di Girolamo De Michele
«Lo sai chi ha ucciso Davey Moore? Io lo so, ma tu lo sai?», si chiede in una vecchia canzone Bob Dylan. Non l’arbitro che non ha fermato l’incontro, non gli spettatori che incitavano l’avversario, non l’impresario che ha organizzato l’incontro né lo scommettitore che ci ha lucrato sopra, non il giornalista né quel povero cristo dell’avversario, immigrato sfuggito alla fame grazie alla boxe. Nessuno, dunque. Ma allora chi ha ucciso Davey Moore? E come si permette il signor Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, di affermare: io so chi ha ucciso Davey Moore?
Due lavoratori, Angelo di Mugnano e Cristian di Bolzano, muoiono nei rispettivi cantieri. Due dei tanti: quattro al giorno dicono le cifre ufficiali, che non tengono conto dei lavoratori irregolari trasportati fuori dai cantieri dopo morti e buttati in un fosso, o caricati su una vecchia auto gettata contro un albero. Chi uccide quattro o cinque lavoratori al giorno?
Se un uomo che cammina sul crinale di un precipizio fa un passo falso e precipita, a nessuno viene in mente di dire che la causa della sua morte è la forza di gravità: eppure se le leggi della meccanica fossero differenti quell’uomo sarebbe ancora vivo. No, a tutti è chiaro che la causa della morte è il passo falso. E la causa del passo falso? Forse una distrazione, forse un eccesso di alcool, forse l’urto di un altro corpo: una spinta, forse. O la volontà di farla finita. Il punto è che finché la spiegazione, per quanto scientificamente esatta sia, non ci fornisce un’adeguata comprensione noi continuiamo ad aggiungere alla spiegazione un “perché?”: perché, dunque, con tanta facilità i lavoratori cadono dalle impalcature? Perché restano schiacciati dai tubi, sepolti dal carico della gru che si stacca, travolti da una struttura che cede o dal mezzo meccanico che stavano guidando? In un caso di cronaca nera il perché? allude alla mano che ha premuto il grilletto, che ha innescato la carica di tritolo sotto la provinciale di Capaci o ha abbandonato la borsa alla banca dell’Agricoltura in piazza Fontana. Ma un lavoratore che cade da un ponteggio o viene massacrato da un tubo? È morto, o è stato ucciso? Sul lavoro si muore o si viene uccisi? Se non ci sono assassini non c’è assassinio, a lume di ragione. Ma se quasi tutti quelli che liquidano Francesco Caruso come un povero demente usano sui propri giornali, nelle sedi sindacali, nei comizi l’espressione “omicidio bianco” una ragione ci dovrà pur essere: perché se c’è omicidio c’è assassino. Se c’è un perché? ci dev’essere una risposta, se c’è un effetto ci dev’essere una causa.
La forza di gravità, combinata al falso movimento del piede, all’usura del tirante, al cedimento della struttura, certo: causa efficiente. L’arresto cardiaco, la frattura alla base del cranio, la perforazione di un organo vitale: causa materiale. Ma anche: la latitanza dei controlli, la sempre più labile osservanza delle norme di sicurezza, la crescente precarizzazione, e dunque l’inesperienza, o la mancanza di colleghi anziani in grado di insegnare le regole minime di comportamento (l’eclisse del sapere operaio, direbbe un vecchio operaista); il sistema delle aste al ribasso, dei subappalti; la tollerata infiltrazione del lavoro nero nel lavoro regolare. Causa formale. Che si intreccia con la causa finale: il sistema del lavoro nell’epoca della globalizzazione. E se queste leggi sono, formalmente, causa di quelli che si usa chiamare “omicidi bianchi”, allora sarà permesso dire che i loro artefici sono, in senso lato, responsabili di quegli omicidi?
Si dirà: questa è metafisica. Può darsi: ma cos’è, invece, un assassinio senza assassino, un effetto senza causa, una legge senza effetto? E allora, metafisica per metafisica, meglio una buona metafisica piuttosto che una cattiva: come quella di certi analisti come Ichino con i quali non sembra possibile polemizzare senza passare per filo-brigatisti. Analisti che fingono di ignorare gli effetti allargati, i cerchi concentrici che dalle leggi attuali si dipartono per generare quella precarizzazione dell’esistenza che (come ha messo in luce Sbancor) è argomento di discussione solo a condizione che non si parli delle sue cause oggettive. Che la precarietà sia una condizione soggettiva, esistenziale: un prodotto del non-sentirsi-a-casa-propria come condizione generale dell’esistenza, secondo certe cattive metafisiche, assai gradite alle orecchie di Napolitano e dei cosiddetti miglioristi, che era di moda frequentare quando Marx divenne demodé.
Con buona pace di questi ultimi epigoni del pensiero molle, la precarizzazione, l’incertezza, l’epoca delle passioni tristi non sono né condizioni inalterabili, né prodotti di un destino barbaro e cieco: accadono all’interno di un sistema di leggi che lo hanno consentito dal punto di vista legale. Accadono all’interno di una condizione generale del lavoro che certo non è stata interamente prodotta da queste leggi, ma che il complesso delle leggi Treu-Biagi difende, impedendone la radicale modifica e consentendone solo piccoli aggiustamenti. Detto altrimenti: tutto quello che all’interno delle leggi vigenti era possibile fare è stato già fatto: senza abrogare quelle leggi nella lotta al precariato non si va oltre (ma si possono sempre scrivere bellissime lettere ai giornali sui ragazzi precari, cosa di cui Veltroni è maestro).
Ma soprattutto, le norme attualmente vigenti producono un effetto performativo di ineluttabilità: la convinzione che il lavoro non può che essere così, che per il lavoro il sacrificio di sangue e vita è un atto dovuto e necessario, come la morte per tumore o leucemia.
Un risultato Francesco Caruso l’ha sicuramente ottenuto: ha ricompattato l’intero centro-sinistra contro di sé. È un cretino, un idiota; straparla; vaneggia; è come Gentilini; delira: le prime pagine di Unità, Liberazione, Manifesto, Repubblica sono intercambiabili, come le dichiarazioni di Napolitano, Giordano, Treu, Maroni, Cicchitto. Marco Biagi, il tecnico del governo D’Alema prestato al centrodestra (il cui assassinio è stato strumentalmente usato per legittimare una legge che D’Alema avrebbe fatto pari pari) non può difendersi, dicono in coro: ma forse può prendere la parola e pronunciarsi sulle leggi Treu e Biagi il lavoratore marocchino che sempre a Bologna, poche ore prima dell’assassinio di Biagi, è morto in cantiere? E Angelo da Mugnano, e Cristian da Bolzano: possono dire la loro?
Pochi giorni addietro il sottosegretario pugliese alla Sanità Antonio Gaglione, all’indomani della morte di Mimmo, giovane operaio all’ILVA di Taranto, ha definito il padrone dell’ILVA «un imprenditore non illuminato che adesso deve imparare a rispettare la legge». La settimana precedente, ai delegati di fabbrica che denunciavano la mancanza di misure minime di protezione (caschi per ripararsi dal sole battente d’estate per i conducenti dei macchinari) Riva a mandato a dire che basta un fazzoletto bagnato in testa. Da quando l’imprenditore Riva ha comprato l’ILVA di Taranto, 14 anni or sono, ci sono stati 40 morti, non in Puglia, non a Taranto: in una sola fabbrica. Ogni anno a Taranto ci sono 400 morti per tumore e 1200 nuovi casi di leucemia: bastano per parlare di di strage, per chiamare i responsabili assassini? Evidentemente non bastano, se il Partito Democratico, prima ancora di nascere, si è mobilitato non solo a Taranto, ma a Roma per cercare, inutilmente, di impedire l’elezione a sindaco di Stefàno, l'”estremista” che ha osato mettere in discussione la servitù industriale della città. Non assassino: imprenditore non illuminato. Ma Gaglione va capito: il giorno prima si era candidato alla guida del nascituro Partito Democratico pugliese, ci sono i famosi ceti medi da conquistare, non bisogna spaventare l’imprenditoria, ecc.
Le vellutate parole di Gaglione come suoneranno alle orecchie della promessa sposa dell’operaio morto il giorno prima? E a quelle dei suoi genitori? Ma gli operai e i loro congiunti, è noto, hanno il pelo sullo stomaco, e a certe parole non fanno caso.
E allora, se non i padroni delle fabbriche, né gli autori delle vigenti leggi che permettono loro «di precarizzare e sfruttare con maggior intensità la forza-lavoro e incrementare in tal modo i loro profitti, a discapito della qualità e della sicurezza del lavoro»; allora, chi ha ucciso Angelo di Mugnano, e Cristian di Bolzano, e Mimmo di Taranto? Chi ha ucciso Davey Moore? «Assassino? Io non credo, era destino… o magari, chi lo sa… il volere divino»
qui la versione italiana di Who Killed Davey Moore
a destra, Davey Moore KO nel suo ultimo, fatale incontro.