di Tito Pulsinelli
Negli Stati Uniti, dall’inizio dell’anno il settore finanziario ha licenziato 88.000 funzionari ed impiegati, mentre nel 2006 persero il lavoro 50.237 persone. I licenziamenti dall’inizio di agosto sfiorano i 21.000 (1).
C’è stata una forte impennata nell’esecuzione dei pignoramenti ed espropriazioni di appartamenti ed edifici: 179.600 nel solo mese di luglio. Il senatore C. Dodd retiene che “da uno a tre milioni di persone potrebbero perdere la loro casa”.
Queste poche cifre indicano con chiarezza la gravità della crisi del settore inmobiliario degli Stati Uniti, che covava sotto la cenere mediatica da molto tempo, ma veniva sistematicamente ignorata o minimizzata. Ora che l’esplosione è avvenuta, emergono le caratteristiche distruttrici di un collasso che sta facendo tremare il cosiddetto sistema finanziario internazionale.
I “furbetti della bolla immobiliaria”, vale a dire gli usurai globali che avevano gonfiato all’infinito il valore dei titoli dell’industria del mattone, oggi alzano bandiera bianca. La “bolla” gli è scoppiata in faccia perché non c’è più una relazione credibile tra il valore di un edificio reale e quello dei “titoli” che li rappresentano.
Una cosa è un edificio, altro sono i titoli immobiliari o gli hedge funds che li “assicurano”; una cosa è l’economia reale altro è l’economia cartacea del capitalismo globalista. Tra le due c’è un abisso, su cui regna sovranamente la plutocrazia finanziaria.
A differenza delle favole, però, i mega-speculatori vengono premiati. In loro soccorso arriva a sirene spiegate la crocerossa delle banche centrali che usano con gran disinvoltura i denari dell’erario pubblico. “Immissione di liquidità nel mercato” viene definito il salvataggio dei pirati nel gergo dei bassifondi bancari: grazie finanziamento pubblico! “E’ il male minore” si affrettano a dire senza pudore.
La Banca Centrale Europea (BCE) finora ha sganciato 120 miliardi di dollari per soccorrere i truffatori d’oltreoceano e i loro compari speculatori delle banche europee. Si premiano gli infami, li si incoraggia a perseverare. E’ una autentica istigazione a delinquere.
Siamo al teatro dell’assurdo o al funerale del buon senso: i negatori radicali di ogni intervento publico nell’economia sono provvidenzialmente salvati con quantità industriali di denaro pubblico. I becchini dello Stato succhiano avidi le sue mammelle.
Si tratta dello stesso denaro che – in nome della “autonomia” delle banche centrali – sarebbe irresponsabile destinare alle pensioni, al sistema sanitario o educativo.
Le classi dirigenti della politica sono ridotte ad eseguire le deliberazioni prese in occulta sede dal potere reale del mondo: sono semplici notai o scrivani delle periferie imperiali.
Il dogma neoliberista proibisce salvare l’Alitalia o le industrie nazionali, ma è molto zelante e servile con gli speculatori, si chiamino Parmalat o Borsa. Il libero mercato è un modello teorico che sopravvive solo nelle facoltà di economia o nelle redazioni. Non è un caso che R. Murdoch, il satrapo della comunicazione planetaria, abbia appena comprato il Wall Street Journal. L’interventismo statale, che si manifesta con le odierne alluvionali “immissioni di liquidità”, ci dice che il libero mercato non esiste. Non è un mercato, tantomeno è libero. E’ solo una ideologia millenarista delle élites, riemergente in ogni finale di secolo.
Il malconcio sistema finanziario internazionale e la credibilità del dollaro – ormai seriamente compromessa anche a livello di immagine – sono momentaneamente puntellati dalle riserve monetarie delle Banche centrali del G7. Impazzano i poeti della “volatilità”, e c’è una proliferazione di eufemismi e metafore scadenti per occultare questa realtà, o per minimizzarne le conseguenze.
I più arditi, come al solito post festum, segnalano le carenze di strumenti giuridici per poter controllare i corsari delle Borse, ed invocano la necesità di “domare le finanze che mischiano temerarietà ed avidità” (2).
I più coraggiosi puntano il dito contro il monopolio delle tre agenzie qualificatrici di rischio, ma dimenticano che Standard & Poors, Moodys e Fitch agiscono con molta solerzia quando si tratta di dare le pagelle ai Paesi indebitati del mondo non indusrializzato, non altrettanto con i consorzi privati multinazionali. E tacciono sul fatto che hanno infiltrato le presidenze delle “autonome” banche centrali. I tre “qualificatori” non sono arbitri, tantomeno imparziali, ma azionisti e biscazzieri dei casinò in cui smerciano le loro fiches corporative.
Tutti i politici di Washington, da Obama alla coppia Clinton, esigono all’unisono che la Cina proceda ipso facto alla rivalutazione della sua moneta, unico modo – a loro dire – per bloccare la “sleale concorrenza”, frenare le esportazioni cinesi e favorire quelle statunitensi. Ignorano che negli ultimi due anni il renmimbi si è rivalutato del 10% sul dollaro, ma questo non è servito a nulla, e il bilancio favorevole alla Cina continua a sfiorare i 27 miliardi. Ancora una volta: che fine ha fatto il libero mercato?
Dalle cronache minimaliste di questa afosa fine estate, si apprende che la Cina avrebbe in mano il pallino. Con 1,3 bilioni di dollari stivati nelle sue riserve monetarie – di cui 900 miliardi in un mix di buoni della tesoreria e titoli – stringe in una morsa ferrea i testicoli della Riserva Federale. Come si muove, strilla.
Bloccano gli “infetti” giocattoli Mattel? Rispondono mettendo al bando derivati agricoli arricchiti con troppo alluminio.
Gli afoni vati della “volatilità” si affannano a spiegare che non c’è problema, che la Cina non può liberarsi a cuor leggero del cartaceo-USA senza deprezzare il suo malloppo, cioè senza danneggiare le sue esportazioni e riserve monetarie. In sostanza: chi ci smenerebbe di più?
D’acchitto, però, balza alla vista che la salute degli Stati Uniti sta nelle mani dei barbari d’Oriente, e questo non è proprio un bel vedere!
La sostanza sarebbe questa: i cinesi ci smenano di più accettando l’imposizione di rivalutare il renmimbi o liberandosi gradualmente dei titoli e della valuta degli Stati Uniti? Questa è la questione.
Da una parte c’è la possibilità di scegliere tra rivalutazione della propria moneta o svalutazione di quella del debitore, ma dall’altra c’è solo la prospettiva della recessione e dell’eclisse definitivo del dollaro. Comunque vadano le cose, da un lato si profila un perdente sicuro, dall’altro c’è un giocatore con varie giocate a disposizione, e che potrebbe limitare i propri danni. Fino a quando potranno contare sulle trasfusioni ematiche delle “autonome” Banche centrali del Giappone e dell’ Europa?
La fiction globalista, dopo i fasti delle scorribande filibustiere che sbancavano le economie latino-americane e dei piccoli e grandi dragoni, ebbra di “effetti tequila e vodka”, oggi non può più occultare l’ingovernabilità di un caos che ha varcato persino il perimetro del santuario di Wall Street.
La plutocrazia finanziaria riparata sotto l’ombrello del G7, ha fatto del dogma neoliberista il suo grido di guerra, ma i dogmi vanno bene per le religioni, non per la politica economica, nè per armonizzare il mondo e rendere più vivibile l’esistenza del pianeta e degli umani.
Giocano con la logica del “tutto o niente”, e brandiscono la mannaia apocalittica del “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Ormai, però, non sono più gli unici giocatori globali, né i più importanti: l’unilateralismo è fallito nella geopolitica, nella guerra e nell’economia. Attorno al tavolo ci sono almeno altri 4 giocatori globali.
Gli Stati Uniti devono mettere ordine nei propri conti, abbandonare un sistema di vita depredatore, e rassegnarsi che non si può vivere eternamente al di sopra dei propri mezzi. Sono passati 60 anni da quando producevano il 60% delle mercanzie circolanti nel globo; oggi sono il Paese più inebitato del mondo.
Sarà sempre più difficile nel futuro sopravivere accumulando irresponsabilmente debiti. Non basta più un’economia cha ha come caposaldo la produzione di manufatti bellici sofisticati, i loisirs di Hollywood, e la produzione incontrollata di cartamoneta e titoli. Né una geopolitica ispirata al vandalismo inconcludente e velleitario, che sistematicamente si sopravvaluta, ma è incapace di affermarsi persino su piccole nazioni rovinate da due guerre perdute, com’è quella iraqena.
L’esportazione del suo sistema produttivo ha generato gran dipendenza e una innegabile vulnerabilità alle mosse di Pechino. E’ un segreto pubblico che è arrivato a conoscenza della plebe globale. E’ il caso di dire che “grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è eccellente”.
(1) Studio di Challenger, Gray and Christmas
(2) Bernard Connolly, da The Daily Telegraph (20/8/07)