di Alberto Prunetti
[Mentre pubblico queste righe dedicate a Buenos Aires, ricordo ai lettori di Carmilla che continuano in Argentina i sequestri politici in un clima di totale impunità. Sono passati otto mesi dalla scomparsa di Jorge Julio Lopez, mentre si danno casi di sequestri “estemporanei” in varie zone del paese. Dietro a questi episodi, sembra evidente un progetto poliziesco di intimidazione.] (A.P.)
Città alluvionale, metropoli di riporti e di affluenti migranti, depositi espatriati di manodopera eccedente e affamata. Città di osterie sudice, di seggiole impagliate appese al soffitto e di santini blasfemi, città di tabaccai che non danno il resto senza prima aver recitato la propria genealogia — araldica di sfruttati, stipati su navi da carico, almacenes di vite in fuga.
Città di azzurro e bianco che si stende per chilometri quadrati di patriottismo, città di sacri valori, chiodati sulle stigmate di oppositori a cui si chiude la bocca con una sola parola: Argentina.
Città che si estende fino al delta del Paranà, che sprofonda in discariche su cui si costruiscono ville di miseria e strade di fango, che riemerge sotto l’obelisco per ballare un tango per un peso davanti ai turisti del microcentro, con calze a maglie sfilate e capelli unti, tra negozi presidiati e file di lustrascarpe.
Città di code davanti alle ambasciate, di ritorni negati e di attese di certificati di battesimo dall’Italia che si pagano un tanto a santino; baratti d’identità e di sottomissioni, benedizioni intercontinentali che viaggiano in assicurata.
Città di rulli di pentole e di gomme bruciate sull’asfalto, di fazzoletti sopra il naso e di repressori stanati sotto casa; città di sbirri rinchiusi in gabbie di ferro modulate, chili di carne corrotta a difesa di ministeri e repressori, città di testuggini di sopraffazione e violenza, di quadriglie lanciate al galoppo, centauri in divisa con bolas e frusta e ferocia per ammansire gli insorti.
Città di banche con le serrande abbassate e martellate, città di capitale italiano invasore, di maglionari di tutti i colori del mondo, benevoli maglionari che chiudono scuole e aprono stalle, che reprimono indigeni e inaugurano gabinetti etnografici; città di pidduisti che finanziano la scomparsa di una generazione, di pii nunzi vaticani usi al tennis massonico, di banchieri in fuga col bottino di un paese rapinato.
Città infine di capitalisti espropriati, di mense conviviali e circoli di resistenza e fabbriche autogestite; città di ceramica autoprodotta che sfonda lo scudo della medusa poliziesca, città da cui germina un riporto fangoso, l’humus che li seppellirà, l’eldorado che gli invasori non riconobbero, celato sotto i calcagni degli indios.
Città che aspetta la sua terza fondazione, compost bassurale debenettonizzato di rovine di banche e caserme e grattacieli, spazzatura fecondata dal sole, sferzata da vento pampero e da grida di rivolta, città che infine sarà un eldorado di razze e colori.
[P.S.:Sul caso Lopez, clicca qui e qui e qui. Per il Canto di Buenos Aires I, clicca qui.]