Igino Domanin – Apologia della barbarie. Considerazioni ostili sulla condizione umana in tempo di guerra – Bompiani Agone – 8 euro
Aprire oggi una collana di saggistica teorica in una grande casa editrice è un’impresa. L’impresa è riuscita ad Antonio Scurati, che ha inaugurato presso Bompiani Agone, una serie di testi che sono mirati a “chiamare a raccolta una nuova generazione di intellettuali; proporre una saggistica agile, di intervento, di critica e di proposta sui grandi temi della contemporaneità; e a riproporre l’idea che la cultura abbia uno spazio autonomo – riproporre cioè il prestigio dell’intellettuale, e il suo ruolo sociale di voce pubblica, ma riportandolo nella zona bruciante di contatto con la realtà, al punto nevralgico dove si misura il valore affermativo della cultura”. Tra questi saggi, mi soffermo sull’Apologia della barbarie di Domanin, narratore e filosofo che conosco da diciott’anni, perché qui, in un testo che conta 94 pagine, viene compiuto un gesto filosofico, politico e stilistico che introduce una discontinuità fondamentale con l’esistente: apre la crepa, la manifesta, e si tratta di una crepa a cui molti intellettuali e scrittori da tempo stanno lavorando, privi di un supporto teorico accertato, che devono strapparsi da soli, amplificando le proprie competenze.
Distruzione dell’Occidente, ricostruzione dell’identitario in una forma che nulla ha a che vedere con la dialettica identità/differenza, reimpiego del nucleo umanistico: Domanin fornisce strumentazioni d’assalto al potere del “si dice”, dell’opinione e della tragedia che l’imperialismo espanso dello sviluppo sta imponendo al mondo.
Per comprendere le novità, teoretiche e pratiche, di questo saggio, atipico soltanto se guardato con la logica vetriolizzata dell’accademia e delle modalità consunte con cui ci si è espressi da vent’anni a questa parte (questo spazio di tempo in cui la filosofia, quanto ha me, ha perduto la sua capacità veritativa e la narrativa ha dovuto subire scosse dalle luminose eccezioni italiane per non fare la medesima fine), per capire Domanin bisogna partire dal titolo. E’ nel titolo che già è esposto il perno di quanto sarà proposto nel saggio. Apologia della barbarie è infatti un nascondimento dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, pubblicato nel 1509: il momento della faglia, il momento in cui l’Umanesimo giunge al suo apice, utilizza tutta la sua retorica, enuncia la pratica interiore come fondamento dell’umano. Il richiamo è proprio a questo Umanesimo, a uno “scherzo” di Erasmo che non lo è affatto, poiché è la dichiarazione in prima persona di un universale, la Follia stessa, che supera in potenza l’uomo e gli Dèi, cioè qualunque forma identitaria e configurata, qualunque elaborazione culturale, essendo la Follia una non visibile potenza di, un regime di attuabilità del deragliamento, che si disloca via via a differenti stadi. C’è un punto dell’Elogio dove questa potenza che si fa prassi afferma: “Da ogni parte ti accarezzano gli occhi e il naso moly, panacea, nepènte, maggiorana, ambrosia, loto, rose, viole, giacinti – i giardini d’Adone. Nata fra queste delizie, non ho cominciato la vita nel pianto; subito ho sorriso dolcemente a mia madre”. Questo stato edenico e soggettivo è l’orizzonte utopico e politico che muove il saggio di Domanin, anche se la sua cura sta tutta nell’evitare l’idea di una “vita pura” anteriore allo stato di estrema sfinitezza in cui si trova la comunità occidentale oggi. La Barbarie, che è il soggetto che parla attraverso Domanin per tutto il libro (e impegno il termine “libro” intensificandolo: vedremo di seguito perché non basta definire quest’Apologia un saggio), è la soluzione tra due tipologie di movimento del pensiero e della storia occidentale riguardati oggi, nel qui e ora, in quanto accade sotto i nostri occhi. Da un lato c’è l’abisso espansivo di un esito che Heidegger ha clinicizzato, cioè il periodo ultimativo della vicenda in cui si dispiega (ab origine) la storia della metafisica della tecnica; dall’altro c’è il reazionariato, che cerca di frenare questo movimento richiamandosi a valori, a negazioni etiche e prescrittive, in vista di una supposta esistenza a priori, al tempus actum che sarebbe un’età dell’oro dell’armonia (i soggetti sono reazionari sul serio e politicamente pericolosi almeno quanto coloro che conducono inconsapevolmente il destino della specie verso l’abisso della disumanizzazione, a volte coincidendo in un unico soggetto, come dimostra l’icona politica e immorale dell’attuale presidente USA). La mossa di Domanin interviene qui a introdurre la discontinuità a cui accennavo: tra questi due poli ci sono io, c’è Domanin, ci siete voi – e voi coincidete comunque con l’Umanesimo, cioè con la pratica dell’umano, che, spintosi ai suoi confini, tenta di conoscersi. Si cambia cioè terreno, si cambia logica e – vedremo – si cambia stile (di pensiero e di scrittura).
Un’ulteriore osservazione: l’evocazione di Erasmo non basta a rendere conto della complessità del titolo e dei molti livelli interni al testo. Se un filosofo teoretico, quale Domanin è (all’Università Statale di Milano) pronuncia il termine Apologia, non è possibile non pensare all’Apologia di Socrate scritta da Platone. Qui c’è da fare molta attenzione: Platone fa parlare Socrate nel momento in cui Socrate muore e quel momento di accettazione della pena comminata è un passaggio di testimone, l’invito a mutare e inverare in altra forma la configurazione dell’insegnamento sapienzale di Socrate stesso, che è un insegnamento non deittivo e privo di contenuti e formule, poiché effettuato sempre tramite domande, empatia e “non sapere”. Di quale Platone parliamo? Non è il Platone concettuoso che l’Occidente ha etichettato e almanaccato. E’, piuttosto, il Platone che Robin e Hadot (nel suo splendido Esesercizi spirituali e filosofia antica, ripubblicato da Einaudi in edizione ampliata) ridiscutono senza interpretarlo con le lenti della tradizione moderna-contemporanea della filosofia: all’origine della filosofia occidentale non ci sarebbe per niente quanto poi viene catalogato, ci sarebbero pratiche, ci sarebbe lavoro sull'”io” non in termini di pensiero dialettizzante – e questo movimento, che è l’Umanesimo, verrà poi stravolto dopo una faglia che possiamo porre ad altezza di Kant e non di Descartes (che ancora attende i suoi Robin e Hadot). L’Apologia di Domanin fa della Barbarie il Socrate del contemporaneo: la Barbarie è l’erede di quell’insegnamento umanistico, di quella pratica sull'”io” che sembra totalmente obliata e che, dopotutto, non può che esserlo, perché il suo obliamento è esattamente il destino della metafisica della tecnica, della specie umana che giunge al limite dell’autoespropriazione.
Non basta ancora. C’è un sottotitolo e rileggerselo è importante per comprendere il movimento di pensiero compiuto da Domanin: Considerazioni ostili sulla condizione umana in tempo di guerra. Ciò ha un corrispettivo narrativo in uno splendido titolo di Wu Ming 2: Guerra agli umani. Se si vuole, ne è lo svolgimento filosofico. Se il tempo è di guerra, non è la non-guerra che viene opposta come strumentazione terapeutica per la condizione umana attuale: è invece la guerra stessa, sono considerazioni ostili, cioè, etimologicamente, formulate dal nemico bellico. Questa guerra viene condotta contro “la condizione umana in tempo di guerra”: quale guerra sta muovendo, dunque, Domanin? E’ una guerra che esula completamente dall’utilizzo dei dispositivi tecnici, dall’anti-Umanesimo. E’ la guerra dell’Umanesimo, che usa Domanin per riemergere quale gesto arcaico nel presente, per dissestare il presente e l’indefinita aspettativa di un futuro preordinato. Qui i dispositivi non sono soltanto gli Stealth USA o la Bomba: sono anche e soprattutto visioni del mondo che hanno espresso pericolose retoriche, le quali hanno prodotto filtri di interpretazioni. Sono dunque il postmoderno, il decostruzionismo, il post-strutturalismo, l’ermeneutica, il debolismo filosofico – ecco i propagatori inconsapevoli che per vent’anni altro non hanno fatto se non dare un appoggio teorico, vergognoso in quanto inconsapevole, a un destino che non è tale, poiché le cose possono mutare e la storia della metafisica della tecnica non è irrevocabile.
Il punto è dunque proprio questo: che statuto ha la nostra esperienza di umani occidentali in una fase storica dove la metafisica della tecnica coincide con la storia della tecnica (o, almeno, così ci viene detto, così da anni e anni ci viene ripetuto)? Questa fase ha un esito che colpisce l’esperienza. E’ l’esperienza, il rapporto trasformativo tra sé e il mondo, che sta nell’occhio del ciclone e Domanin descrive il ciclone per approdare all’occhio. L’esperienza muta in una fase in cui l’identità è ai suoi massimi disidentificata in un simulacro di identità. Se uno andasse in giro, oggi, concretamente, realmente, a chiedere a qualunque passante: “Scusa, ma tu chi sei davvero?” verrebbe preso per un folle. E’ di questa follia che Domanin compie l’apologia. Poiché, ammesso che uno di quei passanti si mettesse a pensare a chi sia davvero, la risposta sarebbe già configurata, indurita, cristallizzata, mutuata da una dazione culturale che non è sorgiva dal sé: verrebbero enunciate categorie psicologiche e pseudoemotive che il concetto di alienazione in Marx aveva previsto con lucidità profetica, e verrebbe richiamato, come elemento fondativo dell’autodefinizione, l’altro, il nemico, colui che, per dirla con Domanin, sta al di là della barriera: il barbaro.
E’ di fronte a questo stato di cose che Domanin propone non un dispositivo reattivo, poiché il gesto reattivo è uno dei complementi di questo Occidente che vive il suo sazio disagio, il suo inebetimento politico, il condizionamento di massa del tutto effettivo e automaticamente andato a colpire il segno a prescindere da qualunque volontà strategica. Domanin non propone una reazione: propone una soluzione. E la soluzione è questa: “Non c’è umanità senza barbarie”. Cos’è dunque la Barbarie? E’ me, me stesso in carne e ossa. Io sono la Barbarie ora, mentre scrivo, mentre sento e mentre, scrivendo, sto chiedendomi chi sono, cosa sento. Il nucleo politico viene violentemente sbalzato, dai protocolli occidentali (politici, sociologici, filosofici, culturali e, sì, letterari) verso una riduzione alla domanda fondamentale della metafisica, che qui torna a essere pratica, lavoro sull'”io”. E’ dal lavoro sull'”io” che emerge la possibilità della comunità. Ciò non significa esclusione dell’alterità: anzi, significa vedere che l'”io” è già l’alterità. Si accenna (ma Domanin non va per ora in questa direzione) alla possibilità che qualcosa in noi percepisca l'”io”. Cito dal libro:
“La barbarie è un fatto ambiguo. Segnala una degradazione e un pericolo d’inabissamento. Mostra, però, anche i segni ancora indecifrabili di un cambiamento della vita, di una metamorfosi positiva e, infine, di una liberazione attesa.
[…] Quel che segue sono delle meditazioni incerte e ostili, che intendono aprire i cancelli della fortezza [dove si rinchiude il fantasma identitario dell’Occidente tecnicizzato, ndr]. Riconoscendo nella barbarie, cioè, non l’insegna disumana di un nemico distruttivo e virale, bensì il tratto positivo ed emancipatore della discordia e della differenza.
[…] Il punto di partenza logico, quindi, non può essere che quello di stabilire chi sono io. La concretezza irriducibile del caso singolo, preso nei suoi umori certamente soggettivi e, forse, addirittura, nelle sue emozioni di fondo, può stabilire dei criteri. Il modo in cui si vive, tra paure e sospetti, rancori e malattie, è la ragione della critica.
Il singolo, cioè, è quella forza in grado di porre la domanda su chi siamo e bucare il velo che la derealizzazione del mondo ha posto sull’autenticità dell’esserci”.
Ecco in tre passi compiuta la mossa di Domanin. Che ha un problema non da poco: la tradizione filosofica che si porta dietro impedisce, ridicolizzandola, questa mossa, che sarebbe peraltro inclusa nella tradizione stessa (proprio da Descartes alle Meditazioni di Husserl: che la filosofia ha derealizzato, ha posto fuori autenticità, poiché nessuno pratica le Meditazioni cartesiane di Husserl secondo l’istruzione: meditare non è pensare o interpretare). E’ quindi attraverso un richiamo narrativo (il genere diario: l'”io” si sporge, enuncia i suoi affanni, i suoi sdilinquimenti, l’esasperazione dell’esperienza di una stanchezza non fisica alla prova dell’azione sui tasti del telecomando) che Domanin muove scacco matto: stilisticamente. Il richiamo autobiografico e narrativo è essenziale nel momento in cui la mossa è il “non sapere” socratico: chiedersi chi si è esige questo “non sapere”, questa ricognizione al buio, questa apertura di credito e discredito. Si può sbagliare: ma chi sbaglia è libero, cioè è autenticamente umano. L’esperienza umana non emenda l’errore e l’equivoco, e quindi uno dei molti risultati di questo potente affondo condotto da Domanin diventa il superamento del paradigma giusto/ingiusto, pur senza uscire da una morale della giustizia, reinterpretata quale morale della giustezza. In questo modo, agendo stilisticamente secondo un piano che la contemporaneità non contempla, Domanin giunge sul terreno della concretezza e può osservare quanto minate siano le fondamenta della democrazia (divenuta articolo di fede nella sua falsificazione, ottenuta attraverso evaporazione della responsabilità prima individuale e poi collettiva, poiché la rappresentanza su cui la democrazia si fonda è un rapporto tra umani che, oggi, non interessa a nessuno, poiché nessuno sente il rapporto) e infine della specie stessa.
E’, in conclusione, una mutazione antropologica quella prefigurata da Domanin. Questa mutazione, che è una sfida incerta e può darsi che non si realizzi, esige la Barbarie come elemento interno, come tenuta dell’ambiguità in se stessi, come componente del rapporto con l’alterità, come scavalcamento del culturale che la moda occidentale ha cristallizzato nel suo antiumano progredire attraverso paradigmi di ironia e aggressione politica, fino alla scomparsa del sentire il se stesso, che è il buco nero attraverso cui Domanin passa.
In sintesi: è un saggio fondamentale. Non so dire se questa discontinuità, che Domanin introduce mantenendo un rigore filosofico assoluto (si vedano le derive da Gehlen, per esempio) accanto a citazioni da Burroughs e Houellebecq, avrà una sua germinazione o una sua fioritura. Però si tratta, in assoluto, della prima risposta della mia generazione, sul piano filosofico, a una situazione di emergenza e deriva identitaria che mette a repentaglio la specie. Una mossa che la narrativa della mia generazione sta compiendo, in certi suoi esponenti, da almeno undici anni.
La crepa si allarga. Sulla svolta possiamo compiere quanto possiamo: fare il lavoro culturale a cui siamo chiamati, se vi siamo chiamati, e porre il principio di resistenza nei testi, che è il nucleo politico ed estetico su cui lo scrittore e il filosofo devono operare. E questa operazione ambigua è la Barbarie apologizzata da Domanin: che questo sia chiaro, poiché è un dato non tanto di anagrafe, quanto di sentimento collettivo per chi milita tra fatiche e misconoscimenti da parte dell’esistente che non esiste più, poiché non è autentico, avendo perduto l’autenticità che solo la Barbarie garantisce.