di Tito Pulsinelli
La folla che ha colmato Piazza Maggiore a Bologna ha generato il suo primo effetto collaterale di rilievo. I forgiatori professionali di opinione pubblica, i commentatori che ricamano l’aria, gli intervistati “full time” e “a progetto”, hanno scoperto due parole magiche per il nuovo gergo da massificare.
Nel prêt-a-porter dell’autunno-inverno impazzeranno la “anti-politica” e il “populismo” che — dopo la sua gran auge nella cronaca internazionale – viene ora lanciato sulle bancarelle italiane. Due fragili barriere semantiche dei nuovi pompieri, inadatte a narcotizzare logica e significati.
Antipolitica? Assomiglia come un gemello siamese all’anti-americanismo. Sei contro il lancio di una bomba di 500 chili su di un quartiere periferico, allora sei filoterrorista e — ovviamente – anti-americano. Idem se – magari per reminiscenze culturali umaniste o paleocristiane – non ti garbano le torture o l’esportazione a mano armata dei diritti umani.
Insomma, chi tocca i politici muore, ma questo non significa affatto che uno è anche contrario all’elettricità! Semmai è preoccupante l’automatismo con cui tentano di avallare l’equazione politicanti di professione=”la politica” (sic).
Tutto quel che accade al di fuori degli evanescenti apparati e del raggio d’inazione dei nanopolitici, si è convenuto definire all’unisono come antipolitica populista.
La spocchia e l’arroganza di questo ceto vizioso è sempre stata eccessiva, però ora rasentano la schizofrenia, e si rifugiano in un mondo immaginario, dove il loro gergo sterile convince solo Bruno Vespa e i suoi colleghi della carta stampata. La vita quotidiana, però, non è un programma di intrattenimento, così come la società non è sinonimo di mercato. La cittadinanza non può esere ridotta a elettorato o a votazioni. Cittadino non è l’equivalente di consumatore. Questo è il punto.
E’ vero che è passato molto tempo da quando ai cittadini di Atene si chiedeva se bisognava fare la guerra a Sparta o no. Ciononostante, la democrazia è pur sempre qualcosina di diverso da questa sgangherata democrazia rappresentativa, che periodicamente scaturisce dal ritualismo delle urne. Questa routine notarile sta in pugno ai moderni rackets cha trasformano il consenso in privilegi corporativi minoritari.
I nanopolitici – escrescenze ossificate che credono di essere “la politica” – non si arrendono a una evidenza solare: è in crisi la rappresentanza, cioè non rappresentano più gli orientamenti degli strati maggioritari della società. Sono portavoce della ragion pura dell’economia, intesa come dogma e valore supremo, e degli interessi delle nuove élites eiaculate dal modello globalista.
“La politica” è ormai un prodotto transgenico della monocoltivazione intensiva neoliberista, con la sua relativa sponda destra e sinistra, che convogliano nella medesima direzione le acque radioattive lasciate alle spalle dalle Borse e dall’unipolarismo.
La rappresentanza è in crisi perché non c’è diversificazione dell’offerta. Non è un problema di linguaggi, di maniera di porsi, come sembrano credere gli stilisti dell’apparenza che scrivono il copione scenico a Monsignor Veltroni e Padre Rutelli.
Il problema è che c’è un monoprodotto e troppi addetti alle vendite, e questa è una patologia tipica del sottosviluppo. Alla fine, non interessa più come si pubblicizza la confezione, e ai rappresentanti di commercio vengono chiuse le porte in faccia.
“La politica” sta perdendo il treno della rapresentanza perchè sta vivendo al di fuori del tempo e dello spazio, non conosce più la società esterna ai Palazzi e agli studi televisivi. E’ troppo diversa da come appare dai finestrini delle autoblu, o dalle descrizioni degli editorialisti, ed è sempre più restia a farsi “interpretare”. In Italia e altrove.
Se i rappresentanti non sanno più “chi e che cosa” rappresentare, non è solo per la loro boriosa mediocrità galoppante: è la crisi generale della democrazia rappresentativa. Sono sempre più attivi quegli stessi “ottusi” che opposero un diniego alla Costituzione europea scritta a uso e consumo dei banchieri.
Una decina d’anni fa, in un villaggio alle porte di Città del Messico, le élites economiche e politiche decisero di costruire un Club di Golf, senza consultare nessuno. Si sa che per portare il progresso non è indispensabile il consenso, lo si porta e basta. Gli abitanti di Tepoztlan non la pensavano allo stesso modo, e si opposero con tenacia. Ostruirono l’accesso al paese con barricate, occuparono il palazzo comunale, espulsero la polizia, chiusero l’esattoria e organizzarono l’autodifesa. Dissolsero il consiglio comunale, colpevole di aver concesso la licenza ai costruttori del Club di Golf, e indissero nuove elezioni. Tassativamente esclusi i partiti.
L’assemblea di ogni quartiere del villaggio designò un candidato. Tra questi vennero elette le nuove autorità.
Mentre politici, canali televisivi, redazioni, filosofi e cantastorie si accapigliavano per esecrare, dopo un anno di lotte comunitarie il Club non si costruì, e gli abitanti salvarono la scarsa acqua potabile. La democrazia — anche rappresentativa – non è un monopolio dei partiti.
In Venezuela, paese cui nell’ultimo triennio è stato sempre assegnato il Leon d’oro al “populismo”, ha una Costituzione che prevede il referendum revocatorio, che consente ai cittadini di poter mandare a casa — alla metà del loro mandato – sindaci, governatori, deputati e Presidente, quando il loro operato viene giudicato insufficiente. Non solo per corruzione o ladrocinio: anche se non stanno rispettando gli impegni assunti, o quando lavorano male.
E’ uno strumento che permette di limitare i danni e dimezzare il tempo a disposizione dei pigri, degli incapaci e dei disonesti. Chávez è stato sottoposto a questo tipo di referendum e lo vinse con ampio margine. I nanopolitici accetterebbero che i cittadini italiani dispongano di questo potere? Per ora, no. Ma il tempo stringe.
Il sistema dei partiti morì col finir del secolo, ora sta agonizzando lo spurio surrogato del “bipartitismo”, vale a dire quei due contenitori in cui si riciclano i frammenti e i calcinacci di quell’implosione.
I due cartelli di sigle mutanti e interscambiabili che costituiscono “la politica”, ora si affannano a drammatizzare la scena e — scarmigliati – minacciano che “dopo di noi il diluvio!”. Tranquilli, non affannatevi, tanto nessuno si spaventa.
Semplicemente sta tornando il tempo dei movimenti, delle iniziative dal basso, orizzontali, delle coalizioni sociali che si sedimentano attorno a obiettivi specifici e concreti. Che si dissolvono quando li hanno ottenuti, e che continuano a battersi sino a ottenerli.