di Mauro Gervasini
L’horror è cambiato in meglio o in peggio? Alla domanda, chi scrive — ex fanatico amante del genere — risponde senza esitare: in peggio. Anche per colpa dei padri: Scream di Wes Craven ha negli anni ’90 spalancato la porta al postmoderno sterile e compulsivo. Solo metahorror, citazione, gioco dell’oca tra rimandi più o meno riconoscibili dallo spettatore, senza più un personaggio degno di questo nome, una drammaturgia, un mostro che si faccia ricordare. Anzi, l’unico mostro è diventato il meccanismo d’interazione tra chi guarda e il film, con quest’ultimo che replica se stesso attraverso il riferimento a un precedente simile e poi a un altro, e a un altro ancora.
Scream ha decretato la morte del genere, resuscitato non a caso con il supposto contrario, The Blair Witch Project, che irrompe a fine decennio con il suo finto spontaneismo armato. Alla saccente e strutturata sceneggiatura di Kevin Williamson e Craven si contrappone lo pseudo documentario senza script, sennonché i (pesanti) richiami a Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato svelano, allo spettatore attento, il teorema truffaldino.
Figlio di queste due esecrabili pietre miliari, l’horror del nuovo millennio è diventato l’esatto contrario di quel che era venti-trent’anni fa. Non più espressione di una pulsione creativa libertaria ma veicolo di conformismo. La cosa grave è che Hollywood stia rifacendo tutti i classici post-sessantottini (il 68 del cinema Usa è La notte dei morti viventi di George A. Romero) disinnescandoli e ribaltandone il significato originale. Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, Dawn of the Dead… remake per i quali l’alterità è davvero la minaccia, senza ironia alcuna. Si aggiunga poi il gratuito sadismo della saga di Saw, e la deriva è compiuta.
Per non disperare del tutto, conviene aggrapparsi alle eccezioni. Qualche grande vecchio (lo splendido Romero di Bruiser e La terra dei morti viventi; Carpenter ora e sempre) e una sola vera novità, Rob Zombie con il capolavoro La casa del diavolo (Devil’s Reject), straconsigliato ai lettori di Carmilla che se lo fossero perso. E poi Hostel (parte I e adesso parte II) di Eli Roth, tra le poche cose sinceramente interessanti del filone. Il sequel ripercorre la struttura del prototipo, solo cambia il sesso dei protagonisti.
Erano tre ragazzi prima, sono tre fanciulle oggi, coinvolte però nel medesimo tour attraverso l’Europa con capolinea la Slovacchia. Qui, in un villaggio popolato da loschi figuri e attraversato da oscuri presagi, le ragazze finiscono nell’ormai ben noto ostello, anticamera per la fabbrica delle torture dove i ricconi di tutto il mondo pagano per seviziare a morte carne giovane. Hostel Part II evidenzia quel che di teorico già faceva capolino nel precedente episodio. La vera pornografia dell’era globalizzata è il connubio tra morte e violenza, al quale ci si è assuefatti nell’atto (immorale) della visione, e del quale si può “godere” solo partecipandovi. Questa volta l’immersione all’inferno è anche vissuta con l’occhio dei carnefici, due americani interpretati da Roger Bart e Richard Burgi, volti quasi tranquillizzanti per il pubblico televisivo che li ha visti spesso (insieme anche in Desperate Housewives). Almeno uno dei due, Burgi, è eccezionalmente ricco, tuttavia sono rappresentati come eccentrici fino a un certo punto, anzi normali, “medi”, qualunque. La banalità dell’esercizio del male attraverso padri di famiglia frustrati: oggi basta pagare e il desiderio di scannare la moglie castrante si può sfogare con il transfert della tortura. Un passaggio agghiacciante.
L’aspetto politico del film di Roth investe più dimensioni. Il rapporto tra Stati Uniti e resto del mondo, con gli americani che provano la loro virile predominanza spendendo e uccidendo. Quindi, alla lettera, consumando. Il rapporto tra Stati Uniti e Europa, con la seconda che mantiene sempre un lato oscuro inconoscibile per chi arrivi dal Nuovo mondo, che poi è lo stesso di Un lupo mannaro americano a Londra, Europa di von Trier e persino Un americano alla corte di Re Artù. Un dark side che per un ebreo americano (fu lo stesso per John Landis) agita incubi di immediata interpretazione. La compagnia slovacca che organizza i massacri a pagamento non è composta da anonimi travet come in un film di fantascienza, ma da turpi personaggi la cui iconografia neofascista è ben evidente. Stessa cosa per la decimazione dei bambini o le terme inquadrate come un campo di concentramento, con una luce implacabile.
Hostel Part II ci dice che il nazismo sfugge a qualunque storicizzazione, e anzi oggi rappresenta il più efficace sistema di istituzionalizzazione dell’orrore quale bene di consumo esclusivo. Il livello del conflitto è ancora più alto che in passato, perché fascismo e neoliberismo sono una miscela micidiale.
Di questo racconta il film, che ha intuito il potenziale di fascinazione di un immaginario così malato e costringe lo spettatore a confrontarsi prima di tutto con se stesso. Con chi ci identifichiamo? Con la vittima che sopravvive? Forse. Però la ragazza reitera il rapporto economico pagando al pari dei ricchi carnefici i tour operator del terrore, e diventando lei stessa assassina (si noti il corto circuito: si salva solo chi ha i soldi). Insomma non c’è scampo, il circolo è vizioso, ed è questa radicalità a rendere l’horror un genere ancora necessario.