di Valerio Evangelisti
[Carmilla completa l’omaggio a Lovecraft, iniziato qui e qui, con questo scritto. E’ l’introduzione al romanzo Il caso di Charles Dexter Ward, pubblicato dalla BUR alcuni mesi fa.]
Specialista in narrativa breve, Howard Phillips Lovecraft ha lasciato poche opere classificabili, un po’ a fatica, come romanzi. Una di queste è Il caso di Charles Dexter Ward (“The Case of Charles Dexter Ward”), di tutte la più compiuta. Non sono di pari livello, a mio avviso, né Le montagne della follia (“At the Mountains of Madness”, 1931), omaggio non troppo riuscito al Gordon Pym di Poe (è l’unico scritto in cui Lovecraft descrive nei dettagli alcune delle sue creature mostruose, e si perde nell’impresa per pagine e pagine), né lo stucchevole Alla ricerca della sconosciuta Kadath (“The Dream-Quest of the Unknown Kadath”, 1927, pubblicato nel 1943), ispirato alla prosa barocca di Lord Dunsany.
Invece Il caso di Charles Dexter Ward, scritto nel 1927 ma apparso postumo (a puntate, nel 1941, sulla rivista popolare Weird Tales), è tra le opere migliori e più significative di Lovecraft. Dico subito che contiene tutti i difetti tipici della narrativa di quest’ultimo: un’aggettivazione esuberante e a volte fastidiosa (si sprecano gli “orribile”, “malvagio”, “malefico” ecc.), un uso incongruo degli avverbi, un ricorso insistito a vere catene di soggetti narranti (ne Il caso chi racconta riferisce le considerazioni di certo dottor Willett, il quale narra la vicenda di Charles Dexter Ward e, attraverso le ricerche di questi, la fosca avventura dello stregone Joseph Curwen; con l’esito di rendere ossessivo, data la molteplicità delle fonti e dunque le supposte incertezze dei fatti raccontati, l’uso del condizionale); l’assenza di psicologie credibili, dovuta anche alla mancanza totale di dialoghi in grado di rivelarle.
Tuttavia, accanto ai difetti, vanno segnalati i pregi: capacità di suggestione, ritmo narrativo che, malgrado l’apparente lentezza, riesce a generare autentica suspense, e abilità da pochi eguagliata nel risvegliare, nel subconscio del lettore, inquietudini quasi archetipiche, padroneggiando gli strumenti simbolici di una singolare mitologia.
Purtroppo, malgrado la popolarità conseguita da Lovecraft nei decenni seguiti alla sua scomparsa nel 1937 (di cui sono testimonianza le decine di film tratte da suoi racconti, tra cui l’ottimo La città dei mostri di Roger Corman, libero adattamento de Il caso di Charles Dexter Ward), la sua fortuna critica è lungi dall’essere soddisfacente. Fino all’eccellente saggio di Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contre le monde, contre la vie (1991), peraltro incentrato più sulla personalità dello scrittore americano che sul suo lavoro, quasi tutti gli studi su Lovecraft sono stati opera di entusiasti, tesi a celebrare il loro idolo (talora elevato al rango di profeta e sciamano, detentore di verità occulte) più che ad analizzare pregi e limiti della sua scrittura. Ciò vale anche per le ricerche anglosassoni di origine universitaria, dovute a dilettanti di rango (S. T. Joshi, P. Cannon ecc.) intenti a ricostruire con minuzia ogni dettaglio della vita dello scrittore, senza minimamente discutere la qualità della sua narrativa, data per scontata. Le cose sono cambiate solo con taluni apporti critici recenti, prevalentemente europei. Quanto all’accademia vera e propria, essa ha semplicemente ignorato Lovecraft, giudicato autore meno che marginale — complici, forse, due stroncature ingenerose scritte da Edmund Wilson nel 1945 .
Invece, se Lovecraft va sicuramente strappato agli altari costruiti da ammiratori adolescenti (o di animo adolescenziale, quando adulti), non merita di certo l’oblio. L’enorme attrazione che i suoi racconti continuano a esercitare, l’influenza che hanno avuto su numerosi altri scrittori di fantastico e non (incluso lo stesso Houellebecq e, si parva licet componere magnis, il sottoscritto), l’incoercibile fascino di tante sua pagine, la sua presenza mai venuta meno su media d’ogni tipo, ne fanno un “fenomeno” singolare. E quando parlo di “fenomeno” intendo letterario, non di mero costume.
Scrittore serio, Lovecraft ha oggi il diritto di essere discusso con strumenti seri, capaci di individuare le cause della permanente vitalità di larga parte della sua prosa.
Tra le molte doti di Lovecraft, una delle più evidenti consiste nel fare apparire antico ciò che non lo è, o che non lo è molto. Si prendano le pagine iniziali de Il caso di Charles Dexter Ward, con la bella descrizione della città di Providence, in cui lo scrittore trascorse quasi tutta la vita. Siamo negli Stati Uniti, e dunque gli edifici descritti come vetusti risalgono al XVIII secolo, più raramente al XVII. Simile “antichità” potrebbe far sorridere il lettore europeo (o anche latinoamericano), abituato a convivere con reliquie di un passato ben più remoto. Eppure Lovecraft riesce, grazie alla forza evocativa della sua scrittura, a fare sembrare l’urbanistica di Providence addirittura ancestrale (un poco come la New York, tutta guglie e torrette, ritratta da Roman Polanski all’inizio e alla fine del film Rosemary’s Baby).
E’ noto come Lovecraft amasse definirsi estraneo alla società che lo circondava (che peraltro, a differenza di ciò che alcuni oltranzisti hanno preteso, conosceva benissimo: lo dimostra la sua corrispondenza, piena di riferimenti all’attualità politica e sociale), nonché grande ammiratore del Settecento inglese – tanto da disegnare se stesso, nelle lettere agli amici, con enormi parrucche incipriate, e dal ricorrere a un inglese arcaico ogni volta che ne aveva occasione. Altrettanto conservatore appariva, fino agli ultimi due anni della sua vita (allorché cominciò ad apprezzare Roosvelt e il socialismo scandinavo), nelle questioni ideologiche. Simpatizzante per il fascismo e il nazismo, non era attratto dalla modernità di questi movimenti (razzismo a parte) e dal loro appello alle masse, quanto da ciò che li avvicinava a una concezione aristocratica della società e della vita. Consapevolmente o meno, la visione di Lovecraft si avvicinava a quella dell’Action Française: come per Charles Maurras e Léon Daudet, il regime ideale era per lui quello monarchico, con un’aristocrazia saggia e illuminata capace di entrare in un rapporto quasi paterno con le classi lavoratrici (Lovecraft accettava in toto le analisi economiche di Marx ed Engels sullo sfruttamento), senza il tramite costituito dalla borghesia.
Malgrado questo rimpianto per un passato che si sgretolava sotto i suoi occhi, in un processo che aveva proprio la borghesia quale agente, è dal passato che, nei racconti e nei romanzi di Lovecraft, proviene ogni minaccia. L’intero Il caso di Charles Dexter Ward è una specie di rincorsa all’indietro, alla ricerca delle scaturigini degli abomini che, dal sottosuolo, assediano l’altrimenti tranquilla città di Providence. Come si vedrà, l’indagine si spingerà non solo a uno o due secoli prima lo svolgersi degli eventi, ma addirittura al Medioevo e all’età romana, e dunque con antefatti (peraltro poco chiariti) nel Vecchio Continente.
Ciò introduce a un tema ricorrente in Lovecraft, e quanto mai in evidenza in un racconto molto affine al presente romanzo, intitolato Orrore a Red Hook (“The Horror at Red Hook”, 1925: ambientato a New York, città in cui lo scrittore visse alcuni anni). Il passato orrendo e tentacolare che cerca di proiettare la propria ombra sul presente ha un’espressione corporea, rappresentata dagli immigrati e, più specificamente, dai meticci, dai “mezzosangue”. Ne Il caso essi sono evocati, oltre che nelle descrizioni iniziali dei quartieri poveri di Providence, nelle figure dei pellerossa al servizio di Joseph Curwen (con la donna imbruttita ulteriormente dal sangue negroide), nonché in quella del servitore portoghese di Charles Ward. In Orrore a Red Hook si trattava invece, principalmente, di italiani scuri e sinistri, nonché di altra feccia multirazziale di origine asiatica oppure africana vomitata dai bastimenti in arrivo. Tutti costoro, a volte succubi e a volte complici, sono portatori di culti questi sì davvero antichi, e contribuiscono ad aprire brecce attraverso le quali divinità dimenticate possono infiltrarsi per riacquistare il dominio sugli umani.
In Orrore a Red Hook, anteriore alla cosmogonia successivamente elaborata da Lovecraft (con l’aiuto di alcuni colleghi) e comunemente chiamata dei “miti di Cthulhu”, gli dei di ritorno sono i meno rassicuranti della mitologia greco-latina (Ecate / Cibele, Pan, ecc.). Quanto a Il caso, vedremo tra breve di quale mitologia si tratti.
A conferma secondaria e dubitativa del nesso, in Lovecraft, tra radici etniche e culti paurosi, noto solo che alcune delle frasi “incomprensibili” presenti in questa e in altre opere suonano molto simili a termini rituali della religione africana degli Yoruba, portata nel continente americano dagli schiavi e ancora presente, da Cuba, ad Haiti, al Brasile, in una varietà di culti: Santeria, Vodoun, Palo Mayombe, Condomblé, ecc. Per esempio, il ng’ngah di Lovecraft ricorda molto il nganga degli Yoruba: un vaso pieno di sostanze in cui è imprigionata l’anima di un defunto. Dettaglio vicinissimo, come si vedrà, all’argomento de Il caso di Charles Dexter Ward.
Tuttavia potrebbe trattarsi di pura combinazione e non vi insisto.
Ciò che in Lovecraft è sotto l’assedio del meticciato e dei culti innominabili che questo professa non è né l’America moderna, né altra facilmente databile. E’ piuttosto un ideale Merry New England, di ardua collocazione storica, in cui lo stile di vita prevalente risente ancora della matrice britannica. Ciò che pare somigliargli nel mondo d’oggi (o, per meglio dire, in quello dello scrittore) si trova sull’orlo del completo annullamento. Dopo averci descritto facciate graziose e costruzioni eleganti, Lovecraft ci rivela infatti, nel corso de Il caso (e di tanti altri suoi racconti), che sotto alcuni di quegli edifici si spalancano cavità abissali, gallerie labirintiche, pozzi insondabili. Le abitazioni di Curwen e di Ward sovrastano intere basiliche consacrate al male e penitenziari occulti dalle celle immonde (uso qui alcuni degli aggettivi ricorrenti in Lovecraft).
Chi vive in superficie non sospetta nemmeno quanto sia precaria la stabilità del microcosmo cui appartiene, già assediato dall’impeto delle trasformazioni sociali. Nemmeno può supporre che le insidie peggiori abbiano una portata addirittura cosmica, tale da minacciare, oltre all’urbanistica, anche valori, visioni del mondo e sistemi di vita consolidati.
Contemporaneo di Einstein, Lovecraft, pur non avendone grande stima, ha appreso la lezione dello scienziato e la mette a frutto. L’incubo in agguato non proviene solo dai recessi del tempo, ma anche da quelli dello spazio. In una parola (molto einsteiniana), dallo spazio-tempo.
Ne Il caso di Charles Dexter Ward i riferimenti sono fugaci, eppure abbastanza eloquenti. Se gli esperimenti del protagonista avranno successo, ci si dice, ne sarà compromesso l’assetto dell’intero sistema solare e dell’universo conosciuto. Altri universi, in altre dimensioni, troveranno un accesso al nostro e vi vomiteranno il loro osceno contenuto. Come ciò possa avvenire non è spiegato, ma certo può essere collegato all’evocazione di creature ultraterrene difficili da rispedire indietro, una volta che abbiano varcato lo spazio-tempo e i suoi abissi.
Si profila l’immagine di un mondo in cui i defunti camminano tra noi, ed entità mefitiche e immortali, di aspetto ripugnante, tornano ad assumere il ruolo semidivino che rivestivano sulla terra in epoche remote. Ne Il caso l’eventualità è scongiurata, ma non per sempre: troppi sono gli anfratti scavati sotto la civiltà, troppi sono i “mezzosangue” dai culti turpi e barbarici, troppe le porte malamente rinserrate sugli inferni cosmici.
Il lontano passato è orrendo, il futuro non c’è. In numerosi racconti di Lovecraft, il protagonista (sempre identico: di genere maschile, colto, di buone maniere, quasi totalmente disinteressato all’altro sesso) finisce per essere risucchiato nella dimensione parallela, o per subire trasformazioni che lo adattano all’inevitabile nuova realtà. Il Merry New England è un’oasi provvisoria, destinata alla desertificazione (o forse alla glaciazione: molto spesso, i mostri lovecraftiani si annunciano con soffi di aria fredda). Ricorda il quadro ufficiali, assediato da ferocissimi ammutinati di tutte le razze, de Il naufragio dell’Elsinore (“The Mutiny of the Elsinore”, 1914) di Jack London. London si ispirava a Spengler. A suo modo, anche Lovecraft descrive per metafora un incipiente tramonto dell’Occidente.
In questo senso, si collega a correnti culturali del suo tempo, da cui parrebbe, a uno sguardo superficiale, totalmente avulso (a volte riesce difficile pensare che fu contemporaneo di Faulkner, di Hemingway, di Hammett, di Steinbeck, di Dos Passos, ecc.).
Come è noto, Lovecraft creò un proprio olimpo di folli divinità — descritto in un libro immaginario, il Necronomicon — avide di riprendere il controllo sugli umani, esercitato millenni addietro. Su tutte domina Azathoth, il dio pazzo e urlante, seduto sul suo trono collocato al centro dell’universo. Seguono poi Nyarlathotep, il “caos strisciante”, messaggero di Azathoth; Cthulhu, che vive nelle profondità marine; il dio-rospo Tsathoggua (creazione di un amico di Lovecraft, lo scrittore Clark Ashton-Smith), Yog-Sothoth, Shub-Niggurath, Hastur (preso in prestito da un altro amico, Robert Chambers), e una folla di potenze minori.
Il caso di Charles Dexter Ward appartiene al novero degli scritti narrativi in cui Lovecraft fonde la mitologia da lui ideata con altre, e nello specifico con quella di matrice giudaico-cristiana. Tale è per esempio la classica formula evocativa che ricorre in vari punti del romanzo: Per Adonai, Elohim, Adonai Jehova, Adonai Sabaoth ecc. Lovecraft la trae dal secondo volume de Le Dogme et le Rituel de l’Haute Magie di Eliphas Lévi, e la piega ai propri fini narrativi.
Per tutta la vita, l’ateo Lovecraft si manifestò scettico nei riguardi dell’occultismo, si alleò all’altrettanto scettico prestigiatore Houdini per cercare di confutarlo e ammise di conoscere l’esoterismo, usato abbondantemente in campo letterario, solo per via di scorse occasionali e di libri scovati presso rivenditori di seconda mano.
Malgrado ogni evidenza, gli entusiasti hanno continuato ad attribuire a Lovecraft chissà quali conoscenze iniziatiche, sminuendone così, involontariamente, la dimensione di scrittore. Il caso è di per sé smentita a tali, infantili speculazioni. Allorché descrive la biblioteca di Joseph Curwen, con i suoi libri “malvagi”, Lovecraft colloca, accanto a noti testi alchemici (Geber, Fludd, Tritemius ecc.), altri che nulla hanno a che vedere con le scienze occulte. Per esempio l’innocua Ars magna di Raimondo Lullo, semmai ascrivibile alla teologia, visto che espone un bizzarro sistema per assegnare a Dio i suoi attributi. Anche il riferimento a Ermete Trismegisto appare un poco incongruo, dato che i testi ellenistici firmati con questo nome solo in minima parte trattano di alchimia, mentre generalmente afferiscono alla filosofia neoplatonica, forse per certi versi “esoterica” ma tutt’altro che “malvagia”.
Il fatto che Lovecraft attinga a casaccio, per dare suggestione alle sue pagine, è ben dimostrato dalle lettere che Joseph Curwen scambia con altri stregoni. Vi si invocano, scambiandoli per demoni, Sabaoth, cioè Dio in persona, l’angelo giudaico Metatron (che Lovecraft storpia regolarmente in Metraton), ecc. Ciò non significa che lo scrittore ignori tutto della Cabala e dei suoi derivati. Semplicemente, sa che certi titoli e certi nomi hanno sul lettore un potente effetto evocativo, al di là di ciò che significano. In altri racconti, citerà tra i testi di magia nera il manuale dell’inquisitore Nicolas Rémy (“Remigius”), oppure libri inventati di sana pianta come il De Vermis Misteriis di tale Ludwig Prinn (un parto della fantasia di un corrispondente di Lovecraft, Robert Bloch). Per non parlare degli Unaussprechlichen Kulten di Friedrich Von Juntz, invenzione di un altro amico di Lovecraft, Robert E. Howard.
Mi sono attardato, ma ritengo che sia bene che il lettore si accosti a Lovecraft con spirito laico, visto che profondamente laico era Lovecraft stesso. Ora è avvertito: se si imbatterà in letture critiche di tipo “iniziatico”, sappia che si tratta di paccottiglia. Lovecraft è anzitutto uno scrittore e, in quanto tale, inventa mondi e scenari. Che questi siano tanto credibili da far supporre a qualcuno che siano veri è solo una conferma della sua bravura.
Vediamola da vicino, questa bravura. L’aggettivazione smodata, rimarcata anche da Houellebecq, che nei saggi è ai limiti del sopportabile (si veda L’orrore soprannaturale in letteratura, Theoria, 1989), nei testi narrativi ha una propria funzione: sostituisce le descrizioni, volutamente omesse. Il lettore che sia giunto al termine de Il caso, e ormai conosca la soluzione del mistero, avrà comunque un’idea molto vaga di ciò che Curwen e successori stavano richiamando da altre dimensioni, e di quanto accadeva agli infelici imprigionati a fini di esperimento.
Ciò risulta di estrema efficacia. Quanto di tangibile esiste, del tetro campionario di mostruosità, è un’atmosfera e null’altro. Per sua natura, un’atmosfera sarebbe intangibile, ma proprio l’aggettivazione la rende concreta, assieme ai miasmi mefitici e all’umidità delle cantine. Gradualmente, anche il lettore meno proclive ad abbandonarsi al testo e alle sue seduzioni finisce per trovarsi coinvolto in una cupezza sempre più spessa, oltre le cui nebbie si muovono entità indecifrabili e impossibili. Sarà il suo subconscio a dare loro una forma approssimativa, l’autore si limita a suggerirla. Inutile dire che, in tal modo, il tasso di orrore risulta amplificato.
Lovecraft, in questo, fa propria la lezione di molta narrativa gotica classica (e di poca narrativa gotica moderna), in cui le atmosfere cimiteriali contavano più degli eventi. A ciò, tuttavia, aggiunge un elemento nuovo, matrice di paure interiori: l’idea, instillata nel lettore con ogni possibile mezzo, che a ciò che incombe non vi sia rimedio, che la speranza sia una pietosa illusione. Quale Dio invocare, se gli unici dei esistenti sono abominazioni dotate di soli istinti animaleschi? A quali valori solidali e culturali far ricorso, se ciò che resiste ai millenni, e cinge d’assedio l’universo conosciuto, è privo di intelligenza e non agisce secondo regole intelligibili? L’uomo fu probabilmente creato a immagine e somiglianza di questi grumi cosmici di pazzia. Meglio, come Charles Dexter Ward, rinunciare a ogni resistenza e porsi al servizio del nemico, che è, in penultima analisi, il caos, e in ultima analisi il vuoto totale.
Per sviluppare e rendere credibile una visione del genere, a Lovecraft non servivano personaggi psicologicamente complessi. Molto meglio giovanotti solitari e démodé, caratterizzati solo dalla sete di conoscenza. Alla stessa maniera gli occorreva adottare una lingua dal fraseggio un po’ antiquato, che facilitasse l’evasione — del personaggio e del lettore — dal contesto moderno, e l’immersione in un fluire del tempo altro e anomalo.
Come si vede, quelli che avevo inizialmente elencato come i difetti della prosa di Lovecraft si rivelano altrettanti segreti di scrittura. Edmund Wilson, nel ’45, aveva torto marcio.
Più che cercare di ascrivere Lovecraft ai grandi della letteratura, operazione dai risultati molto dubbi, conviene limitarsi a riconoscergli le doti di un eccellente artigiano, capace di suscitare brillantemente la suspense e di risvegliare nel lettore inquietudini non banali. Ciò che di artistico vi è nelle sue opere sta in quel tanto di autobiografico che contengono, e pure nella coerenza che le lega tutte (tanto da renderle spesso molto simili l’una all’altra, senza che ciò si traduca in noia). Il primato, secondo me, va accordato all’abilità, sulla quale non può esservi discussione.
Torniamo a Il caso di Charles Dexter Ward, la cui struttura è grosso modo quella di un thriller. I misteri da risolvere sono due, tra loro collegati: perché il giovane Ward paia avere cambiato identità, così da essere scambiato per pazzo, e a quali esperimenti proibiti si sia dedicato. Il primo enigma viene risolto dal lettore minimamente smaliziato ad appena un terzo del romanzo, per quanto il narratore finga a lungo di ritenerlo insolubile. Il secondo mistero, invece, non viene completamente chiarito nemmeno nel finale.
E’ questa seconda soluzione il vero motore della suspense. Così forte che indurrà chi legge a procurarsi altri racconti dell’autore, per cercare di ricomporre la sua terrificante “teologia” alternativa. Non vi riuscirà mai del tutto, perché quella “teologia” semplicemente non esiste, se non quale metafora (derisoria) di moderne incertezze: la fragilità della società occidentale, e soprattutto americana, esposta a mutamenti tanto rapidi da non poter essere tenuti sotto controllo; la scoperta, tramite le acquisizioni scientifiche, che nessun modello cosmologico resiste a lungo alla prova, e che l’uomo pare in ogni caso rivestire nell’universo un ruolo insignificante; la possibile regressione barbarica, volta al passato, legata all’anomia e all’alienazione che le nuove prospettive di visione del tutto potrebbero indurre.
Materialista e bestemmiatore al punto di rendere gli dei corporei, subumani e semi-idioti, Lovecraft considera gli uomini come fuscelli in balia di forze cieche, che prescindono dalla volontà di chi vi è soggetto. Inutilmente si sforzò per un decennio di essere nazista: la sua weltanschauung era troppo lontana da quella di un fascista o anche solo di un conservatore autentico. Somigliava semmai a quella di Freud o di Einstein, non precisamente due alfieri della razza ariana.
Nemico dichiarato della modernità, Lovecraft si faceva interprete, in senso pessimista, di tutti i suoi dubbi. Scrittori molto più dotati di lui nemmeno riuscirono a percepirli. Tanto di cappello, dunque, al grande artigiano di Providence.