di Girolamo De Michele
Su Gianni Biondillo e Il giovane sbirro vedi le recensioni di Daniela Bandini su Carmilla e di Wu Ming 1 su Nandropausa
Potrebbe sembrare ad un critico disattento che con Il giovane sbirro Gianni Biondillo sia giunto alla terza (o quarta?) puntata del ciclo di Michele Ferraro (tutte edite da Guanda), poliziotto milanese con ascendenze meridionali e residenza a Quarto Oggiaro, un passato da rockettaro (tutti dati presenti nella biografia dell’autore) e un matrimonio fallito alle spalle. Potrebbe: e allora Biondillo sarebbe l’ennesimo caso di giallo seriale condito con una spruzzata di folklore locale e una miscela agrodolce, un punto d’amaro e mezzo di dolce, che fa dire del poliziesco tutto il male possibile a tanta critica blasonata. Bene: se simili critici esistono, peggio per loro.
Perché snobbando questo architetto prestato alla letteratura perdono l’occasione di leggere uno degli intellettuali più interessanti degli ultimi anni, uno che non avrà la pretesa di possedere le risposte, ma che ha la consapevolezza di porre le domande alle quali bisogna cercare risposte: che è, nelle battaglie delle idee, il compito fondamentale. Perché Biondillo scrive gialli? In fondo, perché ha bisogno di parlare di Milano, e dunque doveva di necessità creare un personaggio che attraversasse in lungo e in largo la città meneghina: «o m’inventavo un postino o scrivevo di un poliziotto», ha detto in un’intervista. Michele “Mic” Ferraro nasce da questa esigenza, da questo nomadismo topografico: dalla necessità di perdersi nell’attraversamento di una città, l’unico modo per conoscere veramente la metropoli moderna. Per conoscere una città non basta più salire sulla torre più alta e studiarne dall’alto il disegno: bisogna immergersi nel fango e nello sporco delle sue strade, nei suoi quadri grigi e nelle sue luci gialle, nelle sue periferie costruite «come se chi ci entrava a vivere non avesse interesse alcuno se non quello di passare la notte al coperto». Per capire come e perché, e quando Milano ha perso la sua anima, ha smesso di ammirare le proprie bellezze nascoste che Mic custodisce nella memoria. Perché Milano è l’Italia, e parlando di Milano Biondillo si interroga, eticamente (non ha detto qualcuno che l’architettura non è estetica, ma etica?) sulla deriva di un paese che ha perso non solo la capacità di dare senso la distinzione tra bene e male, ma anche la cognizione dell’esistenza di quella differenza. E quale luogo può esemplificare meglio questa condizione se non il CPT di via Corelli, quale condizione umana esprime meglio questa perdita della capacità di dare un senso se non la condizione migrante? È per questo che Biondillo costruisce un libro nel quale due piani narrativi si rilegano in un unico volume: i singoli fascicoli delle schegge del passato di Ferraro, e il filo e la copertina dell’allucinante (ma reale, anzi: proprio in quanto reale) vicenda di Kledy, albanese con regolare permesso di soggiorno deportato nel lager di via Corelli e costretto a misurarsi con l’arbitrio sadico dei più forti, assieme al buon Said, l’immigrato innamorato a cui non rinnovano il permesso perché il suo padrone lo fa lavorare in nero, a Samir, a Emilian, il rumeno che torna a urlare quella frase — SONO ANCORA VIVO, BASTARDI! — che ci entusiasmò in bocca a Steve McQueen, e che oggi non può che risuonare in chi getta tra le onde la propria vita aggrappato a un sacco: nel migrante. Eppure Biondillo sa che quella distinzione va ricreata, che bisogna ritrovare l’arte di dare i nomi alle cose per quello che sono. Ma come dire parole come giustizia e dignità, se non possiamo aggrapparci alla Verità? Perché, attenzione, non è che la verità non esista: il guaio è che esiste. E fa male: «la verità non è paziente. Trancia di netto come un’ascia impietosa il gomitolo, lo dimezza, lo frantuma. E quel che resta non serve più a nessuno. È solo un racconto inerme, una ricostruzione ingessata, una fotografia sbiadita, un ricordo fallace. È letteratura». E allora meglio non saperla, certe volte, la verità: meglio accontentarsi delle apparenze. Meglio credere che il male si annidi solo in certi angolini della società, e non dappertutto. Che l’assassino sia un mostro, e non un essere umano come noi, il nostro barista o la vecchietta in rosa del piano di sopra: che la possibilità del male non sia connaturata alla natura umana. Come lo è la possibilità di avere una coscienza. Il poliziesco d’evasione nasconde, annidata nei casi irrisolti, un’interrogazione sul senso e il valore della verità, e sulla possibilità che la nostra coscienza deperisca, si adegui, sfarini nella consuetudine, nell’indifferenza morale. Ma nel crocicchio tra il piano orizzontale — la Milano-Italia percorsa in lungo e in largo (con momenti struggenti, come quello della linea 14) e quello verticale dei frammenti di vita di Ferraro, Biondillo indica non la risposta, ma il luogo da cui può emergere la risposta: Quarto Oggiaro, col suo meticciato etnico, linguistico, col suo popolo da sempre variopinto, con la sua compresenza di povertà che sembrano uscite da Gomorra di Saviano e la ricchezza di un’immigrazione da tutti i sud d’Italia e del mondo. Un’altra Milano, un’altra Italia. Forse è da queste strade che Milano può ritrovare la propria anima perduta. È una possibilità, per una città che, come sapeva Carlo Cattaneo, un tempo sapeva pensare il possibile che si sarebbe poi avverato nel paese. Una città-mondo di cui questo paese e questa sinistra non possono fare a meno, che non possono impunemente consegnare all’ignoranza e alla volgarità che di Milano si sono impadronite da 25 anni.
[questo articolo è stata pubblicata su Queer-Liberazione del 16.09.2007]