di Gianluca Bifolchi (da Tlaxcala)
[Di norma, nei limiti del possibile, Carmilla evita di pubblicare contributi che non siano originali. Una delle possibili eccezioni è la rilevante importanza del testo, degno di essere fatto conoscere. E’ il caso, secondo noi, di questa recensione di Gianluca Bifolchi, apparsa su Tlaxcala, la rete dei traduttori per la diversità linguistica. Anche il sito e il suo progetto meritano di essere pubblicizzati.] (V.E.)
Furio Colombo, La fine di Israele, Il Saggiatore, 2007, pp. 127, € 10,00.
La ragione per cui Furio Colombo ha scritto La fine di Israele è chiarita nell’introduzione, dove l’autore ricorda una manifestazione di solidarietà a Israele tenutasi un anno fa al Portico d’Ottavia, il vecchio ghetto ebraico di Roma, nell’infuriare della guerra in Libano tra Israele ed Hezbollah. Colombo, che ovviamente vi prese parte, ricorda con amarezza il cortese ed educato apprezzamento della comunità ebraica verso i leader di sinistra presenti e i tripudi e le ovazioni riservati invece a Fini, Schifani, Cicchitto e compagnia bella.
Ciò che ai più appare come ovvio, e che spiega perfettamente questo episodio, e cioè la perfetta conformità della causa di Israele ai valori, ai principi e agli obiettivi della destra occidentale, è invece per Colombo frutto di un malinteso e di una pericolosa situazione di isolamento in cui lo stato ebraico è venuto a trovarsi in età posteriore al suo stabilimento, e che ora lo costringerebbe a trovarsi discutibili alleati in un innaturale connubio che potrebbe avere esiti esiziali per la sopravvivenza stessa di Israele.
“Israele appartiene alla sinistra”, dice Colombo, che sapendo bene come un’idea del genere apparirà ai più un paradosso o una provocazione, scrive un libro per dimostrare che non è né l’uno né l’altro. Convincere la gente alla sua tesi servirà non solo a Furio Colombo per non passare più alle spalle di Gianfranco Fini nelle manifestazioni al Portico d’Ottavia, ma anche, per soprammercato, a salvare Israele da se stesso, oltre che dai suoi nemici giurati, perché, ci assicura Colombo, “senza la sinistra Israele non può sopravvivere”.
Che “Israele appartenga alla sinistra” è ovviamente un problema storico, e può essere utile fornire qualche esempio di come Colombo tratta i dati storici quando si tratta della sua opera apologetica a favore di Israele.
Nello smilzo capitoletto con cui Colombo cerca di parare come può ai danni dell’ultimo libro di Jimmy Carter (Peace, not apartheid), uno dei suoi grandi eroi liberal insieme a Kennedy, che oggi accusa senza mezzi termini Israele di gestire un ripugnante sistema di apartheid su base razziale, leggiamo questa frase di apertura: “Chi è Jimmy Carter? E’ il Presidente americano di Camp David, l’uomo che nel 1978 ha insistito nel tenere le mani del primo ministro Begin e del capo dell’OLP Arafat (che allora non era ancora il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese) fino a far incontrare quelle due mani” (pag. 111).
Naturalmente non è mai accaduto niente del genere. Colombo confonde l’incontro tra Begin e il presidente egiziano Anwar Sadat — effettivamente patrocinato da Carter — con l’incontro tra Rabin e Arafat, sempre a Camp David nel, 1994, nel quale fu Clinton e non Carter a “insistere nel tenere le mani” dei due leader fino a quel momento nemici.
Nella pagina successiva leggiamo “Jimmy Carter, il presidente buono che ha preferito l’umiliazione degli ostaggi (il personale dell’ambasciata americana a Teheran tenuto sotto sequestro per mesi dai militanti khomeinisti e fondamentalisti dell’Iran) all’azione di guerra, accusa Israele dello stesso delitto,….” (pag. 112).
Si, si può metterla così e dire che Carter rinunciò all’azione di guerra, a condizione di dimenticare il tentato raid su Teheran nel 1980, finalizzato alla liberazione degli ostaggi, abortito per vari problemi tecnici tra cui la collisione di un elicottero e di un C130 proprio a inizio missione in cui trovarono la morte otto soldati americani. Insuccesso che tra le altre cose costò a Carter la rielezione.
Quanto alla bontà dispiegata da Carter nei suoi rapporti con l’Iran si potrebbe ricordare l’assistenza continua fornita dalla sua amministrazione fino a qualche mese prima alla Savak, la polizia politica dello Sha, che secondo Amnesty International era l’organizzazione con il primato planetario del più sistematico ricorso alla tortura contro i dissidenti del regime. Ma a parte quest’ultimo punto, dovuto alla visione fiabesca della politica estera USA di Colombo, le altre due sviste possono essere dovute ai tempi rapidi di edizione di un instant book come La fine di Israele. Ma quando la stessa mancanza di accuratezza tocca questioni più connesse al merito della storia di Israele allora ci troviamo di fronte a un problema più serio.
Riportiamo un brano da pagina 16: “Gli Israeliani hanno cominciato ad abitare un piccolo pezzo di Palestina, quando era territorio dell’ex Impero Ottomano reclamato proprio dalla Giordania, e occupato dalle truppe e dall’amministrazione dell’Impero Britannico. Lo hanno fatto su mandato delle nazioni Unite (1948). Nello stesso giorno è stato istituito un piccolo stato palestinese – altrettanto nuovo e mai esistito prima – che però tutti gli Arabi (non i Palestinesi, ma il potere dei grandi paesi arabi dell’area), hanno rifiutato, iniziando subito una catena di guerre”.
L’unico atto dell’ONU che fonda la nascita di Israele accanto a uno stato palestinese è la risoluzione dell’Assemblea generale numero 181, del 28 Novembre 1947, e non 1948. Tale risoluzione era per altro un semplice suggerimento vincolato all’accettazione di entrambe le parti e di per sé non “istituiva” un bel niente. Il rifiuto di parte palestinese, cioè dei leader delle comunità palestinesi, e non genericamente degli Arabi, come sostiene Colombo, non era affatto il rifiuto dello stato palestinese, ma l’atto legittimo di ripulsa del suggerimento, che gli toglieva qualunque effetto legale. L’ONU era talmente consapevole di ciò che nel 1948 approvò la risoluzione 194 che cercava di aggirare il rifiuto palestinese ma vincolava Israele a riaccogliere i profughi della Nakba, pena la nullità della risoluzione. Israele rispose con una legge che proibiva il riaccoglimento anche di un solo profugo. Inoltre, per tornare al piano di partizione del 1947, a pagina 104 Colombo dice che la risoluzione con cui nasceva Israele passò all’unanimità, mentre in realtà il risultato delle votazioni della 181, unica risoluzione a cui Colombo può fare riferimento sia pure sbagliando l’anno, fu di 33 a favore, 13 contrari, e 10 astenuti.
Sempre parlando di questo periodo Colombo sostiene che fu l’Unione Sovietica il principale patrocinatore di Israele, vincendo anche qualche riluttanza americana, ma l’unico fatto storico che sostanzia minimamente questa affermazione è che l’Unione Sovietica fu la prima nazione a riconoscere su base bilaterale Israele dopo la unilaterale Dichiarazione di Indipendenza di questo nel 1948. Un atto diplomatico tra due stati che non ha nulla a che vedere con l’ONU, che ammetterà Israele come stato membro solo un anno dopo. Quanto alla presunta riluttanza degli USA, qualora pure si sia manifestata in una qualunque fase del processo della nascita dello stato d’Israele, essa non fece certo capolino in occasione dell’approvazione del Piano di Partizione, che fu una creatura fortemente voluta da Harry Truman, che aggirò il Dipartimento di Stato, fortemente contrario, e fece enormi pressioni su stati che si trovavano in una situazione di dipendenza verso gli USA, come le Filippine, il cui originario orientamento di voto era contrario.
Abbiamo accordato il beneficio del dubbio a Furio Colombo ammettendo la possibilità che le sciocchezze che dice a proposito del primo vertice di Camp David nel 1978 e della crisi degli ostaggi in Iran nel 1979 possano essere sviste dovute alla fretta di far uscire subito un instant book. Ma come dobbiamo considerare le sciocchezze che dice a proposito dei dati storici della nascita di Israele e della fatidica data del 1948? Ignoranza o deliberata disinformazione? E ammettendo che quella dell’ignoranza sia un’accusa meno grave per un giornalista che non l’opera di attiva disinformazione, come può quadrare questa ignoranza con l’affermazione che Colombo fa nel libro di avere una esperienza pluridecennale di sostegno allo stato di Israele? Non ha avuto il tempo di leggere anche solo i testi ufficiali delle risoluzioni ONU?
Ma forse tra ignoranza e deliberata disinformazione esiste una terza possibilità, più convincente e più vicina alla tesi dell’ignoranza, anche se non si identifica del tutto con essa. Nella sua opera di propagandista filo-israeliano Furio Colombo prova un sovrano disprezzo per il dato storico-filologico, intanto perché sa o intuisce che è meglio non andare a vedere queste cose troppo da vicino, ma soprattutto perché è convinto che l’abilità letteraria (che nessuno gli contesta) unita a quella particolare retorica di cui dà saggio nel libro, e cioè la traduzione del programma sionista nel linguaggio politico della sinistra, gli permetterà di evitare gli inconvenienti della sua documentazione fragile e rachitica.
Campioni di questa retorica sono disponibili a ogni voltar di pagina, limitiamoci dunque ad esaminarne uno. Scrive Colombo a pagina 20: “Ma chi si è formato nel ricordo della Resistenza, che è stata liberazione dal razzismo e dalle persecuzioni, con amara sorpresa si trova di fronte ad un aspro sentimento di rabbia e di sdegno contro Israele, nato dalla vittoria contro il nazismo e il fascismo, e quindi dalla Resistenza”.
In queste poche parole Furio Colombo comincia ad autonominarsi curatore testamentario della Resistenza, giacché lui più di chiunque altro ne conosce i valori autentici e sa che i suoi eredi più fedeli amano Israele. E’ ben possibile che a sinistra si trovi qualcuno che verso Israele covi invece un “sentimento di sdegno e di rabbia”, anzi sono un bel po’ dato che il libro La fine di Israele parla proprio della solitudine di Israele rispetto alla sinistra mondiale, o almeno europea. Ma la cosa si spiega subito col fatto che tra questa sinistra ipermaggioritaria a cui non piace Israele, non vi è alcuno che “si è formato nel ricordo della Resistenza, che è stata liberazione dal razzismo e dalle persecuzioni”. A differenza di Colombo. E se questa gente di sinistra dice che invece si ispira proprio alla Resistenza al nazi-fascismo nella sua ostilità a Israele, è perché sta parlando di un’altra resistenza e non di quella su cui Colombo – grande storico, come abbiamo visto – ha apposto il suo personale certificato di origine controllata.
Inoltre, seguendo il suo tipo di logica deduttiva (“e quindi…”) si potrebbe sostenere che la CIA è una grande istituzione antifascista, essendo nata dalla ristrutturazione dell’OSS, l’insieme dei servizi di intelligence americani che combatterono Hitler, e pazienza che la CIA sia stata l’angelo custode di quasi tutti i regimi fascisti del mondo dalla seconda guerra mondiale a oggi, spesso in joint venture con Israele (si pensi al Sud Africa, al Guatemala e al Salvador negli anni 80).
Altro esempio delle frasi vuote di Colombo è la sua equiparazione del sionismo al Risorgimento italiano (e cara grazia che dopo la Resistenza e il Risorgimento non abbia citato anche Pietro Micca, Pier Capponi, i vespri siciliani, le guerre puniche e Furio Camillo). Il concetto sarebbe che l’Italia è diventata uno stato unitario attraverso il Risorgimento e Israele attraverso il Sionismo, pari pari e senza resto. Violento fu il Risorgimento e violento, necessariamente ma altrettanto legittimamente, fu l’attuazione del progetto sionista. Nel riconoscere che vi furono violenze sioniste nella fase di fondazione di Israele Colombo fa almeno lo sforzo di prendere le distanze dall’osceno slogan “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”, con cui si giustificarono da parte sionista le violenze che Colombo ammette e che, giova ricordarlo, si concretarono in niente di meno che un’opera di pulizia etnica della precedente popolazione indigena. Ma la vera obiezione è che prima del Risorgimento solo Metternich negava che ci fosse un territorio che si chiamava Italia e che questa Italia apparteneva agli Italiani che vi vivevano da sempre. Non erano uno stato unitario, ma erano un popolo e una nazione che viveva sul suo territorio avito, e le cui aspirazioni verso l’Indipendenza erano state ostacolate nei secoli dalle potenze straniere occupanti e dalla Chiesa. Nella terra di Palestina non c’era niente del genere prima dell’inizio del progetto sionista. A questa difficoltà Colombo risponde in due modi. Primo, come un qualunque stupido studente Yeshiva scrive: “Le Nazioni Unite non hanno scelto i territori palestinesi da concedere ad Israele: la scelta era stata fatta secoli prima dal celebre saluto della Diaspora (“L’anno prossimo a Gerusalemme”)”, e poi prosegue: “…ed era stata confermata, come fede e invocazione pubblica, dal sionismo laico e socialista, nato negli stessi anni in cui i patrioti italiani proclamavano Roma…”, sottintendendo che folklore ebraico e fantasie sioniste sono una fonte di diritto più che sufficiente a far si che la “scelta” degli Ebrei di prendersi la terra dei Palestinesi sia la cosa più naturale e legittima del mondo.
Il secondo argomento, meno vacuo e più sottilmente consapevole della natura coloniale e aggressiva del progetto sionista, è l’affermazione che non vi era mai stato uno stato di Palestina prima dell’immigrazione sionista, neanche nella forma frammentaria degli staterelli italiani prima dell’unificazione. La nozione viene ripetuta, e ripetuta, e ripetuta, per arrivare a suggerire, senza mai dirlo esplicitamente, che se non vi era uno stato nell’accezione propria del termine, non vi erano perciò neanche diritti nazionali da parte delle popolazioni indigene, e dunque vi era un diritto di predazione da parte di chi, venendo da fuori, poteva disporre di più ricchezza e forza militare. Questo era vero per i nuovi predoni coloniali, i Britannici, subentrati agli Ottomani, ed era vero per i predoni Ebrei sionisti, che utilizzarono l’infrastruttura coloniale britannica per forzare le porte dell’immigrazione, e per sfruttare l’ignoranza dei contadini palestinesi, che non sapevano difendersi legalmente dai frutti avvelenati del recente codice civile ottomano, che inventava proprietà individuali dove per secoli c’erano stati diritti comunitari, permettendo al Fondo Nazionale Ebraico di acquistare da privati che vivevano a Damasco o a Istambul terre comuni che appartenevano alle comunità contadine, che col lavoro di generazioni avevano reso fertili i suoli e creato un ammirevole rete di irrigazione.
Gli esempi potrebbero essere moltiplicati, ma già dovrebbe essere chiaro il procedimento di Furio Colombo: si prendono parole come Olocausto, Resistenza, Risorgimento, Sionismo, gli si dà una bella shakerata, e si crea un alone emotivo in cui cose molto diverse tra loro appaiono come se fossero la stessa cosa. A questo punto ci si rivolge alla sinistra e si dice: lo vedete? Se siete di sinistra non potete che amare Israele. Qualche amante dei beveroni potrebbe anche cascarci.
Altra mossa di Furio Colombo è la menzione costante di David Grossman come campione dell’anima più profonda di Israele, e della vocazione di Israele alla pace. Come si mettono i critici di sinistra di Israele di fronte a Grossman, che ovviamente li spiazza? Colombo sembra dare per scontato che la figura di David Grossman sia al di là di ogni critica, e questo perché quando La Repubblica, giornale di sinistra, vuole un articolo “pacifista” sul conflitto israelo-palestinese, lo fa scrivere a Grossman. Torneremo in seguito su questa confusione che Colombo fa costantemente tra l’ufficialità della sinistra dei partiti e dei grandi organi di stampa, e le opinioni e i sentimenti reali della gente di sinistra. Sta di fatto che David Grossman non è affatto la moglie di Cesare, e può essere messo in discussione eccome. Il fondamentale sionismo di Grossman lo porta a evitare attentamente qualsiasi analisi sulle cause reali del conflitto, rendendo blande le sue critiche alle posizioni Israele e riducendo tutto il suo discorso sulla pace a un appello ai buoni sentimenti. La prova migliore di ciò è che le organizzazioni pacifiste e dei diritti umani di Israele ignorano del tutto, o quasi, David Grossman, come Oz e Yehoshua, in quanto autori di un pacifismo letterario tutto a uso e consumo della patinata stampa europea. La natura dell’impegno di pace dei tre si può cogliere dalla loro lettera di appoggio all’invasione del Libano un anno fa, pubblicata quando tutti credevano che Israele avrebbe vinto, e smentita da un’altra lettera, ancora firmata dai tre e invocante stavolta la pace, pubblicata pochi giorni prima della cessazione delle ostilità, quando era ormai chiaro che Israele non poteva venire a capo di Hezbollah. Istinti pacifisti che, come un fiume carsico, appaiono e scompaiono secondo i pronostici sull’andamento delle operazioni di IDF.
Ma c’è ancora qualcosa da dire su Grossman. I suoi limiti, di cui Colombo non ha e non può avere sospetto, sono fondamentalmente ideologici, legati al suo sionismo che gli impedisce di assumere condotte che potrebbero davvero impensierire Israele. Di fatto, nel volere essere la coscienza critica di Israele, Grossman riesce solo a esserne il fiore all’occhiello agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. I suoi accorati appelli alla pace fanno meno per rimuovere gli ostacoli che vi sono dentro Israele per muoversi in quella direzione, che non per permettere ai difensori di Israele di dire: “Come potete dire che siamo dei guerrafondai quando i nostri più grandi scrittori, Grossman, Oz e Yehoshua non fanno che parlare della necessità di fare la pace con i Palestinesi e il mondo arabo?” Ciononostante i limiti di Grossman sono essenzialmente ideologici, e lui non può agire in maniera davvero incisiva perché dovrebbe mettere in discussione troppi tabù. Ma questo non significa, nella modesta opinione di chi scrive, che Grossman non abbia una sua integrità e un sincero desiderio di pace, per quanto perseguito in modo inadeguato. Ed è bene dire subito che se Colombo, implicitamente, attraverso la menzione elogiativa di Grossman vuole suggerire al lettore di La fine di Israele che il Grossman italiano è lui, questa pretesa va confutata subito. Di Grossman Colombo non ha l’integrità, e il suo desiderio di pace è assai più di circostanza e retorico, essendo in realtà tutte le sue energie impegnate nell’apologia di Israele. Furio Colombo non è il Grossman italiano, è il Dershowitz italiano, cioè il fabbricante su scala industriale di sofismi filo-israeliani in salsa liberal-sinistroide. Il consenso dei progressisti, spendibile sul piano politico in Medio Oriente come in Italia, gli interessa assai più della pace.
Dove però la meschinità dialettica di Furio Colombo rifulge nel modo più brillante è quando arriva a parlare dei nemici diretti di Israele, che sono nell’ordine i “ricchi paesi arabi”, l’Iran, Hezbollah e Hamas. No, tra i nemici di Israele non si annoverano i Palestinesi, per qual tanto di etica della politica che Colombo ha in comune con Walter Veltroni.
I “ricchi stati arabi” vengono continuamente presentati nel libro per ribaltare la comune visione di Israele, stato ricco e potente, di suo e per i gli appoggi internazionali di cui gode, proponendo un nuovo schema Davide (Israele) e Golia (stati arabi), dove la differenza del potere è data dal petrolio, che gli Arabi hanno e Israele no. Avendo già dato all’inizio un assaggio di cos’è la storia contemporanea per Furio Colombo si ha l’impressione di sparare sulla Croce Rossa quando si ricorda che i paesi leader del nazionalismo arabo, il nemico storico di Israele prima del sorgere della minaccia islamista, erano l’Egitto e la Siria, paesi con una produzione di petrolio modesta, e il cui rango internazionale era dovuto semmai all’alleanza con l’Unione Sovietica. Analogamente si può ricordare che i paesi del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita, sono satrapie filo-occidentali, che non normalizzano i rapporti con Israele perché la gente farebbe cadere quei regimi in cinque minuti. Gli unici stati che rientrano nella caratterizzazione di Colombo sarebbero l’Iraq e l’Iran, ma il primo ha avuto solo un ruolo secondario nelle guerre con Israele, fino a uscire definitivamente di scena nel 1991, e il secondo non è mai stato una minaccia fino al 1979 perché la dittatura filo-americana dello Sha ne faceva semmai un buon amico. Eppure nel dettato colombiano questi stati avrebbero congiurato contro la nascita di uno stato palestinese vuoi per ingordigia verso quella terra su cui in molti avevano mire annessionistiche (a differenza di Israele), vuoi per un irreconciliabile odio verso Israele a cui non avrebbero mai concesso alcuna chance. I Palestinesi sarebbero stati solo osservatori passivi di questo grande gioco che veniva fatto sulle loro teste, tra l’irrazionale violenza araba e il povero meschino Israele costretto a difendersi per la sua sopravvivenza. Per quanti a sinistra possano trovare interessante una simile posizione occorre avvertire che la lettura di La fine di Israele lascia pochi dubbi: Colombo vi concederà volentieri di avere simpatia per i Palestinesi, ma se volete saltare sulla sua barca dovrete condividere la sua razzistica caratterizzazione della politica araba. Il corrispettivo iconografico è un arabo barbuto, con gli occhi da pazzo e un pugnale tra i denti, che stringe un kalashnikov con una mano e una pompa di benzina con l’altra.
In conformità con le direttive di propaganda del ministero degli esteri di Israele, la vera e nuova bestia nera di Colombo è l’Iran e Ahmadinejad. In tutto il libro, in maniera ossessiva e quasi ipnotica si ripete che Ahmadinejad avrebbe proclamato l’intenzione di “cancellare Israele dalle carte geografiche”. Il tormentone è esasperante. Va precisato che il libro è stato stampato nel Giugno del 2007, quando Furio Colombo avrebbe avuto tutto il tempo di venire a sapere che quella traduzione delle parole di Ahmadinejad è, nella migliore delle ipotesi, controversa, e molto probabilmente fraudolenta e tendenziosa. Nell’originale in farsi, infatti, non compaiono né la parola “cancellazione” né le parole “carte geografiche”. Ahmadinejad dice invece che Israele scomparirà dalla storia (e non dalla geografia), esprimendo una previsione curiosamente affine a quella che porta Furio Colombo ad intitolare il suo libro La fine di Israele. Per Ahmadinejad Israele scomparirà perché è troppo canaglia per sopravvivere, e per Colombo perché è a corto di buoni amici. Sfumature diverse per una sostanza che non cambia molto.
Ma su una questione come questa non vale davvero la pena scrivere una lettera all’Unità, come quelle, aspramente critiche verso Israele che Colombo riporta nel libro e che sono così affette da “pregiudizio antiebriaco” (non vorremo chiamare antisemiti i lettori dell’Unità, vero?). Il fatto che Ahmadinejad sia l’equivalente politico di Freddie Krueger, e che ciò sia dimostrato dalla sua affermazione di voler “cancellare Israele dalle carte geografiche”, appartiene a quel genere di credenze che resisteranno sempre, presso quelli come Furio Colombo, a qualunque assalto di evidenze contrarie basate sui fatti e che, col tempo, vengono a integrarsi in un nocciolo duro di propaganda filo-israeliana da custodire e passare alle future generazioni con l’atteggiamento più dogmatico e chiuso alla critica.
Un’altra credenza di questo tipo, ovviamente ribadita nel libro, è quella dell’aggressione araba sventata da Israele nel 1967 con l’attacco preventivo che dette luogo alla guerra dei sei giorni. Che persino nel fronte filo-israeliano, da Michael Oren ad Abba Eban, ormai ci sia gente che ritiene impresentabile questa versione dei fatti, o che pensa che essa andrebbe almeno discussa alla luce delle dichiarazioni di Moshe Dayan, che in un’intervista a Le Monde ammetteva candidamente di aver attuato nei giorni precedenti l’attacco provocazioni attive nelle zone di confine demilitarizzate del 1948 con la Siria per spingere Damasco alla guerra, costituisce quel genere di argomento che non ha alcuna possibilità di scalfire le certezze granitiche di Furio Colombo. Perché si sa che se si vanno a toccare quei punti, tutto l’edificio della propaganda israeliana crolla.
E’ divertente lo sconcerto di Colombo alla passività del mondo di fronte al programma nucleare dell’Iran. L’Iran vuole dotarsi della bomba atomica, e quando l’avrà passerà alla “cancellazione d’Israele dalle carte geografiche”. Punto. Che in realtà l’Iran non stia facendo nulla a cui non abbia un “diritto inalienabile” in virtù del Trattato di Non Proliferazione (di cui è sottoscrittore), che consente e incoraggia l’uso dell’energia atomica a scopi civili, e che l’Iran abbia bisogno di energie alternative perché i mari di petrolio su cui si galleggia non eliminano di per sé gli elevati costi della raffinazione, costringendo l’Iran a importare benzina dall’estero, viene ignorato con tale tracotante sufficienza da infastidire persino chi non se la sente affatto di escludere che il vero obiettivo di Teheran sia l’acquisizione della bomba atomica. C’è un punto nel libro in cui l’autore esprime la sua angoscia per la negligenza del mondo verso la potenza missilistica nord-coreana (ampiamente sotto controllo) e l’arsenale nucleare iraniano (inesistente). Ma il lettore che iniziasse a leggere La fine di Israele ignorando i termini elementari del problema nucleare, arriverebbe all’ultima pagina senza aver appreso che l’unica potenza nucleare del Medio Oriente è Israele, tanto che l’arsenale nord-coreano al confronto impallidisce, che Israele si rifiuta di sottoscrivere il Trattato di Non Proliferazione nucleare, e che nella diplomazia occidentale l’atomica israeliana è un tabù a cui non si può nemmeno fare cenno (1). L’altra clamorosa omissione che restituisce bene il senso dell’integrità morale dell’apologetica filo-israeliana di Colombo, è che in tutto il libro non viene mai pronunciata la parola “insediamenti”, e l’autore sembra ignaro che nel momento in cui, uno o due mesi fa, metteva la parola fine al suo libro (e ora, per chi sta leggendo questa recensione), l’attività di espansione coloniale israeliana nella West Bank procedeva a tutto vapore. Tanto per aiutare la causa della pace.
Di Hamas ed Hezbollah, in tutto il libro, si parla come se fossero la Spectre o Fantomas, cioè organizzazioni dedite al male perché essenzialmente maligne e votate alla congiura contro tutte le persone del bene del mondo. Se qualcuno descrivesse polemicamente Israele con il senso della sfumatura di Furio Colombo quando parla di Hamas ed Hezbollah si direbbe che sta prendendo i suoi esempi dai Protocolli dei Savi di Sion, ma si sa, se la disinformazione dell’Ochrana zarista avesse preso di mira gli Arabi oggi sarebbe molto più simpatica. Per la verità una piccola “analisi” è dedicata ad Hezbollah per mettere in rilievo l’abbondanza delle sue fonti di finanziamento e il carattere sofisticato dei suoi armamenti. Questo, secondo la sua logica, dovrebbe essere sufficiente a smentire la sua natura di organizzazione partigiana. A Furio Colombo, “formato nel ricordo della Resistenza”, i partigiani piacciono con le pezze al culo, finanziati dalle collette fatte al bar, e armati con la doppietta del nonno.
Per finire spendiamo qualche parola sulla scaltra confusione con cui Colombo parla di “sinistra”. La frase chiave di tutto il libro è questa: “Gli Europei si fanno avanti con richieste severe verso Israele, blocchi di accordi culturali e accademici, blocco della cooperazione militare, ma non si sono mai sognati di essere così severi con Hezbollah e con il presidente iraniano. Né di obiettare, da sinistra, al vasto coinvolgimento inglese (governo laburista) nella disastrosa infinita guerra in Iraq. Perché Blair merita tutta la nostra fiducia, mentre Olmert va messo sotto severa tutela? Perché tutti ci specializziamo nella lista dei suoi errori mentre Blair non paga neppure il prezzo che è toccato a Bush?”
Colombo è più a sinistra di Tony Blair, par di capire. E si secca vedendo che gli Europei di sinistra, quelli che invocano “richieste severe verso Israele, blocchi di accordi culturali e accademici, blocco della cooperazione militare”, non se la prendano con Blair almeno altrettanto seriamente di come fanno con Olmert. Naturalmente, chiunque si sia occupato di campagne di boicottaggio o di messa “sotto tutela” di Israele sa che queste posizioni vengono da ambienti della sinistra che disprezzano Blair almeno tanto quanto disprezzano Olmert, e in realtà molto di più. Viceversa, la sinistra che conosce il senatore Colombo (ex dirigente Fiat), quella che si incontra nelle redazioni della Grande Stampa Libera italiana o alla bouvette di Palazzo Madama, come non parla mai male di Blair neanche si sogna la notte di avanzare “richieste severe verso Israele, blocchi di accordi culturali e accademici, blocco della cooperazione militare”. Ma usando la parola “sinistra” come amalgama dialettico, ecco che si fondono insieme due cose completamente diverse, e ciò che in realtà le distingue profondamente viene presentato come contraddizione insita in un’unica entità. E la sinistra passa per ipocrita.
La verità è che l’impresa che Furio Colombo si propone con questo libro, conquistare la sinistra alla causa di Israele, è disperata e intrinsecamente contraddittoria, perché nel momento in cui ci riuscisse non sarebbe più la sinistra, ma un’altra cosa.
(1) Nelle settimane scorse è stato nuovamente arrestato Mordechai Vaanunu, il tecnico israeliano rapito a Roma da agenti del Mossad il 30 settembre 1986, e tenuto dodici anni in carcere per avere rivelato che Israele aveva un arsenale atomico. Fu liberato a patto che non facesse più né viaggi né dichiarazioni pubbliche, impegno che ha violato. (n.d.r.)
PICCOLA BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA DA CARMILLA
Ilan Pappe, A History of Modern Palestine, Cambridge University Press, 2004.
Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Rivisited, Cambridge University Press, 2004 (lo storico Benny Morris, allineato oggi al governo israeliano, passa tra l’altro in rassegna i metodi usati per strappare la Palestina agli arabi, incluso lo “stupro etnico”).
Eugene L. Rogan, Avi Shlaim (a cura di), The War for Palestine. Rewriting the History of 1948, Cambridge University Press, 2001.
Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista, 1881-2001, Rizzoli, 2001 (tra le altre cose, Morris spiega come fu iniziata la “guerra dei sei giorni”).
Norman J. Finkelstein, Beyond Chutzpah. On the Misuse of Anti-Semitism and the Abuse of History, University of California Press, 2005 (Finkelstein demolisce le posizioni dell’apologeta di Israele Alan M. Dershowitz).
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