di Vittorio Catani
[Siamo orgogliosi di avere tra i nostri collaboratori Vittorio Catani. Non solo uno dei migliori scrittori italiani di fantascienza, ma un uomo dalla personalità che definirei “nobile”: non nel senso di “aristocratica”, ma talmente limpida e sincera da illuminare chiunque le si avvicini, e da indurre a dire: “Ma allora esistono ancora uomini così!”. Ebbene, Catani esiste e, finalmente, ha visto buona parte delle sue opere riunite in un elegante e imponente volume a lui consacrato: L’essenza del futuro, prefazione di Lino Aldani, Perseo Libri, Bologna 2007, pp. 658, € 30,00 (può essere ordinato qui). Ne abbiamo già pubblicato una recensione. Ora ne offriamo un assaggio: un racconto apparso nel 1986 sulla rivista Nova SF. Utile, a nostro avviso, a fare apprezzare uno scrittore vero, per stile e contenuti, e un vero gentiluomo – ma sarebbe meglio dire galantuomo. Un esempio per tutti.] (V.E.)
Il mago lo chiamò e gli disse: “Giovanotto, vedi quel monte? Ebbene, in una sola giornata tu lo devi spianare, devi seminarlo a grano e far nascere le piante. Se no ti uccido.”
Da Redelìa, fiaba pugliese
Se muovete con l’auto da Taranto verso S. Maria di Leuca costeggiando il mar Jonio, percorrete una vecchia provinciale malmessa per lunghi tratti. La vostra andatura ne sarà spesso rallentata. Man mano che vi inoltrate e scorrono i chilometri, il panorama diventa quasi selvaggio. La costa rocciosa si solleva sul mare cristallino; nel vento torrido di luglio la vegetazione imbiondisce e si disidrata; solo fichi e olivi fronteggiano l’estate, neri e irruvuditi, nello stridio forsennato di cicale. Eppure serpeggia un tono favoloso di risonanze antiche e presagi, mentre correte incontro al sud della vostra terra, o della vostra anima.
Fu qui che conobbi un luogo, Omen. Quel tardo pomeriggio che vi giunsi in auto, stanco e accaldato, cercavo solo un letto su cui trascorrere la notte. Dalla mattina avevo percorso quasi mille chilometri, ma all’epilogo del mio viaggio l’appuntamento di lavoro su cui fidavo da mesi era mancato all’improvviso. Nessuno che mi avesse avvisato o me ne avesse comunicato il motivo. Non conoscevo il Salento, ero troppo affaticato per infuriarmi o per cercare un albergo nel più vicino paese. In una stradicciola scorsi costruzioni lontane che a prima vista scambiai per un agriturismo, o antiche masserie, ruderi di pietra bianca imbalsamati da qualche legge pro ambiente. Il vento caldo toglieva il respiro. Due colonne squadrate in tufo reggevano una pesante cancellata in ferro battuto, su una colonna campeggiavano lettere di metallo formando la scritta OMEN. Accostai l’auto e suonai il vecchio pulsante elettrico.
Poco dopo dal viale interno si materializzarono due giovani robusti.
—— Benvenuto — disse uno di loro in tono affabile. — Io sono Genco. Puoi prendere il bagaglio… per il momento lasciamo l’auto qui, provvederemo dopo.
—— Philo — aggiunse l’altro con una smorfia amichevole.
Afferrai il mio borsone, mi assicurai che contenesse i documenti e l’armonica, chiusi la vettura. La cancellata si aprì e ci avviammo.
Il viale era lungo, alberato e conduceva a una vecchia villa patrizia riattata. Salimmo una delle due rampe convergenti della scalinata accedendo in un vasto ambiente. L’arredo era molto modesto ma essenziale. Dietro un tavolo di legno scuro con uno schermo a sfioramento incorporato sedeva un uomo sui quaranta.
— Mi chiamo Leo — disse l’uomo alzandosi. — Lieto di averti con noi. — Mi fissò. — Ormai siamo quasi duemila, qui. — Era alto e magro, il viso affilato, forse bello. — Cresciamo, giorno dopo giorno… presto saremo molti di più. — Finalmente sorrise. — Non ti chiedo se vorrai andartene domani o se rimani con noi. L’unica condizione è che tu contribuisca col tuo lavoro.
Giunse l’imbrunire e mi porsero un pasto. Poco distante si apriva un grosso cascinale, lo chiamavano la Fattoria. Più tardi raggiunsi gli altri riuniti attorno alla grande aia. A occhio contai almeno cinquecento persone, ma aumentavano. C’era movimento, chiasso, allegria. Gente di mezza età, giovani, belle ragazze. Dagli angoli dello spiazzo salivano pali alti una diecina di metri con faretti sulla cima e su un lato del quadrilatero era addossato un palco, con gente che trafficava. Accordarono vecchi strumenti elettrici e cominciarono a provare canzoni: classici come A hard rain’s gonna-fall di Bob Dylan, o Tomorrow never knows dei Beatles, brani di Guccini e Fausto Amodei, e roba più attuale come Eve of Construction di Rendal Kruzky. Dall’orizzonte già scuro, sugli alberi, sorgeva la luna d’un colore metallico. Tra la folla vidi aprirsi un varco un giovane alto, dai capelli nerissimi tirati indietro in un codino e occhi celesti magnetici, che per alcuni secondi non riconobbi così acconciato. Era Philo, accompagnato da due ragazze che ridacchiavano. Mi vide.
—— Ciao! —— esclamò. Guardò rapidamente il cielo da una parte e dall’altra. — È l’ora buona… Vieni con noi, ti faccio vedere una cosa.
Seguii il terzetto. Philo entrò nella costruzione dove aveva sede l’ufficio di Leo, si diresse verso una rampa di scale interna, la salimmo superando il secondo piano e sbucammo sul terrazzo. L’aria era ferma, tiepida, ricca di odori notturni.
—— Questa comunità è speciale —— disse Philo. —— Nella memoria del catasto il nome della località era Contrada Omine, ma Leo ha deciso di mutarlo in Omen, che vuol dire “presagio”.
Mi affacciai alla balaustra di pietra. Il chiarore lunare riusciva a illuminare il panorama per molti chilometri. Da un lato, lontano ombre scure collinose via via indistinte, digradanti in una pianura. I colori erano scuri ma guardando meglio, abituando gli occhi, mi accorsi che il panorama, con quella luce, assumeva colori stupefacenti dall’indaco all’azzurro cupo, al violetto, fino a macchie di un chiarore grigio o giallastro. Indugiai sulle tinte e le luminosità leggere di quel mondo inatteso, notturno, e mi accorsi che quasi mi accecavano.
Una delle due ragazze che accompagnavano Philo si chiamava Fiorella, ma io la conobbi solo la seconda o terza sera, non ricordo; però ricordo bene le sue prime parole. Il perimetro esterno della grande aia era un filare di alberi. Eravamo radunati e sedevo sull’erba secca sotto i rami, addossato alle fascine di sterpi. Philo suonava la chitarra, io lo accompagnavo con l’armonica e ci accordavamo magnificamente. Lei era a poca distanza. Durante una pausa mi chiese da dove venissi.
— Ti ho visto anche stamattina, al Magazzino — notai. Aggiunsi che non era facile non accorgersi di lei.
— Qui arriva tanta gente in continuazione — rispose Fiorella. — C’è molto da fare, specie al Magazzino. Abbiamo qualche problema organizzativo, ma Leo è davvero in gamba.
Seguirono chiacchiere, mentre anche Philo tirava una boccata d’aria. Improvvisamente Fiorella mi afferrò una mano e disse:
— A me sta succedendo qualcosa di strano, a Omen. Certe notti, a restare qui mi dimentico.
— Di cosa?
— Del passato. Gli anni precedenti. — Era notte fonda, la luce dei faretti si era molto attenuata, tra i rami sbucavano stelle fitte e c’era ancora la grossa luna della campagna salentina. — Anche il cielo — riprese lei — sembra lo stesso di dovunque, le stelle non conoscono differenze. Eppure da quando sono qui per me è cambiato tutto.
Ancora non sapevo bene cosa intendesse, afferravo solo un riflesso attenuato delle sue parole, tuttavia mi parve evidente che fosse felice di trovarsi lì.
Di giorno lavoravamo tutti nella stessa misura, a partire da Leo. Su mia esplicita richiesta ero stato destinato alle Attrezzature e alla Contabilità, ma avevo capito che le attribuzioni restavano molto fluide. Occorreva garantire a Omen un minimo di autosufficienza. Nella scelta c’era di che sbizzarrirsi: coltivazioni, riparazioni, energia, acqua potabile, erboristeria, rifiuti, aspetti legali dell’attività, rapporti con l’esterno, e così via. Autosufficienza non significava chiusura al mondo, tutt’altro. Omen non intendeva rimanere in un’attesa immobile; rifiutava l’isolamento, o l’antica sirena dell’oasi felice. La piccola comunità, infatti, perseguiva un suo piano segreto estremamente ambizioso. Per me scoprirlo, poche sere dopo, fu un violento shock.
Era buio e ci ritrovammo ancora sull’aia, a fine lavoro. Un gruppo suonava sul palco, dall’altro lato del piazzale. Venne Leo e mi sedette vicino.
— Tutto bene?
Lo fissai senza rispondere. La mia permanenza era di per sé esplicativa. In verità, dacché ero lì neanche una settimana vivevo in una sorta di limbo separato dalla quotidianità consueta. Forse come sottofondo c’era un vago senso di colpa, ma probabilmente il mondo poteva fare a meno di me per un po’; senza voler approfondire più di tanto. Leo proseguì con tono dapprima divagante:
— Qualcuno ha scritto: “C’è una cosa che si presenta come un giardino ben tenuto, ogni cambio di stagione porta nuovi colori piacevoli, profumo di paradiso e lavoro da spaccare la schiena.” Sembra un indovinello… Indovina di cosa ti sto parlando.
— Mah… — Esitai. — Di Omen, immagino. — Una Omen idealizzata, pensai. Leo scosse il capo.
— Sì e no. Mi riferisco a ben altro. Ascolta.
Ci appartammo nella notte, seduti sulle pietre. Fu così che venni a sapere della Polvere-delle-stelle.
— Ho lavorato anni in laboratori di vari stati, anche negli Usa — disse Leo. — Io ho una formazione scientifica, e mi occupavo di chimica delle meteoriti. Esiste gente che passa parecchio tempo ad analizzare le pietre che ci piovono sulla testa. — Accennò al cielo. — Certi miei colleghi, certi amici, individuarono… Beh, da alcuni di quei minerali hanno ricavato qualcosa di nuovo e straordinario. Questo.
Estrasse con calma da un portasigarette un paio di cartine. Ne aprì una: c’era una polvere forse bianca, che nell’ombra pareva d’un blu pallido, con minimi scintillii.
— No — dissi deciso, accennando ad alzarmi.
Nell’oscurità Leo rise, tranquillo. — Dove vai? Non è come pensi, sta’ sicuro che certe cose qui non interesseranno mai nessuno. — Continuò a tendermi il portasigarette. — Non me ne arriva mica tanta, ma io so riconoscere chi ne ha bisogno… e di chi noi abbiamo bisogno. — Mi fece il nome di un composto chimico lungo quanto un treno, che proprio non ricordo.
Nonostante le assicurazioni di Leo e l’innegabile curiosità, esitai alcuni giorni prima di sperimentare la Polvere-delle-stelle. Leo non insistette, si limitò ad attendere. Tuttavia, nel darmela, quella sera stessa aveva aggiunto con onestà:
— Inizialmente si hanno dubbi. Timore, anche. Tutti aspettano, prima di provare. Fra l’altro, per me è interessante indovinarne le motivazioni. — Non capivo il parlare involuto di Leo, comunque alla fine mi decisi.
Una notte mi barricai nella mia piccola stanza di pietra bianca. Rimasi a fissare nella penombra il mistero di quei luccichii che, stando a Leo, dovevano aver attraversato miliardi di anni e di chilometri, poi assaggiai una piccola presa della Polvere. Mi sdraiai sul mio lettino, in attesa: e fu tutto.
Fu tutto, ma non sarò mai più quello di prima.
Perché nel volgere di poche ore insonni, frenetiche, quella notte nella mia testa si aprì uno squarcio accecante. Capii cosa intendeva Leo dicendo di giardini dai piacevoli colori, profumi di paradiso, fatica da spezzare le reni. Più che della piccola Omen, lui parlava di Utopia. Mi resi conto che la Polvere è una sorta di catalizzatore mentale. Una sostanza che, credo, sollecita reazioni chimiche ben precise, positive. Chiamatela una magia se vi piace, benché il mezzo e il fine al contrario della magia siano di assoluta razionalità. Assumere la Polvere anche una sola volta, significa capire. La Polvere stimola, allarga certe comuni intuizioni. Le chiarisce nitidamente una volta per tutte.
Quella notte io seppi come e perché agire tutti insieme, sette miliardi di persone, per realizzare davvero sul nostro malandato pianeta l’assurdo, ambiguo sogno antico.
Capii perfettamente, analiticamente, con la lucida consequenzialità di un teorema, cosa avviare, come collaborare e con chi, per accrescere irresistibilmente la piccola Omen fino a farle inglobare il mondo. Vidi: niente armamenti, sfruttamento, penuria. Vidi: solidarietà, scienza a misura d’uomo, valori autentici. E la vecchia Storia, quella dell’homo homini lupus, ridotta a dolorosa anticaglia da custodire solo a monito, nella bacheca blindata di un museo.
Ero conquistato, caricato d’un impeto inarrestabile.
Incrociai Leo la mattina seguente: al semplice sguardo lui capì.
— Allora? — mi chiese sorridendo… Ma possibile che sapesse il caleidoscopio in cui mi ero librato quella notte fantastica?
— E’ grandioso — riuscii solo a dire. — Desidero mettermi immediatamente al lavoro, finalizzare in modo adeguato i miei sforzi.
Moltiplicai le mie energie. Per tutta la seconda metà di luglio e i primi d’agosto lavorai da bestia, insieme agli altri. Dalla prima ora mattutina al mezzogiorno mi impegnavo duramente nei campi fin quasi a crollare. Nei pomeriggi certi pomeriggi assolati, febbricitanti con Leo, Fiorella, Philo, Genco, Gabor e cento altri elaboravamo i nostri piani di coinvolgimento globale. Leo aveva preso a vergare una lucida sintesi del programma. Avremmo contattato i media, saremmo esplosi in rete, nell’etere, nell’universo. Pianificavamo tattiche e strategie; decidevamo contatti esterni, teorizzavamo, dettagliavamo. La Polvere non poteva bastare per tutti, ovviamente; ma non era necessario. Le nostre idee, l’evidenza delle nostre intuizioni e delle nostre realizzazioni, la logica assolutamente ineluttabile dei loro percorsi si sarebbero propagate come polline al vento. Leo ci esortava con paragoni. Diceva: — Pitagora ha avuto l’illuminazione, ma dopo di lui tutti sono in grado di comprendere la perfezione, l’inevitabilità del suo teorema. — Perché noi eravamo, davvero, la Grande Speranza fatta uomo.
Verso sera, sull’imbrunire, sedevamo in cerchio ubriachi di fatica, fradici, e nell’aria immobile che si incupiva risuonavano altre canzoni: All together now, o Changin’ the Future. Più tardi ancora, tra me e Fiorella risuonavano i nostri sospiri. Con lei mi perdevo fino all’alba nelle forre, dove l’assiolo gridava al buio e gli rispondeva il fischio del chiurlo dalle cime più alte dei pini.
Era bello sotto le stelle, il tempo lo permetteva, l’idea ci piaceva. Ci procurammo torce elettriche e sacchi a pelo. Omen era una tenuta vasta una trentina di ettari e si estendeva su un suolo la cui conformazione variava dalla piana al piccolo burrone, alle coltivazioni, al letto di ciottoli di un torrente prosciugato.
Dopo la giornata durante la quale avevamo lavorato, suonato, bevuto, parlato tutti fino a sfiatarci, verso le due le nostri mani calamitate si serravano e ce ne andavamo nel buio a sistemarci, lontanissimi, solitari, a ridosso d’una siepe selvatica che incrociava un nero boschetto.
— E la tenuta? — le chiesi una di queste notti. — Di chi è?
— E’ in gestione. Minacciava di cadere in completo degrado. Leo riuscì ad avere delle sovvenzioni a fondo perduto, erano previste per salvare vecchie strutture come questa. Nel Salento, in tutta la Puglia ce ne sono dozzine. Si mise d’impegno e realizzò grosse migliorie.
Lo disse con entusiasmo. D’altronde lei in quella terra era nata e l’amava, così come era innamorata di certe vecchie storie della sua gente, che a volte le piaceva raccontarmi.
Ci stendemmo contro il tronco d’un albero sistemando le nostre poche cose.
—— Hai provato anche tu la Polvere —— dissi: più che altro una constatazione.
La profondità della notte amplificava le sensazioni. Non un alito di vento. Tepore dalla terra, cielo da fare l’invidia d’un astrofilo di città, rumori smorzati da luoghi ignoti distanti decine di chilometri. Ogni tanto scricchiolii, fruscii, un paio di occhi gialli nel buio per il transito fulmineo di piccoli animali notturni.
— Macché! Non l’ho provata affatto — rispose Fiorella ridendo. — Anche se Leo ha insistito due o tre volte.
Ero sorpreso. — Come mai? Per me è stata, anzi è, un’esperienza… indicibile. Sei qui, Fiorella, e ancora non hai idea di dove veramente sei!
— Oh — si limitò a dire lei, accostandosi e abbracciandomi. Odorava di estate, di spazi aperti, di bellezza. — Tienimi vicina, ti prego. Anche a me sembra di sognare. Ma non per la stessa cosa che pensi tu.
— Che vuoi dire? Non sei… convinta di Omen?
— Lo sono totalmente — ribadì lei — e per rendermene conto non ho bisogno di polverine. D’altronde tanti non l’hanno provata, qui, eppure si sentono altrettanto coinvolti. A me basta questo: sapere che Omen esiste, e soprattutto esiste il Grande Teorema.
— Lo dici quasi con tristezza — notai contrariato.
— Davvero? — Tacque qualche attimo. Poi aggiunse quasi in un sussurro: — C’è una leggenda, da queste parti…
Capii che voleva raccontarmi una di quelle storie fantasiose che le piacevano tanto. La interruppi:
— Sì, ma prima… — La baciai all’improvviso, nella foga quasi la spogliai. “Fiore”, di nome e di fatto. — Sentiamo questa storia — concessi — ma fai presto!
Ridacchiò. — Non è molto allegra… Insomma, c’era “lui”, uno come tanti, ammaliato da una creatura straordinaria che si chiamava Redelìa e aveva poteri magici: era capace di trasformare le cose e le persone. Suo padre era contrario a questo amore. Per sfuggirne le ire Redelìa allora usò il potere: mutò se stessa in fiume e il suo innamorato in pesce. Ma il genitore scagliò la sua maledizione: “Che non possiate mai essere felici insieme”, disse.
Se questa storia nascondeva un senso anche per noi, io non riuscivo a coglierlo e neanche Fiorella, che tuttavia ne restava turbata.
— Credi veramente alle tue favole? — dissi.
Si riaprì al sorriso rispondendomi di no. Eppure proprio lei e io ne stavamo vivendo una.
La fine di agosto ci trovò all’apice del lavoro teorico. Nelle nostre azioni cresceva una gratificante consapevolezza. Alle riunioni di lavoro si vedevano occhi brillare più del solito, le mansioni defatiganti erano affrontate con allegro entusiasmo, l’aria si caricava di elettricità. La Grande Speranza si percepiva sempre più prossima, quasi palpabile. Con le sue perifrasi e similitudini matematiche, Leo spiegava che Omen era un sottoinsieme dell’insieme mondo, e che questi due oggetti stavano per entrare in un rapporto fortemente dinamico. Una notte, mentre eravamo tutti a far musica all’aria aperta, nel frastuono colsi alle mie spalle un lungo dialogo concitato. Voci forse note, ma che non mi sforzai di identificare. Compagni di viaggio che dirimevano una loro questione. La sera seguente Fiorella disse:
— Stamani Leo e Philo, il chitarrista, hanno avuto un alterco nei campi. Per dividerli sono dovuti intervenire Glauco e Irene.
— Non sarà la prima volta che succede una cosa del genere — replicai scherzando. — Non esageriamo: vogliamo negare a Omen il diritto a qualche sano litigio?
— Assolutamente. Ma è una cosa che ha colto tutti di sorpresa: non hanno mai avuto occasioni d’attrito, quei due. E non hanno lasciato trapelare nulla sui motivi.
— Sarà qualche banale questione privata. Anch’io litigherei, se per esempio ci fosse di mezzo la mia Fiorella…
— Qualcuno pensa che si tratti di Omen.
— Oh… Magari sono in disaccordo su dettagli di attuazione dei programmi. — Lasciai cadere la cosa. Ad esempio, immaginai, diffondere il teorema di Pitagora via tv o via rete poteva comportare differenze, forse anche grosse, ma non certo nella verità del teorema medesimo. Sapevo Philo e Leo persone troppo responsabili e convinte per commettere qualunque sciocchezza.
Ma alcune sere dopo le musiche e i canti furono interrotti da una nuova discussione; riudii le stesse voci della volta precedente, e rammaricato constatai che i due che s’azzuffavano e urlavano erano ancora Philo e Leo, stavolta al centro dell’aia.
Si creò all’istante un silenzio profondo. Era molto tardi, i faretti regolati sul minimo. L’intera scena aveva un’apparenza di irrealtà. Ma era tutto molto concreto. Udii Philo scandire iroso:
— …d’accordo, ho il progetto sempre ben chiaro qui dentro — si portò una mano alla tempia. — Ma ti dico che qualcosa non funziona. Avanti, Leo: parlane ora una volta per tutte!
Leo replicò con calma, quasi sferzante. Il volto si era indurito, appuntito, quasi non sembrava lui. — Tranquillo, Philo. Noi non possiamo non andare avanti, perché possediamo la dimostrazione delle nostre ragioni. Volere tutti la “meta”, scorgerne chiaramente i sentieri, significa prima o poi raggiungerla.
— Volere tutti? — schernì Philo. — Se non vuoi parlarne tu lo dico io. — Con un balzo fu sul palco, in piena vista. Gridò: — Signori, abbiamo la via maestra per il paradiso, la felicità dietro l’angolo. Eppure… c’è chi va via da Omen.
— Bugiardo — sparò Leo. — Detto così è fuorviante. Anzitutto chi se n’è andato non ha provato la Polvere e…
Non vidi chi e perché incominciasse, l’acustica era buona e me n’ero rimasto nelle retrovie. Qualcuno, mi venne poi riferito, aveva preso ad azzuffarsi. Leo ricevette un pugno in pieno viso, in pochi secondi l’area sotto il palco ribollì come onde in tempesta. Il ciclone si allargava. Assistevamo increduli a qualcosa di inverosimile, di cui non si capiva la ragione. Ci guardammo sconcertati. Scorsi Glauco, Fara, Maurice, tanti altri: un’occhiata e fummo d’accordo, occorreva fermare subito quell’assurdità le cui vere cause andavano sicuramente cercate altrove. A gomitate avanzammo verso il palco, ma la zuffa si propagava ancora. Non so per quanto si protrasse, almeno una ventina di minuti, mezz’ora; ricordo solo che divenne furibonda, feroce e nessuno fu in grado di venirne fuori indenne a partire da me, che pur dissentendo mi ero infervorato, perdendo la ragione. Mi ritrovai pieno di raschi, contusioni e con uno zigomo spaccato.
Alla fine si ristabilì una calma precaria. Serpeggiavano ancora elettricità, urla, imprecazioni, focolai di rissa, gente scaraventava oggetti per aria e forse era solo un interludio quando, fra grida e invettive, emerse l’immagine di Fiorella sul palco come un’apparizione. La luna le inargentava la lunga veste, rilucente come quella di una dea. Afferrò il microfono:
— Basta! Abbiamo validi motivi da opporre alle parole di Philo. E’ sciocco valutare Omen illudendosi di una sua crescita costante, in realtà non sappiamo ancora come funziona questa cosa ma ragioniamo: qualche defezione non deve preoccuparci, può essere fisiologica. Il lavoro che ci aspetta non è facile ma ha ragione Leo: l’inevitabilità della meta è viva dentro di noi. Una certezza che nessuno, qui o altrove, potrà mai contestare!
Il richiamo appassionato di Fiorella fece vibrare molti animi… Il mio fra questi. In breve tutto si spense in un’immobilità e un disordine quasi irreali.
Ma da quella notte Philo non fu più visto a Omen.
Mentre varcavo i cancelli di Omen alzai gli occhi e mi capitò di leggerne l’insegna al contrario: NEMO. Era settembre, il furore dell’estate si spegneva nelle carni, nella mente e nella terra. Dal cielo traspariva un velo, un presentimento d’inverno. Controllai ancora il mio borsone, riposi l’armonica, avviai l’auto per il viottolo stretto di terreno battuto e pietrisco muovendo lentamente verso la statale, verso Marisa diligente, remissiva, legata alle minime banalità terrene; verso le convulse cose meschine della mia vita. Addio Leo, addio Fiorella dolcissima.
Per quanto mi sia sforzato di ripensarci, non ho mai chiarito i reali motivi per cui io stesso uscii da Omen. Ricordo comunque che dopo Philo c’erano state altre defezioni; Leo evitava di parlarne. A volte mi sono detto: oggi l’idea di Eden può creare un problema ulteriore. Rimette in discussione tutto, dal banale atto quotidiano alla decisione più impegnativa. Oppure: sarà colpa dei tempi. I tempi d’oggi trascinano, fanno attrito e zavorra, non invogliano, inseguono altro. Stancano.
Ma ho anche arguito che, verosimilmente, la discussione tra Leo e Philo aveva ragioni più profonde e preoccupanti, e Leo doveva aver mentito. D’altronde io stesso sperimentai una notte la Polvere-delle-stelle…
Se torno con la mente a Omen, mi accade di ritrovarla acquattata nel fondo dei miei ricordi simile a un caldo raggio di luce dorata, nell’acido disagio dell’aberrazione quotidiana. E devo ammettere che il progetto, la meta, restano sempre vividi in me come insegnò Leo: sono una segreta ferita sanguinante che brucia ancora dentro. Stupito, constato che la meta, una volta conosciuta, non si può cancellare. Come pietrificato dalla maledizione di un dio resto in attesa, immerso in queste sabbie mobili.