di Wu Ming 5
[E’ in tutte le librerie il numero 39 della nuova serie di Nuovi Argomenti, intitolato E=mc². Scrittori e scienza. Intervengono, con saggi e paranarrazioni che variano, sul fronte scientifico, dalla fisica alla teoria sul tempo alle neuroscienze, sono stati chiamati Calef, Powers, Paolin, Pincio, Valerio, Minervino, WM5, Sassoli, Giorello, Genna (qui il suo intervento) e il curatore Leonardo Colombati. Riproduciamo qui lo splendido intervento di Wu Ming 5]
I
Questo è un resoconto di come lo studio di teorie scientifiche porti felicità e apertura nella mia vita, e di come alimenti il senso di avventura intellettuale che ritengo centrale nella mia esperienza di autore e di essere umano. E’anche un resoconto di come tradizioni di pensiero lontane vengano utilizzate in modo spregiudicato (ma fondamentalmente rispettoso) nel tentativo di dare ragione della propria storia personale e di trascenderla. Tutte le connessioni sono arbitrarie, proprio per questo tutte le connessioni sono verosimili.
Forse riveste qualche interesse seguire questa traiettoria — che è un mero esempio di come lavora la mia mente – nel caso si provi curiosità di sapere come viene metabolizzato il cibo della scienza nella mente di un autore di fiction e di come venga accostato e comparato a forme di conoscenza tradizionali che scienza non sono.
L’assunzione di sostanze enteogene richiede coraggio, competenza, disciplina. E’ il veicolo sciamanico per eccellenza, quello che permette di viaggiare nel mondo dei morti e di giungere ai confini del cielo, di vedere l’orizzonte dall’alto e di capire che è l’aura pulsante del pianeta. Le nostre pulsioni inconsce spingono verso quel tipo di esperienza. Di notte, le esperienze di volo onirico ci insegnano che nella nostra pancia è presente una virtualità pneumatica, ascensiva, e che i nostri passi possono renderci sempre più leggeri. Diafani e traslucidi, ma pur sempre corporei, siamo in grado di spostarci senza fatica nel più puro dei mezzi. L’aria che solchiamo nel volo onirico è etere, e la sensazione di spostarci in quel mezzo è ciò che nella nostra esperienza più si avvicina all’idea di vuoto.
L’esperienza del sogno è possibile perché la mente crede di indossare un corpo e di muoverlo.
L’indagine sul rapporto corpo-mente è uno dei temi centrali della scienza contemporanea, e credo che l’analisi degli stati mentali connessi al sogno trarrebbe un notevole impulso se si considerasse l’ingresso nell’esperienza del sogno come assunzione di un corpo etereo. Credo del resto che l’interesse dello studio di stati non convenzionali di coscienza risieda nell’originarietà, nell’ancestralità della narrazione che organizzano. Studiare gli effetti dell’ayahuasca significa studiare un aspetto della mente collettiva specifica che agisce e crea visioni del mondo fin alba dei tempi.
La scienza è una narrazione potentissima, uno dei mezzi che la specie mette in campo per realizzare nell’arco della veglia quella stessa spinta ascensiva che prende corpo e ali mallelolari durante il sonno e il sogno. Richiede coraggio, competenza, disciplina. Mi viene da pensare che tutte le attività umane che hanno significato per la sopravvivenza e la felicità della specie richiedano coraggio, competenza, disciplina.
L’interesse per le teorie fisiche e cosmologiche e per quelle sulla natura della mente è un tratto formativo nella mia storia personale. Di recente, poi, la mia curiosità intellettuale è stata catalizzata da dottrine (non-scientifiche, certo) che adombrano una teoria unitaria estremamente cogente, una sorta di non dualismo che ritiene il fenomeno-mente e l’energia fondamentale (materiale, diremmo noi) del cosmo un’unica e identica vibrazione.
II
La retrospezione è un’importante tecnica meditativa, anche se non è tra le più note. Attraverso questo processo si dice sia possibile ricordare vite precedenti, risalire prima a un’esistenza in tale forma, poi a un’altra, poi a dieci, cento, mille altre, fino a toccare il momento di stasi che segue la dissoluzione di un universo e precede la formazione del successivo, e poi spingersi ancora più lontano.
Questo è considerato possibile perché la mente è un continuum, in cui ogni stato mentale origina dal precedente. Non può esistere uno stato mentale sorto dal nulla, perché tutto origina da cause e condizioni. Prego i lettori di comprendere bene che questa visione non ha nulla a che fare con la questione classica “se l’organizzazione della materia possa produrre pensiero”. Il pensiero può benissimo essere materia, o la materia pensiero. L’importante è che la mente esista, almeno come virtualità, come grembo potenziale di fenomeni, da tempo senza inizio. Non è della mente in senso psicologico che parliamo, qui. Per mutuare un termine dalla filosofia del secolo scorso, “mente” in questo contesto potrebbe essere reso con “esserci”, vuota presenza originaria.
Retrospezione, dicevamo. A me basta, per gli scopi modesti che lo scritto vuole raggiungere, andare con la memoria fino al punto in cui decisi che la mente era la questione scientifica ed esistenziale principale. Ricordo che questo avvenne in maniera piuttosto atipica: io sono arrivato ad interessarmi della mente, della mente individuale, della mia mente attraverso la lettura dei Grundrisse marxiani, i taccuini preparatori per l’opera-monstruum Il Capitale, che contengono parti feconde, attuali, addirittura preveggenti. Tra i concetti che incontravo, quello di General Intellect.
Sono un vecchio lettore di fantascienza, e passaggio dopo passaggio il concetto marxiano finì per suscitare (indebitamente) visioni di Menti Collettive, una Mente per la specie umana, una Mente planetaria e così via. Ovviamente la prospettiva dei Grundrisse è tutt’altro che mentalista. Era la mia storia personale, l’Io che ero stato in precedenza e che ero in quel momento ad architettare immagini di menti collettive, potentissime, capaci di onniscienza, ma in qualche modo simili a quella che mi trovavo ad osservare quotidianamente, che mi trovavo ad essere.
In una lontana occasione ebbi la netta sensazione di essere una colonia di coscienze dipendenti ciascuna da un organo di senso, e forse da altri sensi oltre a quelli che dipendono dagli organi.
Anche “Io”, dunque, era una mente collettiva. L’indagine di come da questa colonia sorgesse la sensazione dell’Io, la concrezione mnemonica che inanella esperienze, divenne allora prioritaria.
Fu quindi paradossalmente l’interesse per il collettivo, il comunitario, il generale a spingermi verso l’introspezione.
C’è un fattore in più, che tornerà utile condividere con chi legge queste righe. La mente è l’arma principale di un artista marziale (quale una parte di “Io” era ed è tuttora”), così sostengono i maestri di molte tradizioni. E meditare -allora concepivo la meditazione solo come rilassamento e concentrazione- era fondamentale, era il corrispettivo mentale dell’allenamento fisico. Era una forma di training.
Così passai da Marx alla filosofia della mente, e dalle Arti Marziali alla meditazione.
III
Il grande pandita tibetano Longchen Rabjam (1308-1363) scrive:
La vera natura del mondo è la vera natura della mente.
Non è mai nata ed è al di là del dolore.
La liberazione si ottiene osservando la natura della mente, la vera natura dei fenomeni.
Poi, non vi è altra pace da raggiungere.
Mio zio mi insegnò a nuotare gettandomi da un molo. La sensazione che provai leggendo i versi precedenti è in qualche modo comparabile. Capire la natura del mondo, dunque, significherebbe capire la natura della mente. Capire la natura della mente significherebbe, qui, capire il modo in cui i fenomeni sembrano sorgere e vanire. La parola idealismo è del tutto fuori luogo e anche la parola materialismo. Ciò che accade sarebbe un unico fenomeno complessivo, onnipervadente, infinito. Come se neuroscienza e cosmologia fossero intimamente connesse, come se fossero la stessa cosa. La vibrazione fondamentale del cosmo risuonerebbe quando il continuum mentale si arresta. La metafora originaria sarebbe: Mente come Spazio. Ogni metafora contiene un mito potenziale. Ogni mito contiene una verità psicologica verificabile.
Nel mondo occidentale il compito di portare la specie sulla soglia dell’ineffabile non appartiene alla metafisica e a quella particolare forma di sapere metafisico che è la religione. Ciò che spinge verso l’indicibile è, in questo momento storico, è proprio il sapere scientifico. L’accavallarsi di teorie e paradigmi allude sempre a qualcosa posto “al di là” di quanto può essere detto, dimostrato per via sperimentale o logico-matematica. L’interesse del fenomeno-scienza, è, in altri termini, che il bersaglio non viene centrato mai, in nessun caso. E, assieme al movimento tantalico che proietta la mente oltre i limiti della mente, che indaga in senso cosmologico, che abbraccia la Totalità, esiste il movimento della mente che guarda se stessa. Non parliamo qui, non ancora, di forme introspettive o meditative, parliamo di un sapere scientifico che indaga stati del cervello e li mette in relazione a stati mentali, e della filosofia della mente che cerca una teoria complessiva del fenomeno-mente a partire dai dati sperimentali.
La tesi tradizionalista che propugna l’”inutilità” del sapere scientifico, la fondamentale debolezza di ogni scienza non-principiale non mi ha mai convinto. Ogni epoca storica produce i propri veicoli di liberazione, e la conoscenza è liberazione. La tesi che sia “meglio non sapere” è la tesi conservatrice per eccellenza; la base emozionale del fascismo. Ora, le teorie fisiche sull’origine e la natura dell’universo, così come quelle della neuroscienza sul rapporto mente-cervello, hanno la potenzialità di avvicinare a una sfera di pura trascendenza o di totale immanenza, di indicare la Terra Pura della non-dualità, della non-dicotomia, della risoluzione della scissione tra sé e altro: ciò che mi interessa è dunque la possibilità della visione intellettuale innescata dallo studio e dalla contemplazione di una teoria scientifica. In altre parole, la capacità che ha una teoria scientifica di alludere alla più comune condizione generale, allo stato fondamentale della vuota presenza, all’essere-qui-ora.
IV
Ma “chi” è qui, ora?
Nell’ultimo lavoro di Douglas R. Hofstadter, I Am A Strange Loop (2007), l’Io viene definito “illusione”. Un illusione tenace, recalcitrante. Un’illusione che costruisce un mondo, un ambiente intellettuale, che forma storie personali e collettive. Qualcosa che sembra esistere concretamente, la cosa “più reale del mondo”, un’illusione che si rifiuta di scomparire, non importa la quantità di Hard Science sperimentale che le viene gettata addosso. L’illusione fondamentale attorno alle quale si dispongono tutte le altre?
Per Hofstadter questa illusione ha una forma. E’ un loop, un anello, il più centrale dei simboli in cui livelli, appunto, simbolici e fisici di feedback si stratificano, si allineano, si coalizzano in modo da invertire il processo di causazione: ciò che è frutto di processi fisico-chimici crede di poter scegliere. Ciò che è determinato crede di determinare.
Uno Strano Anello all’interno del cervello, dunque. Ma non bisogna pensare a una curva chiusa in qualche modo palpabile, un circuito neurale complesso di qualche tipo localizzato in un’area particolare del cervello o in grado di abbracciarne diverse. Non si potrebbe individuare lo Strano Anello e isolarlo attraverso un’operazione chirurgica, in modo da metterlo in bella vista sopra un tavolo, ci avverte Hofsdadter. L’Io è simbolo. L’Io è astrazione. L’io è illusorio, ma esiste. Esiste perché funziona come un Io.
Eppure in realtà L’illusione dell’Io non è evidenza originaria. Diciamo rozzamente: è molto dubbio che un infante nutra l’illusione di cui parla Hofstatder. Pare certo il contrario, lo Strano Anello Simbolico non è ancora chiuso nella mente di un neonato. L’evidenza originaria è dunque un’altra: esistono stati mentali, esiste un flusso di coscienza, per utilizzare una definizione cara agli scrittori. L’Io si innesta a partire da questa. L’Io è una acquisizione, la possibilità di una “storia personale” è evolutiva. L’Io è forse un pensiero tra gli altri.
L’indagine sull’evidenza originaria pone del resto innumerevoli problemi di ordine concettuale e filosofico. Gli stati mentali non sono osservabili; ciò che può essere osservato è l’attività del cervello che si suppone correlata (Effetto? Causa? Insorgenza concomitante? Fondamentale Identità?) con gli stati mentali. Fascinazione estetica del riduzionismo: la non-osservabilità degli stati mentali indicherebbe la non rilevanza scientifica del fenomeno mente: ciò che è soggettivo non può essere oggetto di indagine scientifica.
E’ come la nota storiella della coppia behaviorista in cui il marito chiede alla moglie dopo l’accoppiamento: – Cara, mi sono divertito?
La posizione logico-espistemologica del marito è inattaccabile, ma nei fatti il discorso sulla mente è possibile solo mettendo da parte presupposti epistemologici “eccessivamente” cogenti. Nei fatti è possibile un discorso coerente sugli stati mentali ammettendo l’esistenza di un’interiorità. La neuroscienza è un sapere paradossale che allude a qualcosa che non può dire, che ha come naturale correlato, come doppio fantasmatico l’introspezione, l’autonalisi, pratiche non-scientifiche per eccellenza.
Quando ci si riferisce a sistemi di pensiero non-occidentali, lo si fa generalmente in via molto approssimativa. E’ come se all’interno di una cultura non-occidentale si dicesse: la tradizione occidentale afferma questo e quello, e si citassero assieme Marx e Meister Eckhart, Aristotele e Lacan e da questa marmellata di citazioni si estrapolasse qualcosa di apparentemente coerente e univoco, “il pensiero occidentale” in quanto tale. Esistono invece all’interno di una stessa tradizione posizioni filosofiche diverse, apparentemente lontanissime. Alcune possono fornire un supporto, delineare un’angolazione, aprire una via di fuga. Il confronto con l’alterità è fecondo a patto che non si tentino ibridazioni impossibili; a patto che si comprenda che il significato buddhista di “scienza della mente”, ad esempio, non ha pressoché nulla a che fare con la nostra “psicologia” o con l’indagine della neuroscienza sull’attività del cervello e sulla relazione di questa con gli stati mentali. E’ come se ci venisse fornita una panoplia di strumenti apparentemente simili ai nostri: utensili simili a chiavi, simili a martelli, simili a pialle e a lime, ma il campo d’azione di questi fosse sfasato rispetto ai nostri omologhi; martelli che servono “anche” a rendere liscio il legno, pialle che servono “anche” ad aprire porte, chiavi che smussano angoli e lime che conficcano ed estraggono chiodi. Dobbiamo apprendere a servirci di strumenti nuovi; dobbiamo creare connessioni e piste neurali che ci mettano in grado di utilizzare tutte le potenzialità.
Il concetto di Mente nel veicolo supremo (Ati Yoga, Yoga primordiale) della scuola Nyingma del buddismo tibetano è uno di questi utensili sfasati.
Non è sovrapponibile al nostro concetto di mente, ne copre il campo semantico e lo travalica, è l’oggetto principale dell’indagine intellettuale e in questo senso è come una chiave che serve a smussare gli angoli. E’ al di là delle categorie di esistenza e non esistenza; è non-esistente come sostanza, diremmo noi, eppure è la matrice originaria dalla quale sorge la dualità, l’io-e-altro, i fenomeni, l’accrescimento e il decadimento. Tutto questo non è postulato per via intellettuale: è una verità “auto-sperimentale”, che sorge all’interno del flusso di coscienza come risultato di indagine e di pratica meditativa incessante, condotta con pieno rigore. Il meditante sa che è così perché ha veduto che, una volta cessato il continuum mentale, la mente “non” esiste. Questa mente che “non” esiste ha la natura vuota e onnipervadente dello spazio, ed è radiante, nel senso che ha la potenzialità per riflettere qualsiasi cosa. La non-mente è lo stato di vuota attenzione. Lo stato di vuota attenzione è lo stato energetico originario, anche in senso metafisico e cosmologico. In questo senso conoscere la natura della mente equivale a conoscere la natura dei fenomeni, la matrice da cui sorge il gioco incessante della dualità. La matrice è vuota, illusoria. Ciò che è posto oltre i concetti è imputato concettualmente.
Chi è sensibile alla bellezza estetica non può che godere di una teoria ( teoria e visione sono equivalenti etimologici) che vede la vibrazione energetica fondamentale della mente e quella del cosmo come un unico fenomeno.