di Girolamo de Michele
[Nella foto: Buchenwald, 1945. Élie Wiesel è il settimo da sinistra nella seconda fila.]
Che alcuni uomini di chiesa – tra i quali Joseph Ratzinger – si scaglino contro Harry Potter e la negativa influenza che il maghetto avrebbe sulla gioventù (dopo tutto è vero: educa a pensare con la propria testa) può far sorridere. Che l’Avvenire, quotidiano della CEI, mandi a dire alla maggiore filosofa italiana, alla vigilia della pubblicazione del suo ultimo libro, che i suoi dubbi e le sue perplessità sull’ideologia religiosa non doveva stamparli, ma circoscriverli ai privati carteggi, inquieta già di più: sa di monito censoreo, di messa all’indice (e pazienza per il mediocre recensore che cerca con questi mezzucci il suo quarto d’ora di notorietà). Ma se ad essere attaccato dall’Avvenire è il premio Nobel per la pace Élie Wiesel — beh, c’è da preoccuparsi seriamente.
L’occasione è stato il discorso letto da Wiesel alla Milanesiana il 27 giugno, del quale il Corriere della Sera ha pubblicato un estratto dal titolo: Le religioni e l’ombra del male [qui]. Immediata la risposta dell’Avvenire [qui], che si guarda bene dar riportare il testo criticato: che infatti viene distorto in modo vergognoso. I lettori di Carmilla, che continuano a coltivare la perniciosa religione laica del dubbio, potranno liberamente giudicare leggendo i testi attraverso i link. Cos’ha detto di tanto scandaloso Wiesel? Che il fanatismo di chi è convinto di possedere l’Assoluto è stato la matrice del male assoluto nei regimi totalitari: «l’umanità si è dimostrata capace di raggiungere il male assoluto, mentre il bene assoluto restava inafferrabile. Erano i giorni e le lunghe notti in cui l’impossibile diventava possibile, l’impensabile diventava la norma. Fu fondato un universo parallelo al nostro, una creazione simile, o forse opposta, alla nostra, con le sue classi sociali, i suoi principi e i suoi mendicanti, profeti e schiavi, invenzioni e costumi, filosofia e linguaggio. In quei Paesi venivano violate, corrotte, le leggi stesse della natura: il cieco potere del più giovane e umile soldato delle SS era più grande di quello delle centinaia e centinaia di poeti e scienziati che aveva di fronte. A costoro era proibito guardarlo negli occhi: non si guarda negli occhi Dio, o la Morte, impunemente. Vestito con la sua uniforme nera, il soldato era la personificazione di un indiscusso diritto di vita o di morte. E l’uccisore di innocenti e dei figli di innocenti non si sentiva nemmeno colpevole. Oh sì, in quei tempi bui abbiamo imparato che c’erano migliaia di modi per morire, ma pochissimi per vivere mantenendo la fede nell’Assoluto. Oh sì, l’Assoluto stesso aveva perso il suo significato umano e la sua vocazione divina. Perché, quando l’Assoluto si trasformava in potere assoluto, diventava la negazione della libertà e il nemico di chi, la libertà, voleva difenderla. Era inevitabile. L’Assoluto finisce per chiudersi a chiave dall’interno. Non può respirare, accanto a chi mette in dubbio la sua legge. Soffoca i sogni e diventa efferato, dunque pericoloso». E oggi? «Stiamo forse assistendo a un ritorno della inesorabile ricerca dell’Assoluto? Sì, in tutte le religioni di oggi in cui gli estremisti guadagnano terreno in numero e forza. Lo so: dentro di voi, il pensiero va all’Islam, ma l’Islam non è il solo a sedurre fanatici. Il cattolicesimo ha i suoi, così come il protestantesimo e l’ebraismo». E affinché non ci siano dubbi, Wiesel ricorda che «fu un giovane fanatico ebreo ad assassinare il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin». Oggi i terroristi kamikaze «sostengono di agire in nome della loro religione e si considerano martiri. Ma tanto la tradizione giudaica quanto quella cristiana ci insegnano che un vero martire non è qualcuno che uccide per Dio, ma qualcuno che muore per Dio. Chiunque pretenda di commettere omicidi in nome di Dio lo trasforma nel complice di un omicidio. L’Inquisizione non ha certo dato lustro alla Chiesa. Ricordate le parole rivolte da Giordano Bruno ai propri giudici in Campo de’ Fiori a Roma: forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla». Come combattere il fanatismo dell’Assoluto? Wiesel indica due strade, entrambe profondamente radicate nel proprio credo religioso. Wiesel infatti, oltre che una vittima e un testimone della Shoah; oltre che un testimone e un militante nella denuncia contro ogni genocidio – dai desaparecidos alle vittime di Pol Pot, dalle popolazioni del Darfur ai Rom di Romania, dagli ebrei sovietici ed etiopi ai miskitos, alle vittime dell’apartheid in Sud Africa e della pulizia etnica in Bosnia; oltre ad essere scrittore di grande levatura; Wiesel, dicevamo, è anche un esponente di rilievo dell’esegesi talmudica contemporanea, dell’hassidismo e del misticismo kabbalistico. Per Wiesel la ricerca dell’Assoluto ha senso solo come ricerca infinita, non come conquista: «L’Assoluto è plausibile come sfida, nel senso platonico del termine. È quando raggiunge il proprio obiettivo che la ricerca si trasforma in una minaccia». La seconda strada è il «piccolo diritto, già celebrato da Erasmo e Montaigne: il diritto del dubbio. E un altro, che lo precede di secoli e secoli, plasmato e illustrato dai grandi maestri del Talmud di Gerusalemme e di Babilonia: il diritto di entrare in dialogo». Per la tradizione talmudica, lo stesso Yahvé ha fatto dono all’uomo dell’interpretazione della Torah: e dunque neanche il dio degli ebrei può intervenire nelle dispute umane per dirimerle con l’interpretazione autentica. Potrà piacere o non piacere, ma tale è la parola di un uomo che cerca il dialogo con le altre visioni del mondo, anziché cercare di imporre la propria.
Tutto questo — cioè la fede religiosa di Wiesel, la sua tradizione culturale — è liquidato dall’editorialista dell’Avvenire come pregiudizio e luogo comune: «Ci sono luoghi comuni costruiti pazientemente. Con continue imprecisioni, mezze verità, continue piccole superficialità. Luoghi comuni che pretendono di inquadrare e capire la vita. Che invece sono inutili. E possono essere dannosi. Come ad esempio il luogo comune secondo cui credere in un Assoluto sia segno di fanatismo, e origine di ogni deriva violenta. Secondo tale luogo comune, l’uomo che crede in un assoluto, e quindi in Dio, è pericoloso. Ci torna su Elie Wiesel…». Deformazione dopo deformazione, l’editorialista giunge ad asserire che «se uno non crede in Dio, dunque, sembra suggerire Wiesel, è escluso dal compiere qualsiasi atto in relazione a un Assoluto, a meno di compiere disastri». Bisogna capire che, da qualche tempo, all’Avvenire amano classificare come “ateologo” chiunque non si riconosca nei dettami della Chiesa Cattolica: come se l’unica alternativa religiosa al cattolicesimo fosse l’ateismo. Proseguendo con le proprie falsificazioni, l’editorialista informa il lettore che le [di Wiesel] «parole ben forbite ma generiche e accostando esempi da epoche storiche incomparabili, accomunano Islam, ebraismo e cristianesimo come brodo di cultura del nuovo fanatismo». Ora, lasciamo volentieri ai lettori la scelta, nel comprendere il perché di tale deformazione, tra ignoranza profonda del retroterra culturale di Wiesel o limitata capacità di comprendere una parola che non sia la ripetizione pedissequa delle proprie certezze. O forse intolleranza verso altre manifestazioni del credo religioso: perché quando il Nostro arriva ad affermare che «quel che Wiesel e altri ottimi luogocomunisti [sic!] non si rassegnano ad accettare è che l’uomo per natura è religioso», o non capisce quel che scrive, o non considera religiosa la fede ebraico-talmudica di Wiesel.
Ma c’è un passaggio in cui l’editorialista passa il segno: «Anzi, proprio la “inesorabile ricerca dell’Assoluto” sarebbe il fenomeno che muove al fanatismo che vediamo divampare in molti luoghi. E dunque ecco di nuovo la religione sul banco degli imputati. Così l’applauso della borghesia milanese che si crede illuminata è assicurato». Un’insinuazione di tal fatta — Wiesel parla così per ottenere l’applauso della borghesia milanese — non merita commenti: la sua miseria è indice della miserabile anima da cui è scaturita.