di Luca Barbieri
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CAPITOLO I – IL CONTESTO STORICO
1. Perché un capitolo storico
Parlare del caso “7 aprile” richiede uno sforzo particolare. Non si tratta, con tutta evidenza, di un processo qualsiasi. Per leggere correttamente l’evento, e il modo in cui esso fu raccontato, bisogna tener conto della storia (anzi delle storie) dei protagonisti, dei tempi in cui questa vicenda matura e si inserisce. Occorre, senza eccessive pretese, tentare di gettare uno sguardo sinottico, un fascio di luce sulla storia repubblicana dal 1960 al 1980. Questa ricostruzione non è l’oggetto di questo lavoro e non ne occuperà quindi una parte troppo rilevante. Il primo capitolo servirà a porre le premesse indispensabili per capire i riferimenti e le riflessioni che verranno sviluppate nei capitoli seguenti. Non mi dilungherò troppo. Ma tutti gli elementi essenziali nella preparazione del lavoro, viaggeranno in background attraverso i capitoli e i paragrafi, emergendo qualora ce ne fosse la necessità.
2. Gli anni Sessanta e la “rottura” della società italiana
Agli anni Settanta, che sono parte consistente, nel loro linguaggio, nelle loro vicende e nella loro mitologia, del processo 7 aprile, si arriva ripercorrendo da vicino la storia del “movimento” nato in Italia, come nel resto del mondo, negli anni Sessanta.
Sono anni che segnano l’avvio di una rivoluzione culturale: con la scolarizzazione di massa, l’inurbazione, il boom economico, la società del nostro Paese cambia faccia. Cambiano i costumi, i rapporti all’interno della famiglia e anche le lingue (nasce l’Italiano di massa). Le conseguenze dal punto di vista politico, sono rilevantissime. Sia nella gestione del potere, che negli equilibri tra le forze politiche. All’interno della sinistra, quella storica, si affacciano nuove esigenze e nuove istanze. E’ in parte una guerra dei figli contro i padri. E’ in parte, nella mitologia della sinistra italiana, la continuazione della guerra di Resistenza.
Più corretto appare, soprattutto in riferimento ai protagonisti del caso in esame, far risalire questo movimento non tanto al ’68, l’anno simbolo di un intero processo, quanto ai primissimi anni Sessanta con la nascita, dopo i fatti di Piazza Statuto, di un gruppo di intellettuali socialisti di stampo “operaista” che si riuniscono inizialmente attorno alla pubblicazione dei Quaderni Rossi.
Dimensione internazionale
Il 1968 (in simbolica contrapposizione al 1848) segna la comparsa di un nuovo movimento a livello internazionale che nasce essenzialmente nell’università per espandersi, abbastanza rapidamente, anche ad altri luoghi di socialità. Dalle università alle fabbriche e viceversa. Così in Francia come in Italia. Il rapido contagio della protesta segna un processo di contrapposizione tra quella che verrà poi designata “vecchia sinistra” (i partiti comunisti ma anche i socialdemocratici della sinistra storica) e la “nuova sinistra”, una galassia di movimenti e gruppi che coinvolgono non più solamente la classe operaia ma diversi elementi della società. Come dice Marco Revelli:
I movimenti antisistemici dei tardi anni Sessanta al contrario, si costituiscono secondo una logica di esternità assoluta rispetto allo Stato nazionale. Con un rapporto, potremmo dire, “fuori e contro” nei confronti della statualità. Espressione e motore di un diffuso processo di nazionalizzazione delle masse, essi si fanno portatori di un parallelo effetto di de-statalizzazione della politica. (1)
Ma se la miccia viene accesa, quasi in contemporanea, in tutto il mondo, diversi saranno gli effetti e le durate. In sostanza gli esiti dei molteplici ’68 si possono localizzare tra due estremi: da un parte c’è il completo riassorbimento della protesta e del movimento da parte del sistema politico nazionale (ritorno alla legalità e immissione di nuova linfa nei partiti della sinistra), e dall’altro situazioni che si incancreniscono prolungando per quasi un decennio livelli di conflittualità altissimi.
Specificità italiana
Nello scenario italiano il ’68 e il ’69 non segnano, come avviene per la maggior parte degli Stati, il momento critico di un processo che porterà poi ad un nuovo equilibrio. La situazione italiana rimane invece di forte squilibrio per più di un decennio (a testimoniarlo ci sono anche le statistiche sulle ore di sciopero, utilizzate come indice per capire il livello di conflittualità). Tanto che, a leggere il monte ore di sciopero nelle fabbriche, il culmine delle lotte si può più giustamente porre nel 1971 che nel 1968. Da quell’anno in avanti la conflittualità comincerà lentamente a decrescere, ma rimarrà sempre a livelli molto elevati per tutto il periodo dal 1968 all’inizio degli anni Ottanta. Responsabile di questa perenne turbolenza la capacità del movimento di spiazzare continuamente sia sindacati che partiti di sinistra. Una perenne fuga in avanti che le strutture storiche del movimento operaio non avranno mai in pugno.
Ma la situazione italiana è sicuramente influenzata anche da fattori esogeni. Risente notevolmente insomma della tensione internazionale cui il nostro paese per motivi storici e geografici è sottoposto per tutta la “guerra fredda”. Paese di confine tra i paesi dell’Alleanza atlantica e quelli del Patto di Varsavia, l’Italia è per quasi vent’anni terreno di scontro tra i servizi segreti dei due scacchieri. Il nostro Paese inoltre ospita il più grande partito comunista dell’Occidente. E’ un sistema apparentemente bloccato. Dove il Partito comunista, forte di più di un terzo dei consensi del Paese, è essenzialmente un partito “antisistema”. Un partito cui la gestione del potere, a parte quello delle amministrazioni locali, è precluso. L’apertura della Democrazia cristiana ai primi governi di centrosinistra segna un avanzamento del riformismo italiano. Ma si tratta sempre di riforme che, se da un lato liberano nuove energie, dall’altra creano situazioni di forte tensione sociale. La riforma scolastica ad esempio rimane a metà. L’accesso all’università viene liberalizzato ma le strutture rimangono quelle arcaiche di prima, assolutamente insufficienti alle trasformazioni del Paese. Fattori di tensione che fanno delle università italiane luoghi di diffuso disagio. Con segnali di crescente intraprendenza da parte delle nuove figure sociali, con la costante crescita del Partito Comunista, si sviluppano, in ambienti filoatlantici e post-repubblichini, tentativi di scaricare sulla sinistra (sul movimento più che sul PCI) la responsabilità di tutti gli atti di violenza. Tentazioni di una spinta repressiva che dia un giro di vite alle crescenti richieste di democratizzazione. Si arriverà, come scritto sui manuali di storia e nelle sentenze dei tribunali, alla progettazione di veri e propri golpe, alle stragi fasciste appoggiate da ambienti statunitensi.
La strategia della tensione, che prende origine proprio nell’autunno-inverno 1969 e che si prolungherà profondamente nel decennio successivo, è esattamente questo: il tentativo di risoluzione delle contraddizioni politiche e sociali espresse dai movimenti impiegando non una risorsa tipica della società politica (come appunto la mobilitazione, il controllo di essa e la mediazione) ma una risorsa tipica dello Stato — apparato (come la forza) […] L’inconsistenza della mobilitazione di piazza della cosiddetta ‘maggioranza silenziosa’, ridottasi in pratica al puro uso squadristico di gruppi neofascisti, da una parte; la difficoltà della Dc di sfruttare elettoralmente il panico dei ceti medi di fronte alla protesta sociale…dovettero convincere una parte consistente della classe dirigente italiana a considerare l’illegalità come una chance accettabile se non addirittura opportuna (2).
1) M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in F.Barbagallo, “Storia dell’Italia Contemporanea”, Torino, Enaudi, 1995, p. 394.
2) Ivi, p.467.
(2-CONTINUA)