di Valerio Evangelisti (da Robot n. 50)
Sul retro del DVD Filippo Mazzarella, del Corriere della Sera, dice categorico “Un capolavoro”. E Luca Castelli, de Il Mucchio Selvaggio, rincara: “Incanta, ipnotizza, affascina e stupisce”. Per una prossima edizione del DVD, proporrei di aggiungere il mio commento: “Sarà, però non ci si capisce una mazza”.
Mi sono risolto a vedere questo film, malgrado un’istintiva diffidenza, proprio perché ne avevo sentito dire un gran bene: della pellicola e del regista, tale Kazuaki Kiriya, finora ignoto alle masse. Ora bisogna che ritrovi uno degli entusiasti, non tanto per chiedergli il motivo del suo plauso, quanto per raccomandargli un lungo periodo di riposo, lontano dallo stress del vivere quotidiano.
Premetto che non ho mai visto la serie di cartoni animati da cui Kyashan, la rinascita trae ispirazione. Può essere un handicap: quando vidi Akira, e ci capii poco o nulla, mi dissero che era perché non avevo mai letto il fumetto. Magari è lo stesso caso. Seguito però a restare dubbioso sul fatto che, per capire il senso di un film, io debba leggermi prima pile di fumetti oppure, nel caso in questione, sorbirmi non so quanti cartoni animati. Però ammetto le mie limitazioni, e passo a ciò che ho visto, nella mia beata ignoranza.
Dunque, la storia è ambientata in un futuro superinquinato (nebbia ovunque, fumi, panorami giallognoli disegnati a mano, si suppone una gran puzza) in cui la Grande Asia, dominata da una ferrea dittatura, è perennemente in guerra contro un misterioso nemico occidentale. Uno scienziato ha scoperto il modo di creare cellule capaci di rigenerare organi umani (qui alcuni miei lettori potrebbero trovare assonanze con un mio romanzo, però rigetto con sdegno la parentela), e coltiva detti organi in una vasca. Gli anziani capi del regime vedono nella scoperta un modo per ringiovanire, e incoraggiano la ricerca. Nella vasca finiscono organi e arti — soprattutto una notevole quantità di piedi — di soldati morti in battaglia.
Non tutto fila liscio. Dal cielo scocca una sorta di fulmine, suppongo di origine divina, che colpisce la vasca. Gli arti sparsi si uniscono, i corpi si riformano. Dalla vasca escono morti tornati in vita.
Qui devo notare che, assieme alle parti corporee, il mistico fulmine deve unire anche gli stracci. E’ infatti coperti di stracci che i resuscitati escono barcollanti dalla vasca (forse si sono vestiti sott’acqua, o per meglio dire sotto sangue, per non mostrare le pudenda).
L’infame governo razzista emana un ordine di sterminio. I redivivi sono quasi tutti abbattuti. Si salvano solo un figlio dello scienziato e suo fratello, entrambi morti in guerra, messi ammollo a rigenerare (qui però potrei sbagliarmi nelle parentele, stavo sonnecchiando e non ho colto bene il passaggio).
Non chiedetemi il nome di tutta questa gente. I fratelli, ovviamente l’uno cattivo e l’altro buono, si schierano su fronti apposti. Il cattivo, con un parrucchino bianco più ridicolo di quello di Ed Bishop nella serie UFO, e un gran mantello rosso, raccoglie i resuscitati sopravvissuti alla strage e annuncia guerra spietata agli umani. Lo fa in un tempio ornato da simboli in stile simil-nazista, e annuncia che i ribelli costruiranno robot utili alla bisogna. Li vediamo subito dopo: sono aggeggi ispirati all’omino pneumatico della Pirelli, con un torace enorme e una testa minuscola, sormontata da un chiodo. Marciano, fanno manovre complicate, si incrociano, sobbalzano.
Il discorso del cattivo è esemplare. Una ridda di parole, praticamente incomprensibile. Annuncia che i nuovi padroni del mondo si chiameranno “Neuronidi”. Perché “Neuronidi”? Non è spiegato. Del resto è una domanda superflua. Perché una famiglia si chiama Vincenzi e un’altra Brambilla? Il chiamarsi Neuronidi rientra nello stesso novero di opzioni.
Mentre l’aspirante dittatore pronuncia il suo delirante programma, il regista ritiene opportuno intervallarlo con fuggevoli immagini di ruote e pulegge in movimento, forse presagi dell’incipiente venuta dei robot. Ma in tutto il film ogni scena è interrotta di continuo da brevi serie di fotogrammi senza rapporto comprensibile con la storia. Si tratta di visioni urbane, di congegni, di ruote che girano vorticosamente, di cumuli di spazzatura o, nei momenti romantici, di lucine enigmatiche, di circoli che contengono cristalli di neve, di pulviscolo luminoso, di raggi piovuti dal cosmo.
Quanto al personaggio “buono”, credo con qualche riserva fratello del malvagio (ma che contrapposizione originale!), viene vestito di una tuta bianca “perché il suo corpo non scoppi” — forse una delle controindicazioni alla rinascita. La sua vita di soldato crudele, poi convertito al pacifismo da scrupoli morali e dalla bella fidanzata, ci è ammannita attraverso un mezzo migliaio di flashback (ovviamente in bianco e nero, altrimenti quale flashback sarebbe?).
Tutto il film è farcito di flashback, col risultato che un minorato mentale, colpito a morte, ci mette tre quarti d’ora a morire, mentre sbava copiosamente (l’intero cast sbava, a dire il vero). Durante la sua agonia appaiono curiosi pupazzetti con gli occhi a palla, che si inerpicano lungo colline boscose (forse il regista, nella sua sottigliezza, voleva dirci che il minorato nutriva fantasie infantili). Intanto chi è attorno piange, e piange per tre quarti d’ora, sulle due ore e mezza che dura la pellicola.
Veniamo ai dialoghi, divisi in due categorie.
La prima è quella dei dialoghi degni di Ehi amico! C’è Sabata, hai chiuso!. “Io sono l’odio personificato”, dice il Male con i capelli bianchi. “Anch’io avevo un figlio all’incirca della tua età”, dice un anziano protagonista dei flashback rivolto a un giovane militare. “Io sono un soldato, e un soldato deve fare il suo dovere”, esclama un cattivo con elmetto nazista. C’è una sensazione non di déjà vu, ma di déjà entendu…
Quindi vengono i pistolotti ideologici, lunghissimi e di dubbia comprensione. Forse è colpa del traduttore, ma il senso, la grammatica e la sintassi sono sconnessi. Lasciamo perdere le frasi del cattivo, che magari suonano confuse per la loro origine diabolica, però le osservazioni fuori campo del buono, tipo “Non abbiamo imparato a perdonarci”, paiono altrettanto surreali — anche perché il buono ha appena fatto fuori il cattivo.
Poi ci sono i silenzi, lunghissimi, con scambi di occhiate. Interrotte da un “Ehi”. La ragazza interpellata si volta. I due si fissano a lungo con occhi inespressivi. Alla fine lui dice “No, niente”. Sembrano Fabio e Fiamma al loro peggio.
La fine? Chiaramente non la anticiperò. Dirò solo che qualcuno vince (il Bene o il Male? Scegliete voi), e ci sono allegre corse in bicicletta fra i prati. Se non altro, siamo liberi dagli sfondi di cartone, dai flash di pulegge, dalle visioni di spazzatura, dalle luci obbrobriosamente false che ci avevano ossessionato fino a quel momento.
Dimenticavo: Ma chi è Kyashan? Pare si tratti di un’antica divinità del Giappone, la stessa che mandò il fulmine nella vasca.
Sono proprio contento di avere visto un capolavoro, Kyashan boia!