di Valerio Evangelisti (da il manifesto, 22 agosto 2007)
E’ impossibile restare indifferenti a Ravenna, oppure odiarla. Bisogna amarla, non ci sono alternative. Variano solo le ragioni di questo amore. Alcuni chiameranno alla memoria i ricordi dell’antica capitale bizantina, o la tomba di Dante. Pochi, come chi scrive, penserà invece alla città come culla e luogo simbolo del movimento operaio italiano ai suoi primordi, ed epicentro di tutta una moderna civiltà. Più di Bologna. Più di Imola, che pure diede il suo fenomenale contributo.
Emiliano per via paterna, romagnolo per sangue materno, dalla stazione percorro i viali che conducono al centro. Furono teatro della Settimana Rossa del 1914. Una storia complessa e violenta, lontana dalle placide diatribe tutte emiliane tra Don Camillo e Peppone, quarant’anni dopo.
Siamo in Romagna, e la tendenza all’estremismo è forte. Le dà sfogo un episodio accaduto ad Ancona, nelle Marche confinanti. Le forze dell’ordine, nei secoli tanto fedeli a chi comanda quanto uguali a se stesse, uccidono all’uscita da un comizio tre giovani operai: due repubblicani e un anarchico. E’ il 7 giugno 1914. Fatti del genere, negli anni precedenti, erano stati innumerevoli. Questa volta la misura è colma.
Due giorni dopo l’intera Romagna insorge. Anarchici, socialisti, repubblicani scendono in piazza, fiocchi rossi al collo e cappa nera sulle spalle. Più i larghi cappelli portati di sghimbescio, in una postura qui detta “alla dioboia” — tanto per non fare scordare che secoli di dominio clericale hanno sedimentato un anticlericalismo robusto, bene espresso da una specialità culinaria tuttora in auge, gli “strozzapreti”.
E’ lo sciopero generale, indetto sia dalla camera del lavoro riformista che da quella sindacalista rivoluzionaria. Aderiscono i repubblicani tradizionali (la loro sede impressiona ancora per dimensioni, un tempo vi sventolava la bandiera rossa) e anche la corrente eretica, i Mazziniani Intransigenti. La Romagna Socialista, organo riformista ma niente affatto moderato, incita alla lotta a oltranza.
I giorni successivi dimostrano che non si è in presenza di uno sciopero come tanti. Un militante repubblicano scaglia una bottiglia di seltz, raccattata in un bar, sulla testa di un commissario di polizia, uccidendolo. La chiesa di Santa Maria del Suffragio è saccheggiata, si gioca a calcio con le teste dei santi. Altre chiese, ma non le basiliche monumentali (ogni ravennate è affezionato alla sua storia), subiranno la stessa sorte. Pattuglie armate di scioperanti controllano le strade. Per attraversarle occorre avere al collo un fazzoletto rosso, oppure mostrare la foglia d’edera repubblicana.
Un comitato di sciopero proclama la decadenza delle autorità costituite e la nascita della repubblica. Le notizie che provengono dal resto della Romagna sono confortanti. Chiese in fiamme, uffici pubblici occupati, polizia ed esercito in ritirata. Ravenna si abbandona a una grande festa popolare, che dura giorni (la descrive uno scrittore non abbastanza onorato, Nerino Rossi, nel romanzo La Pavona, Marsilio, 1992). A Forlì, il leader socialista Benito Mussolini ha fatto svellere i binari ed è impegnato nell’abbattimento della statua della Madonna, sulla piazza principale. I ravennati vanno oltre. Arrestano un generale dell’esercito, tale Agliardi, e sei ufficiali. Li detengono nella sede repubblicana.
E’ un passo azzardato. Calano le truppe e assediano la città, che deve arrendersi. Il generale Ciancio instaura una specie di dittatura militare che coordina la repressione. Ravenna è sconfitta, per il momento. La guerra mondiale di poco successiva cancella anche il ricordo della Settimana Rossa.
L’episodio era tuttavia solo l’espressione estrema di turbolenze più antiche. Nel 1883 la sede della consociazione dei repubblicani ravennati, Palazzo Borghi, ospita generosamente un congresso dei loro rivali storici e riottosi alleati, i socialisti. Non si pensi però al PSI. Si trattava dei “socialisti rivoluzionari” guidati da Andrea Costa, con un programma che si manteneva fedele all’Internazionale di Bakunin e, al tempo stesso, ammetteva la via elettorale e la presenza in parlamento.
L’organo della sinistra di Ravenna, allora, non era La Romagna Socialista, bensì Il Sole dell’Avvenire. Lo dirigeva il barbuto Gaetano Zirardini, già uomo di spicco, assieme ai fratelli Claudio e Giovanni, dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Zirardini avrà più tardi l’onere di difendere la Camera del Lavoro di Ferrara dai primi, sanguinosi colpi del fascismo incombente. Claudio, più legato all’anarchismo, farà uscire un settimanale ravennate di ispirazione libertaria, Il Lupo, contrapposto al riformismo di Filippo Turati.
Il 25 febbraio 1883 si svolge a Palazzo Borghi il secondo congresso nazionale del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna (il primo aveva avuto luogo a Imola due anni avanti). Partecipano i delegati di una sessantina di sezioni, urbane e del campo, nonché nuclei provenienti da varie parti d’Italia. Accanto a Zirardini e ad Andrea Costa, primo e al momento unico deputato socialista, il più illustre tra i presenti è Nullo Baldini, fondatore dell’Associazione Operai Braccianti del comune di Ravenna.
Il circondario della città vede da secoli una prevalenza degli operai agricoli sui contadini e sui mezzadri. Ciò significa precariato fisiologico e miseria. Richiesti al tempo della semina e del raccolto, i braccianti, uomini e donne, restano disoccupati parecchi mesi all’anno. Una piccola fonte di reddito invernale è la spalatura della neve, ammesso che nevichi. Altrimenti si dedicano al facchinaggio e ai piccoli servizi, rari e capaci di assorbire una percentuale esigua della manodopera disoccupata.
L’Associazione Operai Braccianti, la creazione più felice dei socialisti rivoluzionari, ha sottratto questi reietti alla disperazione. E’ una cooperativa, fa lavorare a turno tutti gli iscritti, procura lavori, impone assunzioni. Gli “scarriolanti” di una canzone popolare, un tempo costretti a destarsi a mezzanotte al suono di una tromba, per poi correre con la loro carriola verso un lavoro incerto, smettono di esistere. L’Associazione smantella il mercato del precariato. Bisognerà trattare con lei per decidere le assunzioni. Se prima vecchi, donne e troppo giovani, pur correndo con la loro carriola avanti il sorgere dell’alba, avevano scarse possibilità di essere ingaggiati, l’Associazione cambia il sistema. Si lavora a turno, a prescindere dal sesso e dall’età. Chi degli agrari non si adegua non avrà braccianti. Punto e basta.
Nullo Baldini, al congresso dei socialisti rivoluzionari in Palazzo Borghi, rappresenta tutto questo. Un impegno destinato a sconvolgere un territorio per renderlo vivibile e coltivabile. Le opere di bonifica chiedono braccia. Baldini le fornisce. Rafforza gli argini, fonte di inondazioni ricorrenti. Modifica un panorama paludoso, perennemente affogato nella nebbia. Spedisce i suoi braccianti a bonificare Ostia (troverà rifugio sicuro laggiù uno dei ricercati della Settimana Rossa). Grazie a Baldini, grazie ai socialisti rivoluzionari, grazie ai repubblicani, Ravenna riemerge dalla bruma in cui era rimasta sepolta, da Bisanzio in poi.
Sì, ma cosa accade ai congressisti del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, riuniti a Palazzo Borghi nel 1883? Un ispettore di polizia annuncia subito di avere l’ordine di sciogliere l’adunata non appena si passi a discutere l’ordine del giorno. Andrea Costa protesta, Giovanni Zirardini sale su una sedia e inneggia alla rivoluzione sociale. Ma c’è poco da fare. L’undicesima compagnia del secondo Reggimento Granatieri fa irruzione in sala, le baionette inastate. E’ un fuggi fuggi, nascono colluttazioni. Giovanni Zirardini è portato via di peso, il fratello Gaetano invita alla calma. All’esterno di Palazzo Borghi una gran folla applaude gli espulsi e scandisce slogan rivoluzionari. Sventolano le bandiere rosso-nere.
I socialisti torneranno di notte, cessata la vigilanza degli sbirri. La riunione si protrarrà fino all’alba. A Ravenna non si discute di questioni insulse. Si definiscono i dettagli della nuova civiltà cui dare corpo, fondata sui braccianti e sugli operai.
Senza questi precedenti non si capisce né la foga del fascismo nel cercare di abbattere una società che odiava, né la risposta virulenta della resistenza partigiana. E’ facile, oggi, isolare un fenomeno dalle sue radici, e fingere di credere che reazioni estreme fossero dovute a pura crudeltà. Nella mente di ogni partigiano, sia pure giovanissimo, convivevano i ricordi del lento riscatto delle campagne ravennati, dell’uscita da una condizione miserabile, del progresso sociale, assieme a quelli, orrendi, delle cooperative incendiate, dei capilega bastonati o uccisi, degli squadristi e degli agrari trionfanti. Chi aveva tra le mani un mitra, quando poté farlo lo usò.
La Ravenna odierna reca poche tracce dei conflitti passati, però ne conserva gli effetti positivi. Un benessere diffuso, una vita culturale attiva (molto più di quella di Bologna), un gusto per la vita che altrove si è perso.
E un certo spirito anarchico. Ero a Ravenna, due anni fa, in un ristorante all’aperto presso Piazza del Popolo. Un cliente raccontava, a un folto gruppo di commensali: «Ieri notte io e alcuni amici avevamo bevuto un po’ troppo. Ci siamo messi a gridare a gran voce: “E’ morto Berlusconi! E’ morto Berlusconi!” Le finestre si aprivano, la gente applaudiva. Qualcuno è sceso persino in strada, in pigiama, con una bottiglia in mano.»
Non so quanti gradiranno l’aneddoto, ma questa è Ravenna. Ancora un poco rosso-nera, malgrado tutto. Come si fa a non amarla?