di Luca Barbieri
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Autonomia Operaia
L’area dell’autonomia propriamente detta nasce nel corso del ’73, periodo in cui comincia a prendere consistenza il coordinamento nazionale delle assemblee e comitati autonomi. Il primo prodotto di questo coordinamento sarà il “Bollettino degli organismi autonomi operai”, che nasce nel maggio del ’73 e porta le firme di: Assemblea autonoma Alfa Romeo, Assemblea autonoma Pirelli, Comitato di lotta Sit-Siemens, Gruppo operaio Fiat, Assemblee autonome di Porto Marghera, Comitato politico Enel, Comitato lavoratori-studenti policlinico, Unione sindacale comitati di lotta. […] L’assemblea autonoma di Porto Marghera costituisce probabilmente la più vecchia e solida esperienza di organizzazione autonoma: le sue radici affondano nella rete di intervento del Potere Operaio veneto-emiliano della fine degli anni ’60; confluita in Potere Operaio manterrà sempre una forte autonomia dalle strutture dell’organizzazione ed un’identità nettamente caratterizzata e a partire dal ’74 darà vita a “Lavoro Zero”.
Quest’area dopo il convegno di Rosolina si arricchirà delle forze uscite da Potere operaio con Negri che a Milano, assieme a ciò che resta del gruppo Gramsci dopo il processo di revisione in cui si è impegnato, daranno vita alla nuova serie di “Rosso”, giornale dentro il movimento, a partire dal dicembre ’73 ed ai Comitati politici operai. “Rosso” diverrà ben presto il giornale più rappresentativo dell’area per la sua capacità di aprire ai nuovi temi del “proletariato giovanile”, dell’”operaio sociale”, della “critica della politica” (10).
Già nel 1973 quindi, con Potere operaio sulla via dello scioglimento, nasce il primo coordinamento dei gruppi dell’Autonomia operaia. Si tratta di un insieme di esperienze difformi. Più che un movimento ben preciso l’espressione “Autonomia operaia” definirà una cultura, un’area che ruota attorno ad alcuni concetti chiave come il “rifiuto del lavoro” (già sviluppatosi in Potere Operaio) e la valorizzazione del potere di ogni singolo operaio (ma è meglio dire proletario) di bloccare il ciclo produttivo, e di rappresentare di per sé un contropotere soprattutto nella sua dimensione sociale. L’Autonomia operaia si pone come una rottura netta con le esperienze precedenti del socialismo. Rifiuta gli schemi classici dell’organizzazione socialista. Ma alcune sue esperienze, come si è visto, discendono direttamente dalle elaborazioni teoriche di Potere operaio. La dinamica che porta alla nascita di Autonomia, alla saldatura di componenti diverse tra loro, è spiegata anche da Palombarini:
Da un lato s’allenta progressivamente il vincolo che legava politicamente, e non di rado organizzativamente, ai gruppi una serie di organismi di base, soprattutto operai, che cercano autonomamente altre strade per una propria iniziativa politica. Dall’altro nuovi organismi, che sorgono in un’area sociale che inizia a non trovare un’adeguata rappresentanza politica, si affiancano ai primi nella ricerca di un’efficace linea operativa (11).
In sostanza, rispetto alle rotture operate dall’operaismo sul corpus teorico del marxismo-leninismo, l’esperienza “autonoma” aggiunge una concezione della crisi che non è più quella del collasso sociale, dell’esplosione della incapacità di fondo del capitale di far fronte alle esigenze sociali, bensì quella dell’esplosione di relazioni sociali troppo ricche per essere ricondotte al rapporto di capitale.
Si tratta di un’organizzazione che tenta di sfruttare e dare un ordine (relativo) allo spontaneismo che unisce le lotte e le proteste di studenti e proletari (largamente intesi). Autonomia operaia propugnava la lotta allo Stato e alle istituzioni sociali ed economiche esistenti attraverso atti di illegalità di massa e di disubbidienza civile. Tanto che l’Autonomia, proprio per questa rottura con la tradizione socialista, viene anche definita “l’altro movimento operaio”. Un fenomeno che sebbene riunito sotto l’unico nome di Autonomia prende forme e contenuti molto diversi da città a città. Si va dalle lotte per l’autoriduzione dei biglietti per il trasporto urbano ai contenuti ecologisti. Il luogo di crescita del fenomeno è soprattutto l’università e comunque il tessuto urbano. I sintomi una violenza diffusa contro le istituzioni universitarie: gambizzazioni, violenze, piccoli attentati e agguati. In gran numero. Sistema di autofinanziamento molto usato le rapine. Un fenomeno che segna la vita di intere città come Padova.
Un fenomeno questo che non può che entrare presto in conflitto con il mondo della sinistra tradizionale. Come spiega Rossana Rossanda: La sua parte più originale e originaria non sono i gambizzatori di Padova, e neppure il gesto più o meno simbolico di violenza fisica, ma proprio l’insieme delle pratiche di autoregolazione e rifiuto della mediazione politico-sindacale, che si sono diffuse non solo nella cultura giovanile o marginale, ma nei servizi pubblici e in parte in fabbrica (12).
Gli “anni d’oro” dell’Autonomia sono il 1975, il 1976 e il 1977, l’anno del movimento del ’77. Ma è difficile stabilire quanto sia dovuto alla presenza di Autonomia e quanto alla genesi spontanea di proteste e movimenti.
Le forme organizzate dell’autonomia sono destinate ovviamente ad avere un peso non indifferente nell’ambito del movimento, ma questo, nella sua ampiezza, le travalica. Accanto ai preesistenti organismi ne nascono di nuovi, anche di segno profondamente diverso (si pensi ai cosiddetti “creativi”) che in alcuni casi sono dei semplici punti di aggregazione politica e sociale. Qui non c’è soltanto la storia di organizzazioni più o meno clandestine. Attorno al ’77 ci fu il precipitato politico di tutto un universo di convinzioni, soggettività, figure sociali sconosciute o almeno impreviste che sembrò trovare un suo cemento nella convinzione della non trasformabilità del sistema, almeno nelle forme della democrazia politica. La democrazia era considerata impotente, e al tempo stesso segnata da tentazioni repressive e totalitarie. L’ipotesi armata diventava se non altro un’ipotesi accettata all’interno di movimenti più vasti e compositi; e sembrava assumere una capacità neutralizzante (la teoria dei “compagni che sbagliano”) anche nei confronti di forze e posizioni da essa molto lontane. Ci fu insomma uno strano e forse irripetibile mescolarsi di disincanto post-industriale e post-rivoluzionario e di vecchi e nuovi ideologismi, più o meno armati, catalogati sotto la voce “bisogno di comunismo” (13).
Dopo il ’77 si passa a una stagione di semiriflusso causata dai mancati sbocchi della protesta. Mentre Rosso cessa le pubblicazioni, a Padova, nell’ottobre del 1978, nasce Autonomia (diretta da Emilio Vesce).
Cosa succede dunque a Padova e in Veneto? In quello che Mino Monicelli chiama “laboratorio veneto”?
In questo laboratorio, dal 1977 al 1979, gli episodi di violenza sono stati 1.197 (con 5 morti e 10 feriti), di cui 708 nella sola città Padova; e quelli ascritti ad Autonomia organizzata sono stati 972, cioè gli otto decimi del totale. E’ un tipo di eversione ramificata e diffusa, praticata da gruppi non clandestini, fatta di scontri di piazza, aggressioni, sabotaggi, “espropri”, attentati e “notti dei fuochi” (14).
Ma perché l’Autonomia è così forte in Veneto, in una terra che i più considerano cattolica e “mite”? Una componente importante nella formazione di molti protagonisti dell’Autonomia (ma anche delle BR) è proprio quella cattolica. Per violenza politica il Veneto, nel 1979, è al quarto posto in Italia. Ma per criminalità comune al terzo! Le ragioni per molti studiosi, Acquaviva e Camon su tutti, vanno individuate nella violenza dell’inurbamento veneto che hanno trasformato l’area compresa tra Padova, Venezia e Treviso in un’unica grande metropoli. Una trasformazione che avrebbe scardinato irrimediabilmente la vecchia società contadina proiettando nella società di massa e nella scolarizzazione masse di giovani sprovviste delle categorie culturali adatte a interpretare correttamente la nuova realtà. Se poi si aggiungono le prediche dei cosiddetti “cattivi maestri” (Negri su tutti) e una sinistra storicamente orfana delle strutture sindacali, che in Veneto hanno poco attecchito, si capirebbe questa esplosione di violenza disorganizzata e spontanea. E’ una teoria che avrà una fortuna enorme tanto da vivere tuttora per spiegare alcuni avvenimenti veneti.
Bassa cultura, bassa forma di acculturazione, bassa capacità espressiva, da una parte; e dall’altra, alto livello di reazione, di isteria, di bisogno di vendetta. Modi di espressione più corporali che verbali, più gestuali che letterari, più a mezzo di slogan che di frasi. Se li senti parlare ti cascano le braccia. Però disprezzano i loro padri che sono entrati docili e acquiescenti in un ingranaggio che li stritolava. Quando tornano con i loro risparmi sudati, non gli dicevano “bravo”, gli dicevano “stupido, mi vergogno di te”. L’Autonomia sarebbe un po’ il luogo e il mezzo che permette di dar sfogo a questa specie di “ingorgo psicologico” (15).
Che convincano o meno queste, assieme alle spiegazioni legate all’eccessivo affollamento dell’università patavina a fronte di servizi carenti e di una città esosa, quasi strozzina, sono le spiegazioni sociologiche più diffuse per spiegare il fenomeno dell’Autonomia padovana. C’è poi chi sostiene che Autonomia operaia sia un partito, chi puro spontaneismo. Spiegazioni a parte, l’unica cosa certa rimangono i dati della violenza vissuta in città. Queste le vittime sul fronte universitario:
In tre anni, dal 1977 al 1979, verranno aggrediti, sprangati o feriti a rivoltellate, i seguenti professori: Guido Petter (novembre 1977, maggio 1978, marzo 1979), Oddone Longo (marzo 1978), Ezio Riondato (aprile 1978), Angelo Ventura (settembre 1979). Altri docenti — come Berti, Olivieri, Galante, Ceolin — subiscono aggressioni, attentati alle abitazioni o alle auto e vengono a più riprese minacciati (16).
(10) L. Castellano, Aut.Op. La storia e i documenti: da Potere operaio all’Autonomia organizzata , Milano, Savelli, 1980, p.83.
(11) G.Palombarini, 7 aprile: il processo e la storia, Venezia, Arsenale Cooperativa Editrice,1982, p.103.
(12) R.Rossanda, Il terrorismo italiano: spunti per una analisi e una risposta istituzionale, in AA.VV., “La magistratura di fronte al terrorismo e all’eversione di sinistra”, Milano, Franco Angeli, 1982, p.87.
(13) G.Palombarini, op.cit., pp 134-135.
(14) M.Monicelli, La follia veneta, Roma, Editori Riuniti, 1981, p.13.
(15) F.Camon in M. Monicelli, op.cit., p. 21.
(16) M. Monicelli, op.cit., p.78.
NOTA REDAZIONALE – Alcune osservazioni e analisi contenute in questo capitolo della tesi di Luca Barbieri sono contestabili. Preferiamo però astenerci da censure o, peggio, interpolazioni, e affidare piuttosto ad altri articoli, di imminente pubblicazione, letture critiche differenti.
(5 – CONTINUA)