di Serge Quadruppani (traduzione di Maruzza Loria)
[Avevamo già anticipato un brano del romanzo di Paolo Pozzi Insurrezione, Derive/Approdi, 2007, pp. 208, € 14,00. Ora proponiamo una recensione completa di questo libro straordinario e sincero.] (V.E.)
Un romanzo di Paolo Pozzi, Insurrezione, ambientato nel ’77: è la sua storia, la storia di un’intera generazione. Alcuni non si sono riconosciuti nella copertina con le cifre dell’anno disegnate come una P38. Ma è l’ora di aprire il dibattito. Nel numero 1977, che costituisce la sola illustrazione della copertina del libro, due pistole sostituiscono le ultime due cifre. Pare che molti dei reali protagonisti di Insurrezione , attori del movimento autonomo milanese degli anni 70, non si siano affatto riconosciuti nella copertina. Ricondurre quel periodo a un’esplosione di violenza non è forse oggi la visione dominante, tipica dell’amnesia italiana contemporanea, socialmente prodotta e coltivata?
In una nota introduttiva l’autore sostiene: «Allora c’era un movimento fatto di donne e uomini che pensavano di cambiare il mondo. In modo radicale. Con una rivoluzione. Quelle donne e quegli uomini pensavano che cambiarlo potesse anche essere divertente. Anzi o era divertente o non valeva la pena. Tutto e subito. (…) Mi rivedo giovane e penso: ce l’hanno fatta pagare ma ci siamo divertiti un casino».
Alla fine se Pozzi e i suoi compagni si sono divertiti non è stato premendo il grilletto dei loro pezzi corti (armi leggere), ma inventando concretamente nuovi rapporti sociali, in strada, nei quartieri popolari, ai cancelli delle fabbriche e al loro interno, nelle case occupate. In un’epoca in cui, per incontrare qualcuno al di fuori della propria cerchia immediata ci si affida sempre più agli schermi, per quelli che non l’hanno vissuto diventa difficile immaginare la ricchezza passionale, emotiva, immaginaria e riflessiva del movimento del ’77.
Per come Pozzi lo ricostruisce, in modo semplice e magnifico, non era tanto un slancio del «tutti insieme» verso un obiettivo politico determinato, quanto un’attrazione universale di corpi terrestri, forzatamente terrestri, gravati delle loro origini, dei loro accenti, delle loro categorie sociali e che tuttavia si attraevano, si respingevano, si agglomeravano, formando galassie, convergendo su orbite comuni per alcuni giorni o alcuni mesi lunghi quanto anni luce e, di tanto in tanto, fondendosi.
La forza che faceva muovere queste persone erano prima di tutto le parole. A spingere queste persone è soprattutto la forza delle parole. Fiotti di parole. Torrenti e vortici di polemiche nelle assemblee; fiumi amazzonici di discorsi dei tanti leader; pigri ruscelli di scambi tra compagni al termine di notti militanti. I dialoghi di Insurrezione, che occupano la maggior parte del libro, restituiscono lo spirito di un tempo in cui, a fianco della rabbia contro lo Stato e i padroni, prevaleva un’allegria dai mille risvolti: dalla gioia tranquilla, riposata del colpo andato a segno (la felicità dopo la tensione della rapina esemplare, «da manuale») al tripudio carnevalesco delle autoriduzioni e di certi cortei, passando per il gusto dell’ironia e della derisione che non risparmia nessuno, soprattutto i più vicini.
Per un cittadino francese che nel ’68 aveva sedici anni e che da allora non ha smesso di interessarsi da vicino ai movimenti sociali e a alla critica radicale del capitalismo, il sentimento di fratellanza è immediato per quei ragazzi e ragazze di vent’anni; per Coz, il cui sguardo si accende all’idea di far casino ancora una volta; per il Sardo, felice di bloccare con un gruppo sparuto una fabbrica intera; per Tullio, che lascia tutti sgomenti confessando pubblicamente la sua omosessualità; per le operaie della Siemens, che mettono in crisi il potere dei maschi fin dentro le assemblee autonome; per le «quattro signore», quattro donne bellissime che a casa propria fanno sfilare i compagni e li assalgono con discorsi femministi prima di divorarli.
Le tensioni emancipatrici che da quel momento non hanno smesso di rivoltare l’Occidente e il resto del mondo erano in Italia in gran parte espresse dalla componente autonoma. Nel racconto di Pozzi è chiaro che ancora non erano ridotte a rivendicazioni di categoria e che ogni specificità, ogni identità, non esitava a mescolarsi alle altre. L’universalità – il concetto di «torto universale» caro al Marx dei manoscritti del ’44 – non era ancora scomparso negli animi annebbiati dal relativismo culturale, dal post-moderno e da altre droghe molli. I vicoli ciechi delle «coppie aperte», raccontati con un’ironia dolente, rivelano i limiti con i quali si scontravano ovunque, in Italia come altrove, coloro che cercavano nuovi comportamenti che solo un’altra civiltà avrebbe veramente permesso. Come dice il détournement di Raoul Vaneigem: «Non c’è amore felice in un mondo infelice».
Molti dei giovani che mi capita di incrociare oggi, che si ritrovano come i loro nonni tra una pornografia antierotica e modelli romantici o cristiani, i cui millenni di cornificazioni e nevrosi non hanno ancora disgustato del tutto l’umanità, sgranerebbero gli occhi leggendo le avventure di Arianna, l’evanescente innamorata del narratore. Per me, il fallimento di questa donna nel vivere un amour fou che non la soffochi indica, come altri visibili fallimenti nel libro, uno dei cantieri a venire per la costruzione di un altro mondo possibile.
Tra questi fallimenti sta anche la difficoltà a uscire dai modelli gerarchici. Ah, lo smarrimento del gruppo quando il capo non c’è! («Giulio non c’è e questo crea dei problemi sia di comando sulla nostra area che di rapporto con gli altri gruppi più o meno organizzati», p. 109). O l’incapacità di liberarsi del modello di avanguardia leninista («Per Giulio… la sfida che gli operai ogni giorno fanno al capitale… deve essere raccolta dalle avanguardie cui spetta il compito di alzare il tiro della violenza operaia», p. 120). O la difficoltà di fare a meno di un rapporto parassitario con i sindacati.
Bisognerà aspettare il ’77 perché accada quell’«avvenimento… di una novità assoluta»: a sostegno di uno sciopero, in assenza dei sindacati, una manifestazione autonoma dell’Autonomia! E tra i tanti si citerà soprattutto il problema della violenza.
Oggi l’Italia si è allineata alla norma del bunker europeo che occulta la violenza ai suoi margini, nelle banlieues e alle frontiere, o nel segreto dei regolamenti di conti familiari; il discorso ipocrita iperdominante (nei media e nei cervelli) rivolge a quel periodo solo uno sguardo da giudice o da poliziotto. Non è questo il luogo per dilungarsi a discuterlo, ricordando ad esempio quanto la società italiana fosse violenta all’epoca e che la lista dei morti ammazzati non va messa principalmente in conto all’estrema sinistra, che ha pagato in massa (10.000 anni di prigione per diverse migliaia di arrestati), a differenza dell’estrema destra (senza parlare di quelli uccisi dalle forze dell’ordine, di cui nessuno è mai stato condannato).
Poiché qui si tratta di leggere negli anni ’70 le indicazioni per il futuro, possiamo dire che mi stupisce la reazione di cui parlavo all’inizio dell’articolo, a proposito di una copertina che illustra bene ciò che c’era nella testa degli autonomi. E piuttosto che un’immagine riduttiva, dovremmo parlare dell’autoriduzione del movimento stesso. Del fatto che giorno dopo giorno si è andato riducendo a uno scontro violento, a un’identificazione della violenza con la sovversione.
Il fascino per le armi è evidente fin dal primo capitolo nel racconto estasiato di un compagno di ritorno da una manifestazione a Roma, piena di sparatorie, con trecento autonomi armati di pistole e un’armeria devastata. E alla fine ci diciamo che con tutti i colpi sparati in quegli anni, se i morti sono stati così pochi (come accadde su scala molto minore per il ’68 in Francia), è perché da parte di tutti, manifestanti e poliziotti, deve esserci stata, interiorizzata, un’autolimitazione alla violenza. Ma poi, come mostra bene Pozzi, la concorrenza tra gruppi giocherà sempre più a favore di quelli che volevano «alzare il tiro». Fino a che non interverrà una forza estranea al movimento (e in un certo senso a questo contraria), le Brigate rosse, con il rapimento Moro. Topone, un militante autonomo, sintetizza i suoi sentimenti ai cancelli dell’Unidal: «Qui è la fine. Ci mettono in galera tutti. È la fine del movimento».
E ancora bisognerebbe parlare, ad esempio, del concerto a Parco Lambro, dove gli autonomi organizzati assistono con sentimenti ambivalenti all’arrivo di migliaia di ragazzi dei quartieri popolari che si autoriducono ai banchetti militanti; delle azioni per «chiudere i covi del lavoro nero» o per cacciare gli spacciatori; del convegno di Bologna.
Ma la cosa migliore è comunque leggere il piccolo (grande) libro di Paolo Pozzi. Perché è solo ritrovando una memoria piena e non frammentaria degli anni 70, quest’ultimo «grande assalto al cielo», che potremo ritrovare le strade di una trasformazione della società che non confonda la sovversione con la guerra, quella guerra che lo Stato saprà comunque condurre sempre meglio di qualunque altro avversario. Per ritrovare un giorno l’allegria di «cambiare il mondo, in modo radicale» e farla finita con quel soffocante pensiero unico che ancora oggi rende alcuni nomi impronunciabili.
Questo articolo è dedicato a Cesare Battisti.
[Carmilla raccomanda, a chi fosse interessato al tema, la lettura di altri due romanzi: La banda Bellini, di Marco Philopat, e L’ultimo sparo, di Cesare Battisti.]