di Alessandra Daniele
“Ferro nella norma. Potassio in leggero calo. Magnesio….”
In macchina, mentre si pettinava, Gina ascoltava distrattamente la voce metallica della tecnospazzola cinese snocciolare il mineralogramma desunto dall’analisi dei suoi capelli. Appena il semaforo tornò verde posò la spazzola e ripartì, soddisfatta della conferma ricevuta sul proprio stato di salute. Qualche metro dopo, una massa di poltiglia sanguinolenta le si spiaccicò di colpo sul parabrezza. Gina piantò una frenata violenta, sbandò sul viscidume insanguinato, lottò per non uscire di strada torcendo il volante.
Fallì, schiantandosi contro la riproduzione in acciaio e plastica d’un platano.
L’airbag le salvò il collo, ma poco altro.
La prima cosa che vide quando riprese conoscenza incastrata fra i rottami fu l’insegna davanti al platano: “Clinica privata Orizzonti di Gloria specializzata in chirurgia estetica” e capì.
“Hanno cominciato a sperimentare il tele-trasferimento di materia per la liposuzione. Però non riescono ancora a controllare dove va a finire il grasso che smaterializzano.”
Raccolse il poco fiato, e gemette il codice per l’attivazione vocale del salvavita.
Rispose la clinica più vicina.
La Orizzonti di Gloria.
– Ci dispiace, ma non possiamo soccorrerla. Non risulta in possesso di un’adeguata assicurazione sanitaria. Inoltre, come clinica estetica, non siamo autorizzati a toccare nessuno che abbia veramente bisogno di cure mediche.
– Allora chiamate qualcun altro!
– Ci dispiace, ma la sua assicurazione non può coprire neanche questo servizio. Inoltre, come clinica estetica, non siamo autorizzati a subappaltare cure mediche che non possiamo eseguire noi stessi.
– Questa è omissione di soccorso! – Rantolò Gina.
– Le ricordo che l’omissione di soccorso è stata depenalizzata. Pretendere cure mediche gratuite invece è reato. — La clinica chiuse bruscamente la comunicazione.
Dopo qualche secondo però la riaprì.
– La sua presenza davanti al nostro edificio danneggia la nostra immagine. Dobbiamo intervenire.
Dopo essere sprofondata nel panico e nella disperazione, Gina ritrovò una scintilla di speranza.
– Si prepari a essere rimossa. Con il tele-trasferimento sperimentale.
Mentre quell’ultima scintilla si spegneva, Gina si ritrovò a pensare “Speriamo di non finire sul parabrezza di qualcun altro, o tutto ricomincerà da capo”.
Carne in scatola
Jack cercò di nuovo di afferrare la scatoletta di bovoide transgenico a lunga conservazione. Le dita si chiusero malamente, scivolarono sul metallo e persero la presa. La scatoletta cadde, e rotolò via. Jack bestemmiò il suo dio e quello dei suoi nemici. Senza energia la sua tuta-esoscheletro da battaglia perdeva progressivamente l’interfaccia neurale, diventando in breve un guscio insensibile e inerte. Lo paralizzava, ma toglierla sarebbe stato impossibile. Come soldato c’era stato cresciuto dentro, perciò le sue ossa e i muscoli semi-atrofizzati non erano in grado di reggere il peso del suo corpo. Se soltanto avesse provato a sganciarsela dal casco, il peso del cranio gli avrebbe spezzato la spina dorsale.
Jack fissò con odio la razione di bovoide. “Merdosa scatoletta — pensò — sto sputando sangue per mangiarmela, neanche fosse una cena da ristorante di lusso”.
Disperso nel deserto, semi paralizzato dalla sua armatura ormai quasi scarica, s’era rifugiato in una grotta, sopravvivendo con le razioni d’emergenza di cui quella scatoletta costituiva l’ultimo prezioso esemplare. Un altro paio di giorni di cibo rappresentavano la speranza di sopravvivere fino al periodico passaggio dei droni-elicottero di salvataggio.
Perciò doveva riuscire a prenderla.
Riprese a strisciare puntellandosi sui gomiti, prigioniero delle articolazioni della tuta bloccate come un vecchio chiavistello. Riuscì a sfiorare la scatoletta con la punta delle dita, ma ottenne solo di spingerla a rotolare ancora più lontano. Oltre la soglia.
Fuori, il sole portava la temperatura oltre i 50°.
Con uno sforzo lancinante Jack riuscì a sollevarsi sulle ginocchia, arrancò fino alla soglia, e con l’ultima scintilla di energia elettrica residua estrasse la lama a scatto dal polso cercando di infilzare la scatoletta.
La mancò.
La lama si conficcò nella sabbia, sprofondando. Sbilanciato, Jack cadde faccia in avanti.
Fuori dalla grotta.
In pieno sole.
Cercò disperatamente di togliersi da lì, ma la tuta ormai del tutto scarica lo immobilizzava completamente.
“E’ finita. Sono morto — capì — Cotto nel mio guscio. Come le aragoste, in quei fottuti ristoranti di lusso”.