di Antonio Moresco
[Il mese scorso è uscito il primo numero di una bellissima rivista letteraria, Il primo amore, espressione cartacea del sito omonimo, altrettanto bello. Dall’editoriale di Antonio Moresco, La rigenerazone, traggo un brano che mi sento di condividere pienamente.] (V.E.)
Non facciamo che disperarci per la situazione del nostro paese. Ci arriva l’immagine di un paese marcio, in cui ogni movimento e ogni intento tendono a venire bloccati, in ogni campo. Dentro questa cancrena milioni di donne e di uomini cercano di continuare a vivere e a perpetuarsi. Molti cercano di non sottrarsi alle proprie responsabilità, pur all’interno di una situazione simile, anche se non si fanno illusioni. Si cerca di comportarci con dignità, nel proprio lavoro e nella propria vita, si prende posizione pubblicamente, si va a votare anche quando ti farebbero passare la voglia di farlo, ecc… Perché, anche se è evidente a cosa sono stati ridotti il nostro paese e quella cosa chiamata “democrazia”, non ci si può permettere di ignorare la drammatica contingenza in cui ci troviamo.
Siamo appena usciti — speriamo per molto — da una situazione di emergenza democratica e di disonore e servaggio, che hanno rivelato ancora una volta la gracilità delle strutture civili del nostro Paese. Ma non possiamo nasconderci che le aggregazioni di potere e controllo, verticali e orizzontali, palesi o occulte, si continuano a reggere su strutture in vario modo mafiose. Autoreferenzialità cieca, irresponsabilità di oligarchie politiche direttamente comprate e sotto padrone o che vanno avanti come se niente fosse coi loro piccoli giochi di potere e di casta.
Allo stesso modo si comportano i gruppi economici, religiosi, le macchine culturali, sportive, mediatiche e dell’intrattenimento. Come se avessimo di fronte tempi storici illimitati e non fossimo invece dentro un’emergenza che ha caratteri nuovi e mai visti prima, di specie. Piccoli gruppi che combattono per la propria sopravvivenza utilizzando precedenti strutture organizzative e mentali ormai oltrepassate, che non sono da tempo proporzionali a quanto sta avvenendo nella vita del nostro paese e del mondo. Gruppi politici che non riescono più a mascherare la plateale evidenza del fatto che le vere decisioni vengono prese altrove, sulla testa dei cittadini abbindolati con misere farse mediatiche. Gruppi intellettuali e culturali che stanno al gioco o che credono basti fare del piccolo fiancheggiamento di queste strutture terminali e inerti (ricavandone un utile di immagine e status) per avere esaurito il proprio compito e giustificato eticamente la propria presenza.
Vediamo ogni giorno sui giornali gli specchietti delle collocazioni politiche dei vari intellettuali, le zone politiche attorno a cui gravitano, con tanto di costellazioni di faccine rotanti attorno a stelle morte da tempo. Strutture economiche cieche e di breve respiro, che hanno dimostrato più volte anche negli ultimi anni la loro irresponsabilità e spregiudicatezza e grettezza, giocando sulla pelle del paese in cambio di utili che a volte non riescono neppure a riscuotere. Strutture religiose secolari che esibiscono la loro pompa vuota e grottesca, la loro retorica senz’anima, il loro imperio e il loro furibondo attaccamento a ciò che le mantiene in vita, senza guardare in faccia nessuno, legandosi addirittura a quanto c’è di peggio nell’Italia e nel mondo, basta che agiti un’ipocrita maschera di facciata, basta ricavarne in cambio privilegi economici e potere di gestione e controllo.
Questa situazione senza speranza non attraversa solo il mondo pubblico e mediaticamente emerso, attraversa anche, da parte a parte, ogni postura umana, ogni fibra. Anche i corpi, le espressioni, i gesti, le facce trasmettono una sensazione di spossessamento e di morte, in questi anni. Basta andare in giro per strada e avere il coraggio di guardare in modo diretto i volti che ci stanno intorno, i gesti più comuni di uomini e donne, l’automatismo delle loro smorfie sociali e dei loro sorrisi incollati. Tutte queste chiostre televisive di denti perennemente allo scoperto, senza la giustificazione e il dono della felicità, dell’allegria e dell’amore. I discorsi che si sentono, le parole usate. La pesantezza di tutti questi volti nudi allineati sul sedile di fronte della metropolitana, la continua recita della vita da parte di questi poveri organismi buttati a riva dalla risacca delle generazioni. Questo è un paese che – non molti decenni fa — ha assaggiato il fascismo. E gli è piaciuto. Ciò che vediamo ogni giorno attorno a noi ci mostra in modo impietoso che siamo un paese perduto. Siamo un paese perduto. Chi non lo vuole vedere, e si limita ad agitare la consolazione di piccoli rimedi di facciata, è in realtà una persona cinica e senza speranza.