di Gianfranco Marelli
Gianni-Emilio Simonetti, La suonatrice di theremin. L’insurrezione di Kronshtadt nei ricordi di Anastasija S. musicista e cuoca, DeriveApprodi, Roma 2007, pp. 175, € 15.
Forse come Nastja, la protagonista del romanzo, dovremmo allungare le due dita di Cognac con un po’ d’acqua — secondo un’antica abitudine russa — prima di accingerci a raccontare una storia melanconica, nostalgica, eppure vibrante e sferzante come l’eroica insurrezione di Kronshtadt contro la «commissariocrazia» bolscevica in quel freddo e pungente inverno del 1921. E poi domandarci se «amori che durano il tempo di uno sguardo e rivoluzioni che vivono lo spazio di un mattino, sono forse per questo meno importanti di certi compromessi scellerati che incatenano tutta una vita».
L’ultimo libro di Gianni-Emilio Simonetti — autore, ben ricordiamo, di uno dei testi cult sugli Anni ’70, Ma l’amor mio non muore, e tra i primi protagonisti in Italia della critica radicale di matrice situazionista — ci accompagna attraverso un linguaggio che utilizza più registri narrativi (letterario, artistico, storico, filosofico e finanche… culinario) in un vortice di passioni struggenti, annebbiate dal clima alcolico e fumoso dell’emigrazione politica russa a Parigi nei primi anni ’20 del secolo scorso. Ed in questo milieu, dov’era possibile incontrare nei bistrot l’intelligenza artistica e rivoluzionaria non ancora domata ed inquadrata dall’ordine dei regimi totalitari che da lì a qualche anno avrebbero occupato drammaticamente la scena storica, nasce un racconto — in realtà un raccontarsi — di una rivolta collettiva, che, sebbene soppressa ed annientata dal potere costituito della dittatura bolscevica, tutt’ora vive e si tramanda come un tesoro.
Eh sì, perché Nastja visse da protagonista l’epopea di Kronshtadt, quando la parola d’ordine «tutto il potere ai Soviet e non ai partiti» ebbe la meglio — anche se solo per diciotto giorni — sulla feroce ed oppressiva dittatura bolscevica, attuata da Kalinin, Zinoviev, Trotskj, Bucharin, S. Kamenev, Lenin, che a suon di cannonate imposero il loro diktat ai rivoltosi: «non ci può essere potere sovietico senza il Partito comunista». E quelli che — appena quattro anni prima — erano stati «l’onore e la gloria della rivoluzione» divennero banditi prezzolati al soldo delle Guardie Bianche (da «sparare come a fagiani», così si espresse il Commissario del Popolo alla Guerra, Lev Davidovic Trotskj) solo perché avevano osato difendere il principio della democrazia diretta, della libertà politica e dell’uguaglianza economica, del potere e del controllo sulla propria vita. Sui propri sogni. A tal punto da esser tanto odiati, poiché tanto erano stati temuti.
Diciotto giorni nei quali i marinai, i soldati, i lavoratori di Kronshtadt diedero vita ad una Comune libertaria nell’isola di Kotlin prospiciente a Pietrogrado e alle famose officine Putilov, dove i lavoratori avevano da poco finito lo sciopero contro la militarizzazione delle fabbriche e i soprusi perpetuati dai «commissari del popolo». Proprio a difesa di queste manifestazioni, i marinai della corazzata Petropavlosk formularono in quindici punti una piattaforma di lotta (nei quali si affermava quanto i soviet attuali non esprimessero la volontà degli operai e dei contadini e pertanto si sarebbero proclamate nuove elezioni libere e senza partito), divenuti in seguito il manifesto della Comune di Kronshtadt. Era il 28 febbraio 1921.
Ma la storia che ci racconta Simonetti inizia giovedì 24 gennaio 1924 a Parigi, in una piccola stamberga, in cui Nastja vive da qualche anno, dopo che il Partito le ha concesso il visto per espatriare, ottemperando al compito di divulgare la verità del materialismo dialettico attraverso la «macchina», il theremin, o eterofono: uno strumento costruito da Lev Sergeyevich Termen nel 1919 con l’utilizzo di valvole termoioniche che emettono suoni di diversa intensità (una via di mezzo tra il miagolio di un gatto, una voce umana, un violino), in rapporto alla distanza degli oggetti dalle valvole stesse. La dimostrazione di quanto Lenin avesse ragione sugli idealisti empiriocritici: è la materia ad essere l’unico oggetto attivo; per questo occorreva dar prova concreta del principio attraverso veri e propri «concerti» generati dalla macchina. Per l’appunto, Nastja — classificatasi tempo addietro come la migliore al concorso di violino — era stata scelta dal Partito (dopo estenuanti prove di «fedeltà alla linea») per suonare il theremin, dando così ampia dimostrazione in occidente della superiorità scientifica del comunismo. E pur di scappare da quell’inferno, non si era certo fatta pregare due volte.
Ora, proprio quel giorno, un telegramma dalla sua amica Olga le comunica la notizia della morte di Lenin, avvenuta il 21 gennaio. Dapprima il riso, poi il pianto. E alla mente il ricordo di Kronshtadt, dei suoi genitori uccisi durante l’assalto finale dell’esercito trotskista; gli incendi, i saccheggi, il fumo causato dal cannoneggiamento e «l’insolita litania delle mitragliatrici che le avevano tolto, da tempo, il diritto di sognare». Un ricordo che trafigge il presente, lo percuote, sino a farle odiare l’insignificante e gioiosa vita parigina, fatta di scandali, provocazioni ed illusioni nei riguardi di una rivoluzione vissuta soltanto a parole da parte di avanguardie artistiche e di rivoluzionari emigrati, ormai distanti dalla realtà combattente di un mondo falso e menzognero. Ecco dunque necessario, se non addirittura indispensabile, servirsi due dita di Cognac e allungarlo con l’acqua, per bere e piangere nel bicchiere: «kabatskaja melankholia, la chiamavano i vecchi, malinconia da taverna».
Con quest’arrendevole, struggente malinconia Gianni-Emilio Simonetti ci accompagna a visitare i luoghi dell’emigrazione russa a Parigi, luoghi in cui Nastja è amata ed apprezzata per i suoi dolci, i suoi piatti baltici che la riportano indietro nel tempo: all’infanzia, alla gioventù, al primo amore. Al fatto che è meglio esser cuoca che rivoluzionaria se bisogna dirigere lo Stato… verso il suo annientamento. Così accompagnati dalle ventisette note che descrivono dettagliatamente gli altrettanti piatti della cucina russa (quasi a conferma di quanto un giorno scrisse Jack Kerouac a proposito dei libri di cucina: sono gli unici che ti consentono di mettere subito in pratica ciò che hai appena letto), Nastja-Simonetti ci aiuta ad assaporare il gusto del ricordo: forte, pungente, duraturo. Al punto da esser difficile da dimenticare, anche quando tutti lo vorrebbero. E non basta certo l’ipocrisia del potere, pronto a festeggiare il cinquantenario della Commune de Paris nello stesso giorno in cui viene soffocata nel sangue la rivolta dei marinai, degli operai, dei contadini di Kronshtadt, a cancellare la cattiva coscienza del comunismo sovietico. Perché — come scrive Simonetti nella premessa — «c’è un modo di essere comunisti che non deriva dal sapere delle scienze sociali, né dall’assalto della classe degli sfruttati ai bastioni del Capitale, provvede la vita corrente. È un costume inebriante di vivere il proprio tempo, spesso nella forma di un’avventura, sempre nelle vesti di una tragedia».
Avventura o tragedia. Giusto lo spazio aperto dalla breccia che squarcia il non-più dal non-ancora e che consente ai vivi di dare un senso all’azione dei morti. Sarà forse questo il tesoro della rivoluzione? Già, ma quale rivoluzione?
Quella che ha una causa, ma non un fine. E nemmeno degli eredi. Toccherà agli insorti di Kronshtadt ritornare fra noi, per spiegarci — assieme ad Hölderlin — che «ciò che fa di uno Stato un inferno è la conseguenza del tentativo degli uomini di farne un paradiso». Un augurio che Simonetti ci trasmette in pagine d’intenso amore per gli insorti e per chi ne rivive il ricordo attraverso l’azione. Quella che consentirà a Nastja di continuare a vivere…