donne sono assediate. Pensare che questo sia soltanto un libro sulla guerra è come sostenere che il Pasto nudo di Burroughs (uno dei santi protettori di Babsi Jones) è un libro di cucina. E’ la tragedia tutta dell’umanità, che viene messa in scena con una lingua che si eleva al di sopra dei fumi vaporosi della narrativa italiana: se non a livello DeLillo, siamo a livello Houellebecq — siamo cioè finalmente di fronte a un autore di dimensione internazionale. A fare da filo rosso a questa tragedia, infittita di flashback e di messaggi in bottiglie centrate da tiratori scelti, è l’Amleto di Shakespeare, che il personaggio Babsi Jones si porta dietro per tutto il libro, come un mandala o un mantra. La tragedia dell’ambiguità e della vendetta per eccellenza non riesce a guidare nell’orrore e nella tenerezza dell’inermità questa inviata di guerra, di ogni guerra, che coi suoi anfibi calpesta fango, cadaveri in decomposizione, pavimentazioni lacerate dalle esplosioni.
A differenza di Tilda Swinton, che interpretò l’Orlando di Virginia Woolf in un memorabile film, Babsi Jones è una dark lady mutevole, camaleontica per necessità di sopravvivenza, magnetica, seduttiva e urticante. La sua schiettezza è scandalosa per i molti benpensanti che ancora resistono, attaccati alla sicurezza delle loro ipocrisie. Scarnifica e si autoscarnifica, mette a nudo le colpe collettive, la cecità di un continente che ha creato un disastro, non ha suturato la ferita, ha voluto rimanere cieco di fronte al vento di morte che ha sollevato.
Babsi Jones, come sei finita in Jugoslavia? Si avverte una spinta potente, nella tua scrittura, la potenza della ricerca di verità. Perché proprio nell’occhio di un ciclone che l’Italia e l’Europa non hanno voluto guardare?
Mi sono trovata in quel non-luogo che chiamiamo ex-Jugoslavia per caso: un colpo di fulmine storico, culturale, geopolitico mentre assistevo a una conferenza stampa di Emir Kusturica. Sono inquieta, divoro informazioni, suggestioni, emozioni, ho bisogno di nuove dosi, di dosi sempre più letali. All’epoca mi occupavo di musica rock ed ero ossessionata dalla drammaturgia; volevo spostare il mio baricentro esistenziale e immergermi in “altro”. Questo “altro” è stata la dissoluzione della Jugoslavia: perfetto per me, che sono attratta dai buchi spazio-temporali, dal non detto, dalle zone interdette, dai divieti pseudomorali. Ho studiato serbocroato, ho dedicato dieci anni di vita esaminare la questione-jugo. Mi sono imbarcata in diversi viaggi balcanici. Ho fatto tutto da sola, senza mai smettere di scrivere.
E questo si avverte. la tua scrittura mostra un’urgenza quasi crudele, metastatica. Una lingua che non ha pari nel panorama italiano contemporaneo. Uno stile tragico e cinico, ma anche tenero, profondissimo, fuori dai protocolli. E infatti tu hai più volte definito il tuo libro quasiromanzo…
Io scrivo da sempre, non posso che scrivere, è una medicina, è una necessità primaria: io non esisto senza la scrittura. Alla fine di quel decennio avevo dozzine di quaderni di appunti: potevo farne un saggio, gli editori mi ronzavano intorno, ognuno con la sua sporta di suggerimenti e di metodologie. Ho scelto un approccio differente: ho ridotto tutte le mie esperienze all’essenziale, ho intrecciato fatti reali e fiction, ed è nato Sappiano le mie parole di sangue. Volevo un testo denso, tachicardico, che mandasse in frantumi le regole del gioco, che potesse innestare epica, storia medievale e reportage, autobiografismo, narr-azione, finzione. Volevo che fosse una sfida con me stessa: scrivere di crampi mestruali e della leggenda di Tito nello stesso testo, mescolare Srebrenica, la corte di Elsinore, Lynch e la questione femminile. Ricetta del caffè alla turca e rapporti desecretati CIA, truffe mediatiche e abuso di psicofarmaci: tutto quello che avevo visto o immaginato, che era germogliato in me o che avevo risucchiato dall’immaginario collettivo doveva amalgamarsi. Sappiano le mie parole di sangue è tutto questo: il surreale, l’iper-reale, la storia, la geopolitica, il mio taccuino. Ci sono molte menzogne, ma sono menzogne che conducono a verità; ci sono molte verità, ma i media mainstream ti diranno che si tratta di menzogne. Non credo che il libro vada “spiegato”: ci si affonda dentro, qualcosa accade. Come io ho accettato di mettermi in gioco totalmente, così tocca al lettore: non sono venuta al mondo per disporre didascalie, per regalare semplificazioni né rassicurazioni. La guerra che racconto è totale: è jugoslava, ma va ben oltre il territorio balcanico. Non è un testo che garantisce risposte, è un testo che scatena domande. Vado contro la miopia europea, vado contro il pacifismo trademark, vado contro me stessa, infine. La scrittura è scavo, è dubbio, è deflagrazione, è destabilizzazione — o non è.
Come spesso citi proprio dalla Woolf: “O tu, o io”. Ci sono molti libri dentro il libro e c’è una Babsi Jones protagonista, che coincide e non coincide con te.
Ci sono molti libri dentro il libro, c’è un sito web [www.slmpds.net] che ho costruito che è un’ulteriore stratificazione di livelli inediti, per cui si possono scaricare brani recitati perché la carta non poteva avere voce, si può vedere il breve film che al quasiromanzo dà corpi e terra, muri, macerie, e ci sono molte Babsi: una di loro è sempre in guerra, una si nutre di incubi, un’altra si incanta, un’altra ancora sta già lontanissima dall’esperienza jugoslava e pensa a quel che scriverà, che sarà un’altra sfida in un altro mondo. Non sono capace di stabilire la linea di demarcazione fra Babsi-persona e Babsi-scrittore; citando Burroughs, “tutti i miei libri sono un libro solo, un unico libro continuo. Ogni parola che scrivo è autobiografica, ogni parola che scrivo è finzione”.
Oltre a Babsi Jones, sono protagoniste altre tre donne. Perché quattro donne in un contesto bellico visto dall’interno, in questa peristalsi dell’orrore di cui l’umano è capace?
La scelta di creare quattro donne come protagoniste del romanzo è ponderata e politica: noncurante de Il secondo sesso di De Beauvoir, la nostra società concepisce donne-angelo del focolare, donne-oggetto, donne-Amazzone, donne-musa, donne-qualcosa che non è mai tutto, “femmine” che sono frammenti di un non-essere. Non sono persone, non c’è alterità. Le donne sono libere, ma libere per niente: ancora non si riconosce a Woolf e a Wolf, a Kane e a Plath, a Kahlo e a Claudel il diritto naturale di sedere nell’Olimpo dell’arte. Siamo, noi donne, ancora buffi animaletti da scrutare, temere, tenere a bada. Nel mio libro i maschi sono quel che le donne sono nella realtà odierna: marginali, accessori. Chiamala vendetta, se vuoi. Il potere della scrittura è anche questo: rivendicare, accusare. Ho voluto un capitolo sul mestruo, ho voluto un capitolo sull’abbandono coniugale: anche questo è guerra. Donne spezzate, incapaci di dire, tossiche, donne che impugnano armi e sparano, donne che svelano gli imbrogli militari, donne che stracciano i capolavori della grande letteratura per farne un falò. Voglio scrivere di quel che non si scrive, di quel che raramente si può dire: i mutilati, i paria, gli esclusi, i caduti. E le donne — per intero, senza le maschere che di volta in volta sono costrette a indossare per provare di esistere.
Amleto corre come un filo rosso nel libro. Cosa rappresenta per te Amleto?
L’unico Virgilio possibile in un luogo come i Balcani: perché il principe danese incarna la contraddizione, inocula il dubbio, è spinto solo apparentemente dall’esigenza di vendetta; in realtà, la sua è un’inchiesta (inquest, direbbe Shakespeare), un’esegesi esistenziale.
Da decenni non riscontravo in Italia una presenza letteraria tanto impegnata, capace di una lingua così spiazzante. Cosa riserva il futuro a Babsi Jones?
In quarta di copertina c’è un indizio: “…prima di finire nel carnaio bellico della ex-Jugoslavia, Babsi Jones è stata vista nei backstage del luccicante mondo del rock”. Il futuro della mia scrittura mi riserva, paradossalmente, un viaggio, forse allucinante, nel passato.