di Girolamo De Michele
Uno dei tratti distintivi del pontificato di Joseph Ratzinger è l’impressionante riduzione della complessità intellettuale e concettuale operata in un breve arco di tempo: dopo papi di grande levatura intellettuale e/o spirituale, contornati da intellettuali e politici di pari levatura (a titolo di esempio basti pensare all’asse Montini-Maritain-Moro) siamo oggi in presenza di un modesto conoscitore di cose filosofiche, circondato da acritici ripetitori e insipienti politici. Davanti alla pochezza logica e argomentativa di vecchie tesi riproposte senza neanche lo sforzo di un aggiornamento concettuale bisogna però fare molta attenzione a non sottovalutarne l’effetto performativo prodotto.
La riduzione della complessità (lo dimostra l’esperienza governativa dei talebani in Afghanistan) è un’efficace strategia di controllo e disciplinamento delle derive intellettuali e sociali, in grado di fornire un’immagine rassicurante e tranquillizzante della modernità – di solidificare, o quantomeno far apparire consistente, la liquidità sociale, per riferirci ad una pregnante categoria di Bauman. Banalizzazione e semplificazione, insomma, possono essere due categorie funzionali alla proposta di un potere pastorale che, in una società globale che non si lascia governare, e spesso neanche amministrare, piega a proprio vantaggio le passioni tristi offrendo just in time conforto e riparo preconfezionati come i fagioli Campbell.
Il dibattito sulla lex naturalis può esemplificare utilmente questa situazione: dibattito avviato da Ratzinger, pedissequamente ripetuto in primis dagli editorialisti dell’Avvenire, e rilanciato dagli atei devoti del Foglio e del Domenicale, e da una corte dei miracoli che va da Marcello Pera a una lunga schiera di politici che, come cartelli stradali, indicano in direzione di valori naturali e familiari dai quali si tengono a distanza, sino a coccolati ex-nichilisti come Giovanni Lindo Ferretti beatificati da un’aura di pentimento ostentata come le stimmate di padre Pio (e come quelle dal vago sentore di acido fenico).
Questo dibattito va preliminarmente inquadrato entro un più ampio quadro di riferimento disegnato da due vettori che si dipartono da una comune origine tradizionalistica e anti-moderna. Il primo è la ripresa della tesi, cara al cardinale Bellarmino, della necessità che la ragione debba dischiudersi a una più ampia comprensione fornita dalla teologia «non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria» (J. Ratzinger, Fede, ragione e universalità, Regensburg, 12 settembre 2006). Più esplicito era stato monsignor Fisichella, per vent’anni docente sulla cattedra Gregoriana di Bellarmino (a sinistra): «se c’è veramente incompatibilità tra un dato della fede e un dato della scienza, allora uno dei due deve inevitabilmente fare un passo indietro. E a mio avviso lo deve fare la scienza, non la fede» (MicroMega, giugno 2005). Citare Bellarmino può sembrare un’inutile faziosità solo a chi non ha presente che, ritagliando e falsificando frasi altrui, nel 1992 l’allora cardinal Ratzinger aveva affermato (Svolta per l’Europa?) che «la sua [della Chiesa] sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione». Il secondo vettore è la reiterata denuncia di una « dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (J. Ratzinger, Missa pro eligendo romano pontefice, 18 aprile 2005). È noto che su questa espressione, ottenuta unendo due parole che scritte l’una dietro l’altra non significanno alcunché, Ratzinger ha scritto un libello a quattro mani con Marcello Pera — un episodio inquietante, che dimostra come si possano occupare cattedre universitarie senza alcuna seria verifica sulla scientificità della produzione dei cattedratici. “Dittatura del relativismo” è, dal punto di vista logico, una fallacia bella e buona, ottenuta confondendo i livelli di denotazione delle parole usate: è come dire che la democrazia non è democratica perché non ammette la dittatura (come infatti affermava il cattolico tedesco Carl Schmitt). Ma non è necessario ricorrere alla teoria dei tipi per confutare il PeRatzinger, questa strana bestia filosofica, metà cardinale e metà vegetale: basta, di Bertrand Russell qualche pagina più accessibile. Ad esempio questa: «A un certo tipo di persone piace moltissimo ripetere “tutto è relativo”. Si tratta naturalmente di una sciocchezza, perché se tutto fosse relativo non ci sarebbe più nulla con cui stare in relazione» [1]. E infatti persino nella versione PeRatzinger il “relativismo dei valori” è tale relativamente a un valore in sé, che potrà non piacere, ma è pur sempre un valore: «il proprio io e le sue voglie», per dirla con Ratzinger, o col più esplicito Vittorio Possenti «che a ciascuno [sia] consentito di vivere come vuole, attraverso leggi che lo permettono, all’unica condizione di non violare la Costituzione» (I cattolici e la democrazia. Risposta al prof. Severino, Avvenire, 17 febbraio 2007) — una condizione denunciata da Possenti come conseguenza «dell’idea di diritto naturale di Spinoza, per il quale il “diritto naturale” di ciascuno si estende sin dove si estende la sua potenza». Ma è noto che la Chiesa usa la logica come strumento se può trarne vantagio, e ripiega su altri metodi quando la logica non soccorre; persino Anselmo d’Aosta, accanto alla confutazione, non disdegnava l’invito a sputare addosso all’avversario: «non modo sermo ejus est respuendus, sed et ipse conspuendus» (Contra Gaunilonem, cap. IX). Ciò che in logica si presenta come fallacia, in un’analisi del linguaggio comune quale quella proposta da Harry G. Frankfurt è una stronzata, cioè un discorso né vero né falso, che cioè non presenta alcun interesse per (affermare o negare) la verità: «mai dire una bugia quando puoi cavartela a forza di stronzate» [2]. Sennonché, se dal punto di vista puramente logico una stronzata resta tale anche se detta da un cattedratico, un cardinale o un papa — tutt’al più sono questi a divenire “dicitori di stronzate” [3] —, dal punto di vista del rapporto tra linguaggio e mondo il ruolo e l’autorevolezza dell’enunciatore contribuiscono nella prassi a costituire il valore dell’enunciazione. Accade così che la “dittatura del relativismo”, autorevolmente enunciata, avvolga nelle sue nebbie logico-argomentative la sostanza della questione, occultando la posta in palio e dando l’impressione che l’alternativa sia tra un mondo privo di valori (il relativismo) e l’unica alternativa costituita dai valori naturali che si vuole scaturiti da una «forza vivificante che già portiamo dentro di noi e che può animarci alla realizzazione del comune bene umano» (Francesco D’Agostino, Legge morale, baluardo contro l’arbitrio del potere, Avvenire, 13 febbraio 2007). Ridotta la complessità e la plurivocità del mondo ad una secca alternativa, l’acuto esegeta delle parole papali può concludere che «negare la presenza in noi di questa forza significa negare, contro ogni evidenza, ogni possibilità di comunicazione morale tra gli esseri umani».
La stessa strategia viene adottata nella disputa sulla legge naturale. Una strategia che si può riassumere in tre mosse: posto che (1) il diritto non conosce alternative tra lex naturalis e diritto positivo, del quale (2) viene data una descrizione caricaturale, o comunque artatamente predisposta alla confutazione, ne consegue che (3), essendo la modernità improntata al diritto positivo, essa modernità è il frutto avvelenato della incapacità «di vedere il messaggio etico, contenuto nell’essere, chiamato dalla tradizione lex naturalis, legge morale naturale, con una parola oggi per molti quasi incomprensibile a causa di un concetto di natura non più metafisico ma solamente empirico» (J. Ratzinger, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla legge morale naturale, 12 febbraio 2007). Causa prima di questa opacità dell’essere è la scienza galileiana, come affermava in Svolta per l’Europa? l’allora cardinal Ratzinger quando (come seguendo l’invito di Marzullo a farsi una domanda e darsi una risposta fingendo di non essere l’autore della domanda) lamentava di essersi sentito chiedere «perché la Chiesa non ha preso una posizione più chiara contro i disastri che dovevano necessariamente accadere, una volta che Galileo aprì il vaso di Pandora?». E sfoggiando una tomistica ragione prudenziale che segue l’ordine dei fini Ratzinger (si) rispondeva (per la verità premettendo la risposta alla domanda) indicando «una “via direttissima” che conduce da Galileo alla bomba atomica»: come non sentire l’eco del Grande Inquisitore dostoevskijano nelle parole del reggitore del Sant’Uffizio? Ed allora ben venga l’allucinazione brancaleonica di nuovi invasori prefigurata da mons. Betori nella sua omelia di Gubbio, nella quale – con la stessa coerenza con la quale si può dire che se Hitler prendeva un cappuccino a colazione, sono nazisti tutti quelli che bevono il cappuccino – chi rivendica «una improponibile libertà di autodeterminazione di sé» e pratica modalità di relazione e affettività diverse dalla «famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna» è apparentato, sotto l’etichetta di nichilisti e relativisti, a terroristi, razzisti, sfruttatori del lavoro altrui e assassini (cioè abortisti e negatori della dignità dell’embrione [4]).
Come i venditori di Apocalissi di cui scrive Eco in Apocalittici e integrati [5], il neo-Tradizionalista, costituitosi come «esperto del “dove andremo a finire”, ritrova un ruolo nel contesto sociale» specializzandosi nel «dimostrare che il nuovo orizzonte dei problemi è radicalmente equivoco, antiumano e che occorre rifarsi al culto dei valori di un tempo per garantire all’umanità la sopravvivenza. Così facendo il “venditore di Apocalisse” ha comunque risolto un problema: quello della propria sopravvivenza privata».
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Note
[1] Bertrand Russell, L’ABC della relatività (1958), Longanesi, 2005, p. 13.
[2] Harry G. Frankfurt, Stronzate, Rizzoli, 2005, p. 47.
[3] «Questo implica non solo la produzione di stronzate singole: implica un programma di produzione di stronzate nella misura richiesta dalla circostanza. […] Dire una bugia è un’azione con un fine preciso. Ha lo scopo di inserire una particolare falsità in un punto specifico di un insieme o di un sistema di valori, per evitare le conseguenze generate dal fatto che quel punto sia occupato dalla verità. […] D’altra parte, una persona che sceglie di cavarsela a forza di stronzate ha molta più libertà. La sua prospettiva è panoramica invece che particolare. Non si limita a inserire una certa falsità in un punto specifico, e così non è costretto a obbedire alle verità che circondano o intersecano quel punto. È disposto, se necessario, a contraffare anche il contesto»: Harry G. Frankfurt, Stronzate, pp. 49-50.
[4] Tra i quali, come vedremo nella II parte, vi sono Tommaso d’Aquino, Jacques Maritain e il cardinale Albino Luciani, futuro papa Giovanni Paolo I.
[5] Umberto Eco, “I venditori di Apocalissi”, in Apocalittici e integrati (1964), Bompiani, 1978, pp. 367-369.