di Gaspare De Caro e Roberto De Caro
[In omaggio a Walter Veltroni, uomo del giorno, e per una migliore conoscenza del personaggio, ripubblichiamo una lettera inviata il 5 settembre 2001 a la Repubblica, a commento di un articolo del sindaco di Roma. La lettera, a firma Roberto De Caro, non pubblicata dal quotidiano, apparve sul n. 8, ottobre-dicembre 2001, del trimestrale Hortus Musicus.]
Egregio Direttore,
se ritiene lecito e utile che un comune cittadino intervenga a proposito delle dichiarazioni di un politico, La pregherei di ospitare questa mia lettera in virtù del diritto di replica.
Nell’articolo del 5 settembre, Se il mondo si arrende alla legge della violenza, Walter Veltroni elenca alcuni dei più recenti episodi di intolleranza, tra i quali la vicenda della nave norvegese Tampa, carica di fuoriusciti afghani, cui è stato negato asilo dalle autorità australiane in palese violazione di tutte le convenzioni internazionali sull’assistenza umanitaria e i diritti dei profughi.
Il sindaco di Roma si è evidentemente commosso nel vedere «respingere la nave norvegese carica di poveri cristi raccolti in un mare lontanissimo ma tanto simile a quelli che circondano noi, solcati dalle stesse barche piene di umanità disperata» e ha anche espresso la propria indignazione nei confronti del governo australiano, poiché «da che mondo è mondo ci sono forme di solidarietà e di pietà verso i propri simili che la consuetudine e le necessità della convivenza tra le genti hanno finito per codificare».
Uno dei temi più importanti nel dibattito etico proposto dalla Sinistra nel nostro paese è quello della «rimozione della memoria storica», vale a dire la pericolosa attitudine mostrata dagli Italiani a dimenticare il passato, anche quello recente, che determinerebbe contradditori o addirittura irresponsabili comportamenti elettorali. Vigilare sui mestatori viene quindi indicato come doveroso compito di tutti per combattere efficacemente lo spettro dell’«eterno presente» che si aggira tra noi e contribuire a far rispettare la verità della memoria, la quale, come ammonisce Montale, «non è peccato finché giova».
Vale allora la pena ricordare il modo in cui il governo Prodi affrontò il problema delle «barche piene di umanità disperata». Il 28 marzo 1997 la Marina militare italiana — in forza del «decreto-legge 20 marzo 1997, n. 60; dell’accordo intergovernativo con l’Albania del 24 marzo 1997 relativo al blocco navale dei profughi; della disposizione emanata di concerto con il Ministro dell’Interno per il rigido respingimento delle imbarcazioni dei profughi» — provocò l’affondamento della nave albanese Katër i Radës carica di profughi, causando oltre cento vittime tra uomini, donne e bambini e innescando la triste sequela di dichiarazioni menzognere, sviamenti d’indagine, condizionamenti fraudolenti della pubblica opinione, successive morti sospette e impunità che da sempre ricorrono in ogni strage di Stato. L’allora ministro della Difesa Andreatta arrivò cinicamente a sostenere, prima di essere ufficialmente smentito, che la colpa era loro, dei disperati, che «l’incidente è stato provocato da un comportamento irresponsabile della nave albanese, […] noi riteniamo che l’urto non possa essere stato causa dell’affondamento: i profughi in coperta, terrorizzati, si sono spostati sul lato sinistro e hanno sbilanciato la cannoniera» (la Repubblica, 1 aprile 1997).
L’episodio, una delle pagine più vergognose della nostra storia, fu immediatamente rimosso dalla memoria collettiva, ma sarebbe il caso invece che l’elettorato di Sinistra lo assumesse rapidamente come paradigma di ciò che non è possibile dimenticare e politicamente perdonare. Se non altro per poter continuare a coltivare, senza infrangere ogni limite del pudore, il culto della propria differenza.
Veltroni di quel governo era vicepresidente. Sicché se quasi tutti hanno il diritto di indignarsi per i disperati sulle navi, lui no: lui è colpevole dello stesso delitto per cui s’indigna, con l’aggravante, rispetto al governo australiano, di averlo consumato fino in fondo. Lui dovrebbe limitarsi a dire la verità sull’argomento, tutta. E se non la vuole dire, allora taccia. Per rispetto nostro, della memoria storica e dei morti.